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IL SISTEMA SALERNO

Post n°163 pubblicato il 28 Maggio 2016 da francomari4
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il deluchismo

C'è un motivetto che risuona puntuale ogni volta che la città di Salerno è chiamata a rinnovare il suo Consiglio comunale e il suo Sindaco. Il ritornello dice che non bisogna parlare di De Luca, che non si deve "personalizzare" la campagna elettorale, che è necessario puntare esclusivamente sul programma, senza cadere nell'antideluchismo. È una tesi sbagliata, rispettabile se espressa in buona fede, ma molto pericolosa. Un potente freno per il cambiamento. Tanto è vero, che chi ha intonato questo refrain ha sempre fatto coppia fissa con gli eterni cercatori di "un'alternativa valida", quelli che alla fine dichiarano di votare per il più forte obtorto collo, solo per ottemperare al dovere delle urne e, "senti senti", per contrastare le destre. 

No, nella ricostruzione della nostra vicenda politica locale non dobbiamo avere paura di usare il termine deluchismo, né, addirittura, di osare un paragone, fatte le dovute proporzioni, con il berlusconismo. Tutti i cicli politici significativamente lunghi, che coincidono con l'affermazione di personalità singolari, hanno elementi comuni e, comunque, si guadagnano sul campo l'uso del suffisso ismo in coda al nome del protagonista principale. Anche nel nostro caso non può essere ignorata la forza di una profonda corrispondenza tra società e vita politica, tra comunità e governo delle istituzioni durata quasi un quarto di secolo. Questa abilità nel dominare la scena pubblica, nel capire le leve del consenso per un tempo così lungo, deve per forza nascere da una rilevante capacità di lettura e di relazione con la società, che produce sempre, giocoforza, trasformazioni profonde, un sedimento che va ben oltre la parabola degli individui.

Così è stato per il berlusconismo sul piano nazionale, questo è il deluchismo a Salerno, gli esorcismi non servono, negarlo equivale a non capire, a non essere capaci di un ruolo, di un'idea, di una proposta alternativa. Una parte politica che si propone di aprire una contesa sul terreno del governo locale, ma elude questo livello di analisi non è evidentemente all'altezza del suo compito. Non si tratta affatto di parlare di De Luca, parlare di deluchismo significa parlare di Salerno e di noi stessi dal 1993 ad oggi. Significa delinearne i tratti e gli effetti sulla società salernitana nel suo complesso, individuando, a partire da ciò, il percorso politico e culturale del suo superamento, ovviamente consapevoli del fatto che, ancor più di quanto il berlusconismo abbia condizionato e modificato tutti noi, il deluchismo è gran parte della nostra storia recente e non mancano specifiche responsabilità anche in capo a chi, come noi, ha saputo rimanere a distanza di sicurezza dal potere ed è stato in grado di non subirne il fascino.

Anche il deluchismo, quindi, va molto più in là e molto più a fondo del suo diretto "protagonista", ma soprattutto non può essere liquidato con un giudizio sommario. Abbiamo invece il dovere di svolgerne un'analisi, una prima ricostruzione a oltre venti anni dal suo inizio, se non altro perché cominciare a scrivere di una storia equivale sempre, in qualche misura, a segnarne l'inizio della fine.

La costruzione di un'identità

Nel 1992/93 De Luca ha potuto beneficiare di due eredità importanti, che sono state poi decisive per la costruzione della sua impresa politica: una città sostanzialmente incompiuta, anche se un percorso di rinascita attraverso opere pubbliche era stato avviato (c'è già lo stadio, la tangenziale, il corso pedonale, per dirne solo alcune); un gran numero di idee nate nei luoghi di discussione delle organizzazioni democratiche, in particolare della sinistra. Ma con questo non spieghiamo quasi niente se non diciamo che il deluchismo ha avuto la capacità di occupare tre spazi vuoti nell'identità della comunità salernitana. Tre deficit che ovviamente si intrecciano, che spesso si sovrappongono, che stanno in ragione dialettica tra di loro e che, quindi, distinguiamo solo per comodità del ragionamento.

In primo luogo l'assenza di un'identità culturale, di una storia condivisa. Una difficoltà relativa al senso di appartenenza alla città come luogo delle origini, dei valori comuni, del rapporto tra famiglia e territorio. Questa è la città d'Italia che più è cresciuta dalla fine degli anni cinquanta alla fine degli anni sessanta in seguito ad un processo migratorio limitrofo, dal Cilento, dalla Lucania, dalla provincia di Avellino, che la porta a raddoppiare gli abitanti dagli 80.000 del dopoguerra a quasi 160.000. Negli anni settanta la maggioranza dei residenti non era nata a Salerno. Vivevano qui ma non erano pienamente salernitani, non si sentivano ancora tali. Il deluchismo arriva al momento giusto per colmare questo vuoto. Dà loro per la prima volta all'inizio degli anni 90 un senso pieno di appartenenza alla comunità salernitana. Ovviamente ciò avviene anche perché è passato del tempo, i figli sono cresciuti qui, hanno costruito qui le loro relazioni, il legame con il paese di origine si è fatto più blando. Fatto sta che arriva "Solo per Salerno", uno slogan gridato anche nelle curve dello stadio, il suggello al compimento di questo processo e la fine dello "spaesamento" per le stesse famiglie autoctone che avevano subito ben due sradicamenti, dopo l'alluvione e dopo il terremoto.

Della conseguente assenza di un'identità urbana, di un rapporto quasi inesistente con l'ambiente cittadino, parla anche Bohigas. Questa volta si tratta dell'assenza di identificazione con la città intesa come spazio comune, come luoghi che rimandano a relazioni. Quei salernitani di cui abbiamo parlato prima erano i fruitori "quasi inconsapevoli" di uno straordinario esempio di consumo di territorio, di un'urbanizzazione selvaggia che aveva consegnato loro una città assolutamente disomogenea dal punto di vista delle funzioni, della vivibilità e del rapporto con l'ambiente. La stragrande maggioranza di loro non conosce per nulla il centro storico e non ha nessuna relazione con il mare. La suggestione del nuovo piano regolatore occupa di prepotenza questo terreno fertilissimo e dà l'impressione ai più di diventare protagonisti nel ridisegno dello spazio urbano. Poi le prime opere, alcune delle quali di grande interesse pubblico come il Parco del Mercatello, le fontane, le infrastrutture messe in cantiere, non da ultimo l'opportunità offerta dal programma comunitario Urban per riqualificare il centro storico, fanno toccare con mano questa possibilità.

