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Un piccolo dono agli amici di Bologna.

Post n°28 pubblicato il 26 Settembre 2007 da foudefois
 
Tag: gianni

 SERENA

Era il papà. No.

Era la mamma.

Serena si accucciolò a più non posso, nell’angolo estremo del letto, quello sinistro, dove il muro baciava l'altro muro e lei aveva appiccicato una cicca che per tirarla via era venuta via la vernice. Doveva prenderle quella volta lì. Mamma incaricò papà, ma papà era troppo buono. La graziò. Lei lo ringraziò. E l’avrebbe ringraziato per tutta la vita.

Serena aveva sperato che fosse papà. Perchè le piacevano di più le favole raccontate da lui. Perché lui le inventava o credeva di inventarle. Poi alla fine erano sempre la stessa favola. Da metà in poi prendevano una piega che ormai Serena sapeva a memoria dove portava. Erano storie di animali in difficoltà per un carattere bisbetico, una deficienza congenita, un topo che si era incastrato nell’esofago, un dente che si era conficcato in un tronco appena segato. Poi arrivava lui, l’eroe, Oliviero Colombo Sincero e sistemava tutto. Serena ascoltava rapita la prima parte della favola raccontata da papà, che somigliava alle altre storie raccontate da papà. Assomigliavano a papà. Poi lui cominciava a sbadigliare e a confondere i personaggi per il sonno. O forse per il buio. O forse perché mamma lo aspettava di là. Serena si accorgeva quando mamma spegneva la luce e papà cominciava a confondere i personaggi e a sbadigliare. Allora saltava via dall’angolo della cicca appiccicata e correva attraverso la porta lungo il corridoio buio fino alla cucina, fino al frigo che aveva appena imparato ad aprire, lo apriva e prendeva la bottiglietta di birra. Poi tirava il cassetto e rovistava fino a quando non gli veniva in mano il cavatappi marchiato Menabrea. La birra del papà. Una birra che non c’è più.

Tutto al buio apriva la birra. Tuta eccitata correva in camera e la porgeva a quell’ombra che seduta di fianco al suo letto, tirate due golate, riprendeva la fiaba dal punto dello sbadiglio e la portava fino a dove Oliviero arrivava in soccorso al topo inghiottito dall’ ippopotamo, all’ippopotamo impantanato nella palude col coccodrillo che stava arrivando o all’aquila che stava precipitando da tremila metri per un colpo di sonno.

Poi si rificcava nel letto già quasi addormentata, papà beveva d’un fiato la birretta. Finiva in fretta la fiaba. Oliviero allontanava con uno stratagemma il coccodrillo dall’ippopotamo impantanato, svegliava l’aquila prima dell’impatto col suolo, faceva un rutto e poi la baciava sulla guancia e lei si addormentava. Papà sapeva di birra. Serena non sapeva ancora che la birra fosse amara.

Poi papà andò via per un po’ e mamma le raccontò che era andato a salvare un suo militare che era salito su un traliccio dell’alta tensione e stava per restare fulminato.

Mamma aveva insistito perché la loro bambina si chiamasse Serena. Papà aveva dato il suo consenso senza opporsi, non si capisce perché la mamma continuava a ripetere che “lei aveva insistito, aveva fermamente voluto, aveva combattuto perché la sua bambina si chiamasse Serena”. Serena non aveva mai capito perché, contro chi, la mamma avesse dovuto combattere per chiamarla con quel nome come se uno che lo chiamano Felice debba per forza avere una vita tutta felice. Tutta felice come una Pasqua. Papà faceva ridere quando faceva quei ruttoni. Ma non voleva che si ridesse. Anzi voleva che si facesse finta di niente. Serena l’aveva capito subito e faceva finta di niente. Si tappava il naso per non ridere, tanto al buio papà no la vedeva che si contorceva e rideva con le labbra, tappandosi il naso. Quando però papà aveva finito la storia di Oliviero e si chinava per baciarla lei non rideva più. Anzi, si sentiva seria come la principessa sul pisello. Quella principessa che non rideva mai. Quelle principesse che comparivano nelle fiabe della mamma. Che sapeva soltanto le fiabe del libro delle fiabe, quelle fiabe coi rospi,  i lupi e le volpi, quelle fiabe che finivano sempre bene,  con la pancia del lupo pieno di mattoni e pinocchio che finalmente diventava un bambino in carne e ossa. Serena si era quasi innamorata di Pinocchio. Avrebbe voluto tenerselo con lei nel lettino e accarezzargli il naso tutta la notte, dopo che papà era tornato di là con la mamma. Dopo che la mamma l’aveva chiamato due volte. Dopo che le aveva dato il bacio e dopo che Oliviero aveva tolto il topo incastrato nell’esofago e dopo che la birra era finita e la notte incominciava per davvero con quelle favole strane dove  non c’era più scampo per nessuno delle volte e le torri crollavano e Serena cadeva a testa in giù nel vuoto o si ritrovava nuda sul balcone piena di vergogna e urlava perché le aprissero la porta a vetri del balcone e la facessero andare a prendere la birra per papà. Nel frigo. O quando sognava di svegliarsi nel frigo.  Quando si svegliava nel freddo umido. Che l’aveva fatta nel letto. E mamma si arrabbiava. Papà non s’arrabbiava più. Papà era via. Era andato a salvare il commilitone fulminato sul palo della luce in Medio Oriente.