Infine, l'assenza di un'identità economico-produttiva. Salerno non è una città con una presenza operaia significativa. Gli agglomerati industriali più importanti sono in provincia, nella piana del Sele e nell'Agro Nocerino-Sarnese. Comunque la provincia di Salerno è l'unica della Campania a registrare l'assenza dell'industria a partecipazione pubblica, fatta eccezione per le MCM, e della grande industria. I servizi ed il commercio sono la principale fonte di reddito. La "città turistica" si propone di colmare anche questo spazio vuoto. In verità è l'unico aspetto della propaganda deluchiana che incontra qualche resistenza: sia da parte del sindacato che dalle organizzazioni datoriali. Ma è una prospettiva che finisce con l'affermarsi quasi di prepotenza con il corso degli eventi, sia in seguito alla crisi dell'apparato industriale, di fatto assecondata, che per effetto del forte legame che il sindaco stabilisce con una parte dell'imprenditoria locale legata al settore delle costruzioni e alla speculazione immobiliare. Così anche a Salerno, quando le fabbriche non ci sono più e l'edilizia sembra salva grazie alla benevolenza della mano pubblica, il turismo diventa, come in altre parti del mezzogiorno, la panacea cui si aggrappano i destini di intere generazioni.

Il sistema di potere

Su queste fondamenta si edifica nella prima parte della sua esperienza il cosiddetto "Modello Salerno", che com'è noto diventerà tutt'altro, ma non sarebbe neanche nato senza questi presupposti. Su questa narrazione prende forma il rapporto di fiducia con la maggioranza della città, rapporto che però assume abbastanza presto le sembianze di un classico sistema di comando, capace di alimentarsi autonomamente e di autoriprodursi. Con tutti gli ingredienti caratteristici delle concentrazioni di potere in poche mani, non senza qualche originalità e soprattutto molti eccessi, molte versioni addirittura parossistiche dei mali comuni della politica, in particolare quella meridionale.

Con il tentativo di ricostruire una mappa del potere deluchiano si sono cimentati in molti, soprattutto giornalisti, che lo hanno fatto in modo anche corretto ed efficace. Come tutti sanno il puzzle si compone di molte tessere, dalle società partecipate alle cooperative, dai protettorati nel campo della produzione culturale alla gestione degli spazi pubblici, dal rapporto con il mondo imprenditoriale agli stretti legami con interessi legati al mattone e alla rendita immobiliare. In questi ventitré anni, il grido "arricchitevi, arricchitevi, arricchitevi" ha continuato a risuonare, facendo la "fortuna" di alcuni, pochi, e cadendo nel vuoto per tanti altri.

I dettagli sono facilmente rintracciabili nelle tante inchieste prodotte in questi anni, ma a noi preme innanzitutto trovare il bandolo della matassa, perché anche il mix di consenso e controllo, ingredienti indispensabili nella ricetta del populismo da quando mondo è mondo, ha qui caratteristiche davvero originali, se non uniche; al netto di fattori "storici" che hanno segnato, anche se in misura diversa, tutti i governi locali dal ‘92 in poi.

La "stagione dei sindaci" infatti ci ha messo del suo e almeno in questo caso ha fatto sicuramente più danni che altro. Ovunque i nuovi poteri e una stabilità di governo mai vista prima hanno prodotto una personalizzazione della politica che, come mai in precedenza, è diventata tutt'uno con la vita stessa delle istituzioni elettive. Fino a determinare, nel bene e nel male, una piena identificazione tra attori della politica e segni del cambiamento.

Nella lunga costruzione del "Sistema Salerno", quindi, hanno avuto un peso anche gli strumenti messi a disposizione dalla nuova legislazione sugli Enti Locali, utilizzati però con l'occhio strabico di chi invece non vedeva altre innovazioni introdotte dalla normativa: quelle tese, per contrappeso, a rafforzare la partecipazione diretta dei cittadini alla vita della comunità locali. Questo tipo di consenso, ademocratico per definizione, è sempre figlio del decisionismo, che a sua volta non può fare a meno di una contrazione degli spazi democratici.

La democrazia mortificata

Le Circoscrizioni e il Referendum municipale sono stati i nemici giurati di De Luca nelle sue prime due consiliature. Il castello in costruzione poteva non reggere alla prova del tempo in caso di prevedibili sollecitazioni dal basso. Salerno diventa la città dove la democrazia partecipativa viene descritta come una "perdita di tempo". In realtà Circoscrizioni e Referendum erano istituti resi inutili perché sapientemente sostituiti, le une da comitati di quartiere "fatti in casa", l'altro dalla tribuna televisiva del venerdì. Così, mentre il dibattito nazionale si interessava ad esperienze avanzate, come quelle di Porto Alegre, chi invocava quel modello in Consiglio Comunale veniva addirittura deriso.

L'allora Sindaco di Salerno non ha solo contrastato le Circoscrizioni, le ha combattute, ha condotto contro questo istituto una vera e propria guerra personale: prima osteggiando e rendendo inefficace il lavoro dei Consigli circoscrizionali nel loro breve periodo di vita per dimostrarne l'inutilità, poi portando a casa il risultato, sul piano legislativo, della loro eliminazione per i Comuni della nostra fascia demografica. Un passaggio della nostra storia troppo frettolosamente archiviato, sottovalutato nei suoi effetti, almeno quanto la pervicace ostinazione nel negare i regolamenti attuativi del referendum.

Il controllo sociale

La trasformazione del consenso in sistema di controllo sociale ha sempre qualcosa di fisiologico, ma diventa malato e pericoloso quando si riproduce per coercizione, occupazione di ogni spazio, negazione della pratica democratica vista come ostacolo al verbo. Solitamente le comunità locali sviluppano anticorpi contro questo tipo di degenerazioni. In modo più o meno consapevole scelgono una alternanza nelle cariche di governo proprio per evitare una cristallizzazione del potere che non solo diventa sempre più difficile da rimuovere, ma costituisce, sempre di più, anche un ostacolo per lo sviluppo.

Ai salernitani è mancata questa lungimiranza. Siamo un caso unico: la nostra storia recente coincide pienamente con un sistema di potere locale, immutabile e longevo come nessun altro. Un sistema che solo un'osservazione superficiale può farci considerare semplicemente esagerato, un caso limite dal punto di vista della capacità di occupare ogni interstizio della società. In realtà non è così, il sistema di potere edificato a Salerno nell'ultimo quarto di secolo è del tutto anomalo, un vero e proprio inedito, anche nello scenario nazionale, che pure non si fa mancare niente da questo punto di vista. Altrove il potere, pur nella sua ricerca spasmodica del consenso e degli espedienti per conservarlo, mantiene una tendenza a dissimulare, a rappresentarsi diverso da com'è, a produrre contromisure tese proprio a sollevare una cortina fumogena su una realtà altrimenti odiosa.

A Salerno, invece, al di là degli slogan da campagna elettorale, la forza assoluta di chi comanda è ostentata, messa in mostra come un trofeo. Due esempi per capire meglio. Non esiste in nessun Comune di media dimensione che la stessa persona abbia fatto l'assessore, per di più sempre con la stessa delega, per quindici o venti anni. Qui è successo, non solo e non tanto per la forza elettorale e l'affidabilità di qualcuno, quanto per diffondere un'immagine di solidità e inamovibilità del sistema di potere.

Ma non basta, ancor più originale è il caso ripetuto dei dirigenti di partito e collaboratori diretti del Sindaco impegnati nei consigli di amministrazione delle partecipate. Da nessuna parte in Italia si è mai vista una cosa del genere. Anche altrove, ovviamente, le aziende a capitale pubblico sono sotto il diretto controllo dei partiti attraverso uomini messi lì apposta e assolutamente funzionali al sistema, ma mai c'è una duplicazione dei ruoli e l'uso esplicito di queste società per retribuire un impegno direttamente politico. I politici fanno i politici, i manager fanno i manager, anche se, come sanno tutti, al servizio della politica. Cosa produce tutto ciò? Un messaggio chiaro, prepolitico, che racconta di un potere che non ha paura di niente, che esibisce la sua potenza con la forza, anzi la protervia del vincitore assoluto. 

Con l'aggravante e l'uso predeterminato della violenza. Si, perché la violenza verbale è il tratto distintivo e imprescindibile dello stile comunicativo del capo. Fino a quel terrificante invito a "buttare a mare" i cafoni che avessero danneggiato un'opera pubblica appena inaugurata. Abbiamo provato invano a lanciare appelli all'indignazione collettiva, richiamando la funzione pedagogica della politica e le responsabilità etiche di chi occupa cariche istituzionali. Niente è accaduto perché questo piccolo impero locale sembra approfittare anche del vento della storia, del triste emergere di leader autoritari su tutta la scena internazionale, come ci ha spiegato Danilo Taino di recente.

Il modello politico-culturale

Anche per questo, senza esagerare, il deluchismo rischia seriamente di diventare un modello politico e culturale, una forma specifica del populismo, che infatti registra consenso anche oltre i suoi confini naturali. Non di meno perché, nel tempo della crisi della politica, è capace di produrre una rottura di tutti i parametri ad essa riconducibili. La parabola discendente dei partiti è ampiamente anticipata a Salerno: in nessuna città d'Italia capoluogo di provincia dal 93 in poi il PdS- DS-PD non presenta mai il suo simbolo nella competizione elettorale. L'attacco alla "politica politicante" viene portato proprio, incredibilmente, da chi, più di ogni altro, ne ha esercitato l'arte senza alcuna regola e nessun vero paradigma di riferimento se non la conservazione del potere.

Il deluchismo riesce a contenere, senza disagio, sia l'antipolitica che il trasformismo, li tiene incredibilmente assieme sotto lo stesso tetto: spara a zero sui partiti a cominciare dal proprio; è spregiudicato, sia nel fare accordi spuri prima che allargamenti delle maggioranze dopo, con il peggio della partitocrazia in vendita sul mercato. Alla luce del sole o sottobanco, con la stessa nonchalance, De Luca molto prima e molto più di Renzi sdogana e utilizza i voti della destra. È normale che oggi Salerno si presenti come il laboratorio più avanzato del Partito della Nazione.

L'alternativa necessaria

Non abbiamo svelato niente di nuovo o sconosciuto. Tutto ciò, paradossalmente, è senso comune, non c'è nessuno che lo neghi. Il problema più serio è proprio questo, l'assuefazione di un'intera comunità a ciò che altrove non sarebbe tollerato e, peggio ancora, il meccanismo di identificazione che si è prodotto e stratificato nel tessuto sociale e culturale della città. A questo dobbiamo dare una risposta costruendo una alternativa capace di partire dalla condizione materiale della società salernitana, sapendo bene che il lavoro che ci attende è lungo e va ben oltre la sfida contingente di questa campagna elettorale.

Nessun compromesso è possibile. L'impasto tra un'idea obsoleta di sviluppo, l'assillo per la conquista del consenso e il sistema di potere che si è prodotto nel tempo ha sclerotizzato, reso incapace di qualunque seria e sostanziale modifica il tratto culturale del gruppo di persone e di interessi che ha governato Salerno fino ad oggi. Il candidato Sindaco dei Progressisti esprime plasticamente questa condizione, per storia e ruolo sembra voler rassicurare la città sull'inamovibilità del sistema. Sembra essere stato scelto solo per questo. Dall'altra parte assistiamo invece, nel migliore dei casi, ad un radicalismo senza radicalità, privo della capacità di andare alla radice, dove tutti si candidano a rappresentare tutto, a prescindere dalla storia e dalle storie, semmai trovando la soluzione nella scrittura dei programmi da parte dei cittadini, con il risultato, scontato, di un ragionamento puntiforme e perciò inefficace, inadatto a contrapporsi alla logica lineiforme del sistema deluchiano.