Mamma stirava le divise di papà, ma non accendeva più la radio.

Mamma ritirava in una valigia di cartone verde le camicie di papà ma non cantava più.

Mamma non raccontava più le favole.

Papà non aveva ancora finito di tirare giù dal traliccio il ragazzo in divisa che aveva toccato i fili della corrente.

In frigo erano rimaste sei birrette marroni. Gelate.

Bisognava spegnere la luce per non consumare. Ma Serena poteva tenerla accesa un po’ di più prima di addormentarsi e poteva mangiare le cicche e aveva provato ad appiccicarne una sul muro e la mamma l’aveva vista e la cicca era diventata dura e la mamma non si era arrabbiata, la mamma non si arrabbiava più, la mamma faceva la mamma e faceva anche il papà. Andava a pagare le bollette, discuteva col signore che era venuto ad aggiustare lo scarico del lavandino. E aveva fatto lo stupido uscendo: “un giorno te lo spiegherò cosa vuol dire fare lo stupido con una signora, disse la mamma alla serena. Una volta la mamma fece anche un rutto. Risero a crepapelle tutt’e due.

Allora Serena ne approfittò, che la mamma rideva e  le chiese di raccontarle lei le favole, intanto che tiravano giù il papà dal palo della luce.

“Ma il ragazzo l’hanno tirato giù?”, chiese Serena.

“Sì”, rispose mamma.

“Il papà gli ha salvato la vita, a quel ragazzo. Solo lui ha avuto il coraggio di salire lassù e staccare il ragazzo dai fili”

“Come Oliviero”

“Oliviero?”, chiese la mamma a Serena che masticava una cicca che erano tre cicche impastate insieme ed erano durissime da masticare.

“Non mandarle giù”, disse la mamma.

Serena non aveva più bocca per rispondere.

“Sputala”, disse la mamma.

Serena scosse la testa.

“Sputala!” ordinò la mamma.

Serena continuò a masticare riempiendosi la bocca di saliva.

“Sputala o te la faccio sputare a suon di sberle!”, urlò la mamma.

Serena tirò fuori la lingua con appoggiata su la cicca gigante. Poi ritirò la lingua in bocca come il camaleonte quando mangia l’insetto, come le aveva raccontato il papà quella volta che non c’era più nemmeno una birra in frigo e lei era tornata in camera con un chinotto.

“Sputala Serena o come è vero Dio ti schiaccio sotto i tacco come è vero Dio ti ci appiccico io al muro e non ci sono santi che ti vengono a staccare, com’è vero Dio ti faccio a pezzi e di faccio venire a prendere dall’idraulico”

Serena sputò la cicca perché l’idraulico non ce lo voleva più in casa. Tra poco sarebbe tornato papà e quel l’idraulico papà l’avrebbe fatto a pezzi, com’è vero Dio, quell’idraulico lì  l’avrebbe appiccicato al muro, quell’idraulico lì che aveva fatto lo stupido con una signora. Chissenefrega della cicca.

“Però adesso mi racconti una fiaba, se no me la rimetto in bocca….”

“Va bene”

“Posso appiccicarla al muro, nell’angolo del lettino?”