La sinistra salernitana

Nessun altro, quindi, ha le carte in regola per tentare questa sfida. Dobbiamo farlo noi che portiamo addosso tutte le contraddizioni e le divisioni prodotte nel nostro campo da questi venti e più anni di governo della città: ruoli di maggioranza e di opposizione, condivisione di alcune scelte e dissenso totale su altre, giudizi articolati e contrasti frontali. Ma questa è la nostra difficoltà, ma anche la nostra forza. Se c'è un modo di superare positivamente questo ventennio esso sta nella nostra capacità di discernere alcuni risultati positivi che pure ci sono stati dai grandi danni prodotti dall'era De Luca.

Per questo non si potrà prescindere dalle componenti critiche della sinistra salernitana per costruire un progetto capace anche di ripensare l'idea di città per i prossimi decenni. Il ciclo che abbiamo descritto si è comunque concluso, può ripartire con nuova energia grazie alle promesse del governo regionale o essere messo in discussione dalla nostra capacità di andare a rioccupare gli spazi che si sono aperti tra le mille sofferenze delle famiglie salernitane, ribaltando integralmente il senso di quella suggestione tradita.

Dobbiamo, però, essere capaci di lavorare a fondo sul terreno dell'identità collettiva di questa città. Serve un progetto complessivo capace di indicare chiaramente il profilo di una Salerno migliore e di tutti, fondata su una diversa identità collettiva, sul lavoro come diritto diffuso e non come il prodotto di relazioni subalterne, sulla reale qualità della vita quotidiana dei cittadini.

Una bella città

Salerno è già bella di suo. Gran parte dei motivi di attrazione di cui dispone sono da ascrivere alla generosità della natura ed al modo in cui la storia ha lavorato su questo fazzoletto di terra.

A noi tocca puntare sulla valorizzazione di questo straordinario equilibrio e sulla qualità della vita degli abitanti di questa città come indicatore unico del suo progresso. Proponiamo di cambiare totalmente paradigma, di farla finita con la città "rospo": che si gonfia oltre le sue possibilità, contro le sue vocazioni, fino a scoppiare. Ma guai a pensare che questa nuova dimensione urbana, ma non di meno sociale e culturale, non più fondata sull'espansione come tensione costante, rappresenti una contrazione, un impoverimento della città.

Tutt'altro. Si tratta invece di ritrovare e mettere a sistema peculiarità, elementi di forza, specificità dei luoghi. Una visione che obbliga a tenere legati presente e futuro in una concezione moderna del vivere e del rapporto con la felicità. Il lavoro che abbiamo davanti è in massima parte un lavoro di ricostruzione, innanzitutto colturale, della città: il vero terreno su cui il deluchismo ha mostrato tutto il suo fallimento.

Ristabilendo un nuovo equilibrio, con la Resilienza, ovvero la capacità di un organismo, com'è una città, di adattarsi al cambiamento. Riparando le fratture, non nascondendole ma valorizzandole con l'oro e l'argento, come nella tecnica giapponese del Kinstugi. Non possiamo continuare a trasformare la città sulla base di un'idea ultraventennale, ampiamente superata dalle moderne teorie urbanistiche e per l'uso produttivo del territorio, ma soprattutto fondata su un'ipotesi di crescita demografica del tutto artefatta e strumentale. Una "smisurata e disordinata crescita di molte città che sono diventate invivibili dal punto di vista della salute" come ha sostenuto Papa Francesco nell'enciclica Laudato Si'.

Pensiamo che non si tratti solo di una costante degenerazione dei grandi agglomerati urbani, ma di un modello e di un vizio che investe anche piccole e medie città che guardano come un modello all'occupazione parossistica di spazio e al moltiplicarsi di funzioni inutili. Spesso devastando e mortificando il territorio per imporre soluzioni sbagliate che aggravano i problemi anziché risolverli.

Da questo punto di vista, il Crescent, piazza Alario, piazza Mazzini, le Terme Campione, il porticciolo di Pastena, le ex MCM sono la stessa cosa, vicende diverse per storie e dinamiche, ma identiche sotto il profilo delle motivazioni effettive che le sorreggono. Il prodotto malato dell'eccesso di contrattazione tra poteri pubblici e interessi privati. L'epifenomeno della disperata necessità di autoconservazione del sistema di potere, anche a nocumento della vita delle persone e della sostenibilità ambientale.

Un'altra Salerno

La Salerno deluchiana si definisce "europea" per evocare la modernità, invece è spesso inadeguata, quasi sempre sorda alle sollecitazioni del tempo presente, soprattutto alle migliori, a quelle capaci di intravedere proprio nei limiti dello sviluppo un'occasione per ridisegnare in termini nuovi il futuro delle città. Un limite particolarmente colpevole se si considera Salerno come un contesto ottimale per dimensione, collocazione, morfologia e patrimonio storico. Allora lanciamo la nostra sfida proprio sulla "città europea", o meglio cosmopolita.

Un progetto totalmente nuovo, fatto di piccole opere, grandi intraprese pubbliche, azioni e provocazioni, a basso costo e a grande impatto. Che abbia esplicitamente l'obiettivo di pensare una Salerno del futuro senza negare il presente, anche a partire dalle trasformazioni avvenute in questi anni. Un'idea originale e moderna in totale discontinuità con il metodo di governo e con la visione di città che conosciamo. Un progetto che richiede mente libera da pregiudizi ed eccezionale capacità critica.

Non possiamo sottrarci a questa sfida né affrontarla in modo ordinario, non possiamo permetterci di utilizzare uno solo degli schemi del passato. Dobbiamo avere il coraggio di chiedere una mano, un aiuto a quanti, dentro e fuori Salerno, hanno fatto sentire la propria voce critica e vogliano insieme a noi contribuire al superamento di questa lunga, per molti aspetti oscura, stagione salernitana. Questo è il momento di metterci la faccia, come si usa dire. Noi abbiamo fatto solo il primo passo.

 

 
 
 

Come uscire dalla crisi La città, chiave di volta della crescita

Post n°162 pubblicato il 15 Gennaio 2015 da francomari4

 

I centri urbani possono rappresentare il principio di organizzazione di un grande piano di investimenti mirato alla ripresa dell'economia. La tesi di un gruppo di oltre trenta economisti esposta in un documento DI R.CAPPELLIN, E.CICIOTTI

di Riccardo Cappellin*, Enrico Ciciotti**

La città, chiave di volta della crescita (autore foto: Latente, da flickr) (immagini di autore foto: Latente)

Dove trovare, nell'attuale contesto economico, un durevole percorso di crescita? E come avviarlo, senza attendere i tempi dell'Europa? La risposta è: nelle città e nella loro riqualificazione; con l'obiettivo di creare nuova occupazione, migliorare la qualità della vita e trainare lo sviluppo di nuove produzioni che diversifichino il made in Italy e promuovano una "rinascita industriale". A sostenerlo è un gruppo di oltre trenta docenti di economia industriale, regionale e urbana, del lavoro e macroeconomia, nel documento "La ripresa economica e la politica industriale e regionale", elaborato nel 2014, che si può leggere qui. Ne sintetizziamo qui analisi e proposte.

Cinque settori prioritari
I centri urbani, sia di natura metropolitana che di medie dimensioni, devono rappresentare la struttura di base o il principio di organizzazione di un grande piano di investimenti mirato alla ripresa dell'economia europea e italiana. Da troppi anni i governi hanno trascurato di investire nelle città, che ormai soffrono di un'evidente sottocapitalizzazione in termini d'investimenti pubblici e privati, nonché nella realizzazione, modernizzazione, manutenzione e gestione di nuove indispensabili infrastrutture.

Le città hanno il vantaggio sia di una grande diversificazione produttiva, che facilita la complementarietà delle competenze diverse, che di una forte contiguità o accessibilità, che facilita l'interazione tra i cittadini e le imprese, e questo promuove la creatività e lo sviluppo di nuove produzioni innovative. Le aree urbane possono essere il nodo di un nuovo modello di sviluppo dell'economia nazionale trainato dalla domanda interna di servizi nuovi e qualificati da parte dei cittadini.

In quest'ottica è necessario superare un approccio esclusivamente tecnologico (smart cities). Così come sono necessari sia una strategia di sviluppo economico che parta dalla domanda interna o dai beni comuni delle città e dai bisogni emergenti dei cittadini, sia interventi operativi capaci di un impatto significativo sull'economia nazionale e sulla qualità della vita dei cittadini. Pertanto, una strategia di "diversificazione intelligente" (smart diversification) del sistema produttivo italiano richiede che vengano individuate nuove specializzazioni produttive e le infrastrutture chiave mancanti. In generale si può immaginare una nuova economia industriale incentrata su "idee motrici/mercati guida" che raggruppano più filiere. 

Appare quindi prioritario concentrare gli investimenti nelle aree urbane, sia per il loro essere il luogo ove emergono per prima i nuovi bisogni e si concentra la domanda di nuovi beni e servizi, sia perché i centri urbani sono i nodi di infrastrutture territoriali e svolgono una funzione strategica nel valorizzare la connettività delle nuove reti materiali e immateriali, di trasporto di beni e di persone o di informazioni e conoscenze. Inoltre, si deve passare da una strategia orientata verso attori e progetti individuali a una strategia orientata verso attori e progetti collettivi.

Nelle città, quindi, si possono sviluppare "piani d'investimento" nei cinque settori prioritari di: housing, mobilità e logistica, energia e ambiente, cultura e turismo e salute, sanità e assistenza sociale.

Il ruolo delle città, nella nuova società della conoscenza, cambia profondamente. Esse diventano l'incubatore di nuove attività produttive soprattutto terziarie e la crescita della disoccupazione pone il problema dell'espansione della base occupazionale nelle aree urbane in un'epoca in cui la creazione di occupazione da tempo non avviene più nelle industrie manifatturiere. In questa prospettiva, il ruolo delle amministrazioni comunali e regionali diventa più importante. Queste possono agire sia sull'offerta che sulla domanda dei servizi nuovi che si creano nelle città, realizzando infrastrutture e investimenti pubblici e promuovendo l'aggregazione della domanda dei cittadini nei servizi nuovi connessi con l'abitazione, la mobilità sostenibile, il risparmio energetico e la riqualificazione ambientale, la cultura e il tempo libero e i servizi sociali e per la salute.

Si tratta in pratica di realizzare un circolo virtuoso che, partendo dalla domanda-offerta delle innovazioni necessarie ai nuovi bisogni dei cittadini evolva lungo il sentiero: miglioramento della qualità della vita- maggiori economie esterne-maggiore competitività urbana-innovazione e attrazione d'investimenti-sviluppo di nuovi settori a scala locale e nazionale.

Gli interventi nei diversi settori devono essere integrati/interconnessi operativamente tra loro e non vanno programmati separatamente. Sarebbe inoltre opportuno focalizzarsi innanzitutto sugli interventi che possono dare un risultato immediato (a sei mesi o un anno) e agire "chirurgicamente" sugli investimenti più urgenti e che riguardano i nodi della rete urbana e delle relazioni tra i centri urbani e il rispettivo territorio. 

Le relazioni di complementarietà e di sinergia che si possono stabilire tra le singole iniziative vanno valorizzate attraverso strategie e azioni specifiche volte, ad esempio, alla nascita o al consolidamento di opportuni cluster industriali di rilevanza nazionale composti da imprese operanti nei settori ove la domanda da parte delle città italiane si mostra di peso maggiore in termini quantitativi, di innovazione tecnologica e di export potenziale.

In questa prospettiva, fra l'altro, le stazioni ferroviarie nelle città e le vaste aree ferroviarie contigue, ora scarsamente utilizzate e degradate, rappresentano non solo il nodo delle comunicazioni urbane ed extraurbane, ma possono anche diventare il polo per lo sviluppo del social housing per i ceti a basso reddito e di centri di residenza integrati per gli anziani, di servizi commerciali, culturali, sportivi e per il tempo libero, promossi con le associazioni dei cittadini e da grandi investitori istituzionali sia italiani che esteri.

Un aspetto da non sottovalutare è rappresentato dagli elementi soft della progettazione. Le idee progettuali di tipo innovativo possono emergere dal dibattito pubblico tra i cittadini e le loro associazioni e dal lavoro di esperti nelle università e nei centri di ricerca e devono tradursi nello sviluppo di progetti operativi di fattibilità con elevate caratteristiche tecniche, tramite un investimento consistente e sistematico di natura pubblica o delle imprese private o delle fondazioni bancarie o anche direttamente tramite il crowdfunding dei cittadini. Inoltre, si tratta di dare la giusta enfasi, nella valutazione dei progetti di politiche urbane, agli elementi immateriali, quali il marketing territoriale, la promozione, la comunicazione e gli aspetti gestionali delle iniziative.