“Va bene”

Vabenevabenevabenevabene. Quando si dice, così pensò Serena, …vabbè. Vabbè. Vabenevabenevabene. Bon.

La mamma si sedette sulla sedia impagliata della nonna.  Con le mani sulle ginocchia, gli occhi un po’ sbarrati. Senza orecchini e col fazzoletto ricamato stretto in una mano. Aveva un maglioncino nero e la gonna nera con una macchia di unto all’altezza della coscia sinistra. Niente rossetto. La stufa era spenta. Il frigo borbottava. Forse la mamma voleva piangere.

“Serena…ti voglio bene. Ma andiamo a letto, ti prego”

“Mi racconti la fiaba di Oliviero?”

“Non la so. Papà, la sapeva”

“Un’altra”

“Un’altra , sì. Non vuoi niente da mangiare?”

“Ho mangiato la cicca”

“Cicca non è mangiare”

“Perché hai combattuto per chiamarmi Serena?”

“Perché non sapevo quello che sarebbe capitato”

Serena non insistette sul nome. Ma sulla fiaba sì.

Mamma si sedette di fianco al letto dove Serena si era accucciolata dopo essere rimasta in mutandine e canottiera. Quella con le fragole.

Anche la mamma andò di là a mettersi la camicia da notte e tornò nella stanza di sua figlia. Col fazzoletto stretto nell’altra mano. La mano cattiva. Quella che non si bisogna usare mai, né per scrivere, né per impugnare la forchetta. Mai.

La mamma cominciò la fiaba.

“C’era una volta una volpe”

”La volpe è furba”, interruppe Serena.

“Sì”

“Questa volpe furbissima, aveva un intuito straordinario. Non c’era neanche bisogno di dirle le cose”, continuò la mamma.

“Le capiva”, disse la bambina.

“Sì”

La mamma era avvolta nel buio. La sottoveste era nera.

“Dove stava, di casa, la volpe?”

“In quel posto là dove…”

“Dove c’è l’uva…?”

“No, quella è un’altra fiaba. Una fiaba che io non conosco”

“Allora dove?”

 “Dove si aspetta…”

“Cosa?”, chiese Serena.

“Dove si aspetta e basta”

Forse la mamma piangeva.

“Il lupo?”, chiese Serena.

La mamma si passò il fazzolettino ricamato del corredo dalla mano brutta a quella bella, poi se lo strofinò su un occhio. Il frigorifero borbottava in cucina. Tutte le luci erano spente. Forse la mamma non sapeva come continuare la fiaba

“Il lupo si faceva aspettare.”

“Cercava di salvare un tasso che era rimasto  impigliato in un cespuglio di spine”, continuò Serena.

“La sai già?”, chiese la mamma..

“Forse…prova ad andare avanti”

“La volpe aspettava, e intanto si lisciava il pelo rossiccio e si spruzzava un po’ di deodorante sotto le ascelle”

“Perchè le volpi hanno un odore forte…”

“Un odore forte, sì.”

“Ai lupi piace”

“Ai lupi piace da matti”

“E’ difficile da raccontare ‘sta favola qui. Un giorno la capirai meglio, senz’altro…”

“Come la storia dell’idraulico”

“Sì ma l’idraulico faceva lo stupido. Il lupo…”

“Il lupo è il lupo.”

“Il lupo è il lupo…”, confermò la mamma.

“Perché hai dovuto lottare per chiamarmi Serena?”

“Boh…Ho fatto male?”, chiese la mamma sbadigliando.

“Hai fatto bene”.

Poi la mamma si appoggiò la mano cattiva sulla pancia. Ma non proprio. Un po’ più in basso. E fece il gesto della volpe che si lisciava il pelo rossiccio, aspettando il lupo.

Serena stava per addormentarsi. Aveva già incominciato ad immaginare di accarezzare il naso di Pinocchio. Poi la mamma si zittì di colpo.

Allora lei si ridestò dal dormiveglia. Balzò dal letto e corse in cucina, per prendere la birra. Come faceva con papà..Aprì la porta del frigo, ma non trovò neanche più una birra.

Tornò in camera sua.

La sedia era vuota.

Staccò la cicca dall’angolo e se la rimise in bocca. 

 

 

 

 

 

 

 

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