Governance istituzionale e relazioni tra gli attori nella politica urbana
La riduzione dei servizi pubblici locali e regionali nei trasporti, formazione professionale e nella sanità comporterebbe una riduzione dell'occupazione sia nell'amministrazione pubblica che nelle imprese private fornitrici, una riduzione dei redditi e quindi dei consumi privati e della domanda aggregata, che traina la produzione di molte imprese in settori diversi. Il problema non sono i servizi pubblici da eliminare perché di dubbia utilità o la riduzione dei costi dei servizi pubblici di bassa qualità, ma la sostituzione di questi ultimi con servizi pubblici più innovativi e di migliore qualità per i cittadini e che utilizzino risorse umane più qualificate. L'accorpamento delle imprese di servizi collettivi è necessario non per ridurre i costi e le capacità produttive, ma per sostenere investimenti di maggiori dimensioni nel territorio e affrontare meglio la concorrenza estera e promuovere l'internazionalizzazione di queste imprese, che sono di rilevanza strategica per una "rinascita industriale" dell'economia italiana.

Dalla vendita delle proprietà immobiliari e delle partecipazioni azionarie degli enti locali, che produce deflazione e diminuisce il patrimonio collettivo, è necessario passare alla valorizzazione di questo patrimonio con aumenti di capitale destinati a investitori privati e che siano lo strumento per fare leva nella prospettiva di un aumento degli investimenti fissi lordi in nuovi servizi qualificati e infrastrutture.

In molti dei settori suindicati l'attività privata è possibile non solo nella fase della costruzione dell'infrastruttura ma anche in quella della gestione del servizio. Le nuove produzioni industriali e di servizio devono essere molto innovative e quindi in grado di assicurare un rendimento finanziario adeguato, per poter essere finanziate con risorse private e non, come nel passato, solamente con fondi pubblici. È necessario mobilitare il risparmio privato nel finanziamento di progetti molto qualificati. E a questo fine sarebbe opportuno creare un Fondo di investimento in ogni Regione, che permetta il finanziamento delle infrastrutture, di servizi privati e pubblici e di nuove imprese industriali innovative, attirando i finanziamenti della Banca europea degli investimenti e della Cassa depositi e prestiti, e che abbia un rating finanziario elevato potendo contare sulla garanzia dello Stato. Anche i singoli cittadini possono essere interessati a investire nel finanziamento di progetti che abbiano una finalità collettiva e una ricaduta positiva sullo sviluppo delle rispettive aree di residenza. Il Fondo potrebbe assicurare il credito alle imprese private e ai consorzi pubblico-privati per la costruzione e la gestione di servizi innovativi e di grandi infrastrutture o investire in modo transitorio nel capitale di nuove imprese private durante un periodo di avviamento per facilitare il collocamento sul mercato delle loro azioni.

Un ruolo chiave sia nella progettazione tecnica che nel coordinamento dei singoli progetti d'investimento e successivamente nell'offerta agli utilizzatori delle nuove produzioni di servizi collegati devono avere le grandi imprese pubblico-private nei servizi collettivi (public utilities), che hanno un forte radicamento nelle aree urbane e nel territorio italiano. In altri casi può essere opportuno partire dalle produzioni esistenti e sostenere i processi di evoluzione in atto.

In sostanza, non si esce dalla crisi in modo spontaneo. Per evitare una stagnazione secolare della produzione e un aumento ulteriore del tasso di disoccupazione nel 2015 è necessario un piano di azione straordinario che rilanci la crescita economica e aumenti la base occupazionale a partire dalle aree urbane. È necessario avviare un ciclo cumulativo di sviluppo, basato sulla creazione di nuove produzioni innovative, l'investimento nella nuova capacità produttiva necessaria e in posti lavoro tecnicamente qualificati, e che permetta di aumentare i redditi e quindi di aumentare la domanda aggregata.

Una task force in ogni Regione
Al posto delle centinaia di "tavoli di crisi" a livello nazionale e nelle diverse aree del paese sarebbe utile creare una task force in ogni Regione, che promuova la scoperta di nuove produzioni innovative, gli investimenti delle imprese private, l'attivazione dei necessari investimenti pubblici preliminari e complementari e che rimuova gli ostacoli amministrativi all'investimento delle imprese.

Tale task force pubblico-privata per la ripresa economica deve definire una piattaforma strategica comune o organizzare un numero limitato di "piani d'azione" (o "tavoli di sviluppo") nei cinque ambiti strategici delle infrastrutture e dei servizi d'interesse collettivo indicati sopra e in altre possibili produzioni innovative ritenute fattibili e prioritarie. A tale task force deve essere assicurata la partecipazione sia degli operatori economici dei singoli settori considerati, che delle associazioni dei cittadini e degli utilizzatori dei servizi rispettivi, oltre che delle università, del mondo dei servizi professionali, della finanza di progetto, delle Pmi e delle imprese dei servizi di utilità collettivi (public utilities), dei sindacati, delle Camere di commercio e delle associazioni industriali. Il piano di azione per la crescita dovrebbe quindi essere articolato in un numero limitato di progetti operativi di fattibilità distribuiti sul territorio regionale e focalizzati in specifiche aree delle singole città.

Occorre, quindi, predisporre una "governance istituzionale" a scala regionale e nazionale nell'ambito della quale sia facilitato e reso efficace il processo di identificazione, valutazione della sostenibilità economico-finanziaria e selezione dei progetti che vadano a costituire un Piano di investimento regionale e nazionale mirato alla crescita dell'economia. 

Si tratta di operare secondo la logica dello sviluppo sostenibile dal punto di vista economico sociale e ambientale, centrato su un modello che potremmo chiamare di governance bottom-upcorretto. Infatti, si deve partire dal basso per far emergere i progetti in grado di risolvere i problemi urbani e coinvolgere gli attori locali più rilevanti ma, nello stesso tempo, questa azione va inquadrata in uno schema strategico territoriale più ampio, a scala regionale-nazionale, non solo per l'indicazione delle aree/settori di intervento, ma anche per fornire assistenza nella fase di progettazione e finanziamento e per l'integrazione delle singole progettualità secondo la logica delle reti di cooperazione e di sinergia e, quindi, per ottenere le economie di scala sul lato sia della domanda che dell'offerta.

La ripresa degli investimenti privati e pubblici, in conclusione, è legata a un rilancio della politica industriale e regionale, a una strategia di crescita basata sull'innovazione delle imprese e delle istituzioni e a un'efficace governance delle relazioni tra imprese, università, credito e amministrazioni pubbliche regionali, nazionali ed europee. 

* Università di Roma "Tor Vergata"
** Università Cattolica, Piacenza

 

 

 
 
 

Cosa importa all’Europa delle nostre riforme costituzionali

Post n°161 pubblicato il 16 Aprile 2014 da francomari4

 

Nelle scorse settimane il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha incontrato alcuni leaders europei e ha illustrato loro il pacchetto di riforme costituzionali che il Governo vorrebbe far approvare dal Parlamento. Angela Merkel e François Hollande - ha dichiarato Renzi - si sono detti "colpiti" da tale proposito, perché "è il segno che l'Italia è pronta a fare la sua parte nel percorso di cambiamento in corso": "come possiamo essere credibili a chiedere un'altra Europa se da trent'anni la discussione sul bicameralismo è sempre quella?".

 

La domanda che occorrerebbe porre al Presidente Renzi è la seguente: "Cosa dovrebbe importare alla Merkel e a Hollande delle nostre riforme costituzionali?". Non si capisce, infatti, perché dovremmo essere più credibili sul piano europeo se, dico per dire, il Governo italiano, anziché trovare una qualsivoglia soluzione alla corruzione dilagante e all'evasione fiscale, dichiari solennemente il proprio impegno a modificare il sistema parlamentare italiano e le relazioni che lo Stato intrattiene con le autonomie territoriali. Ciò, almeno, non è di immediata evidenza. È sufficiente, tuttavia, leggere il disegno di legge di revisione costituzionale approvato il 31 marzo in Consiglio dei Ministri per capirne il perché.

L'art. 114 della Costituzione, com'è noto, afferma che "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato" e che "I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione". Con questa dichiarazione - introdotta nel 2001 - si era inteso dire che l'autonomia degli Enti localidovesse dipendere non più dalla legge dello Stato, ma dalla Costituzione; ciò avrebbe accordato agli Enti locali la possibilità di definire da se medesimi lo statuto, i poteri e le funzioni. Tale autonomia, tuttavia, conosceva taluni temperamenti, ricavabili dalla stessa Carta costituzionale, in quanto l'art. 117, comma 2, lett. p) attribuiva allo Stato la competenza a disciplinare con legge gli "organi di governo" e le "funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane".

Il testo licenziato ora dal Governo tenta di far rientrare dalla finestra quello che si era voluto buttare fuori dalla porta: il disegno di legge costituzionale vorrebbe, infatti, affidare al Parlamento la competenza ad intervenire con legge in materia di ordinamento locale tout court. La qual cosa finirebbe per ridurre di molto l'autonomia costituzionale degli Enti locali, fino al punto da vanificarne la stessa essenza.

Guardiamo a quel che accade sul fronte delle relazioni dello Stato con le Regioni. Circa il nuovo riparto delle competenze legislative, il disegno di legge del Governo attribuisce nuove materie in capo allo Stato: oltre a riconfermare nelle mani dello stesso l'ambiente e l'ecosistema, l'art. 117 della Costituzione affida al Parlamento anche la competenza esclusiva sui beni culturali e paesaggistici, sulle norme generali sulle attività culturali, sul turismo, sull'ordinamento sportivo, sulla produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia, sulle norme generali sul governo del territorio, sulle infrastrutture strategiche. Se si provasse a fare un "mix" tra tutte queste "materie", si comprenderebbe chiaramente quale sia l'obiettivo perseguito dal Governo: dare il via libera alla realizzazione delle c.d. "grandi opere", comprese quelle controverse e contestate soprattutto dalle collettività locali. Si pensi al MUOS in Sicilia o ad Ombrina mare in Abruzzo.

A cosa serve, dunque, ricondurre in capo allo Stato la competenza legislativa su tali "materie"? Ad evitare che le Regioni possano legiferare sulle stesse e a far saltare le garanzie che la Corte costituzionale aveva individuato in favore delle autonomie territoriali. Mi limito a considerare la materia energetica. Sebbene la riforma costituzionale del 2001 abbia attribuito l'energia alla competenza concorrente dello Stato (chiamato a stabilire i principi fondamentali) e della Regione (chiamata a disciplinare il dettaglio), la Corte costituzionale ha da tempo sostenuto che lo Stato possa sì disciplinare per intero la materia energetica in presenza di interessi di carattere unitario, ma a condizione che alle Regioni sia lasciata la possibilità di esprimersi sulle scelte energetiche effettuate a Roma attraverso lo strumento dell'intesa. Con il disegno di legge di revisione costituzionale questa (implicita) garanzia verrà, invece, meno.

L'intesa della Regione, infatti, si configura come una sorta di compensazione per la "perdita" di competenza dovuta alla decisione dello Stato di attrarre a sé la competenza sulla materia energetica. Detto altrimenti: la competenza sull'energia è - secondo la Costituzione vigente - dello Stato e della Regione ad un tempo. Esigenze di carattere unitario - collegate a ragioni di politica economica nazionale - impongono, tuttavia, che solo lo Stato provveda in materia. Questa decisione - perché possa ritenersi legittima - impone che le Regioni (e anche gli Enti locali) siano coinvolti nei processi decisionali. Se passerà il pacchetto delle riforme tale coinvolgimento non sarà più costituzionalmente necessario.

Ma non è tutto. Il testo licenziato dal Governo stabilisce, inoltre, che "su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica della Repubblica o lo renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale". In questo modo, come si vede, nessuna delle materie di competenza regionale resterà immune dall'intervento statale. Lo Stato potrà intervenire sempre, in ogni tempo, solo perché magari il Governo avrà valutato che l'esercizio della competenza legislativa della Regione possa compromettere la realizzazione di taluni (non meglio precisati) "programmi".

Ecco, mi pare abbastanza chiaro perché la Merkel e Hollande dichiarino di essere favorevolmente "colpiti" dalle riforme di Renzi. Perché tali riforme vanno esattamente nella direzione da loro auspicata ovvero tendono a rimuovere tutti quei lacci e lacciuoli, che si frappongono ad una rapida e unilaterale decisione dello Stato (indotta, magari, da una "richiesta" dell'Europa). Lacci e lacciuoli che in altri tempi, e con una parola sola, si sarebbero chiamati "democrazia". Ma, se così fosse, allora qualche dubbio di compatibilità del disegno di legge con il principio fondamentale di garanzia (sostanziale) dell'autonomia recata in favore degli enti territoriali ex art. 5 Cost. andrebbe seriamente posto.

Enzo Di Salvatore

(Docente di diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Teramo)

 

 
 
 

CLAMOROSO: LA RIFORMA” DI RENZI DEL SENATO E’ STATA CONSIGLIATA DALLA BANCA AMERICANA JP MORGAN

Post n°160 pubblicato il 11 Aprile 2014 da francomari4

 

LA "MANO" DI #JPMORGAN DIETRO LA RIFORMA DEL #SENATO, E LE CONSEGUENTI ULTERIORI LIMITAZIONI DELLA NOSTRA #DEMOCRAZIA.

ECCO IL LINK DEL DOCUMENTO RISERVATO DI JPMORGAN SULLA "RIFORMA" DEL SENATO, DELLA "COSTITUZIONE" E DELLA "DEMOCRAZIA" IN ITALIA: PDF

Ora, l'articolo.

Rottamare la democrazia? No, grazie. Anche quella sarebbe una "riforma", certo. Ma ne faremmo volentieri a meno. Così la pensa Salvatore Settis, già direttore della Normale di Pisa. «La riforma di Renzi - dice - è contraria alle regole più elementari della democrazia». Quindi, innanzitutto, occorre fermare la «svolta autoritaria» del governo, perché il progetto di riforma costituzionale tanto voluto dal premier è «affrettato, disordinato e assolutamente eccessivo».

Tanto per cominciare, «non si può accettare che a incidere così profondamente sulla Carta sia un Parlamento di nominati e non di eletti, con un presidente del Consiglio nominato e non eletto». Questo Parlamento «non può fare una riforma di questa portata, né tantomeno anteporla alla riforma elettorale, che è la vera urgenza». Il guaio è che il male viene da lontano: si tratta di «decisioni prese in stanze segrete», che «non ci sono mai state spiegate», perché sono i diktat del neoliberismo che vorrebbe sbaraccare lo Stato democratico, visto come ostacolo al grande business.

Il professor Settis, intervistato da Beatrice Borromeo per "Libertà e Giustizia", pensa ad esempio al famoso rapporto della Jp Morgan del 2013, «riportato quasi alla lettera nel progetto di riforma del governo Letta e ora citato come un testo sacro». Via la "vecchia" Costituzione antifascista, che difende i lavoratori. Pressioni esterne sul governo Renzi? «Di certo - sottolinea Settis - c'è una vulgata neoliberista secondo la quale il mercato è tutto, l'eguaglianza è poco significativa e la libertà è quella dei mercati, non delle persone. E a questa vulgata si sono piegati in molti.Solo che finché si adeguano Berlusconi e Monti mi stupisco ben poco. Ma che ceda il Pd, che dovrebbe rappresentare la sinistra italiana, è incredibile. E porterà a un'ulteriore degrado del partito, e dunque a una nuova emorragia di votanti».

Secondo Settis, «La sinistra sta proprio perdendo la sua anima: si sta consegnando a un neoliberismo sfrenato, presentato come se fosse l'unica teoria economica possibile, l'unica interpretazione possibile del mondo».

Renzi cavallo di Troia di questo neoliberismo che ha colonizzato la sinistra? «Certamente l'unico elemento chiaro del suo stile di governo è la fretta», dice Settis. «Dovrebbe prima spiegarci qual è il suo traguardo e poi come vuole arrivarci. Non basta solo la parola "riforma", che può contenere tutto. Anche abolire la democrazia sarebbe una riforma».

Quello che cerca Renzi, continua Settis, «è l'effetto annuncio, il titolone sui giornali: "Renzi rottama il Senato". Lui punta a una democrazia spot, a una democrazia degli slogan. Se il premier sostiene che la Camera alta non è più elettiva, ma doppiamente nominata, allora significa che ha veramente perso il senso di che cosa voglia dire "democrazia"».

NOTA: ECCO COS'E' IL FAMOSO "RAPPORTO 2013″ DELLA BANCA AMERICANA JP MORGAN.

Che un gigante della finanza globale produca un documento in cui chiede ai governi riforme strutturali improntate all'austerity non fa più notizia. Ma Jp Morgan, storica società finanziaria (con banca inclusa) statunitense, si è spinta più in là. E ha scritto nero su bianco quella che sembra essere la ricetta del grande capitale finanziario per gli stati dell'Eurozona. Il suo consiglio ai governi nazionali d'Europa per sopravvivere alla crisi del debito è: liberatevi al più presto delle vostre costituzioni antifasciste.

In questo documento di 16 pagine datato 28 maggio 2013, dopo che nell'introduzione si fa già riferimento alla necessità di intervenire politicamente a livello locale, a pagina 12 e 13 si arriva alle costituzioni dei paesi europei, con particolare riferimento alla loro origine e ai contenuti: "Quando la crisi è iniziata era diffusa l'idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica (...) Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea"

JPMorgan è stata tra le protagoniste dei progetti della finanza creativa e quindi della crisi dei subprime che dal 2008. Fino a essere stata formalmente denunciata nel 2012 dal governo federale americano come responsabile della crisi, in particolare per l'acquisto della banca d'investimento Bear Sterns. Ecco che invece dai grattacieli di Manhattan hanno pensato bene di scrivere che i problemi economici dell'Europa sono dovuti al fatto che "i sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell'esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo".

E per colpa delle idee socialiste insite nelle costituzioni, secondo Jp Morgan, non si riescono ad applicare le necessarie misure di austerity. "I sistemi politici e costituzionali del sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)".

Quindi Jp Morgan, dopo avere attribuito all'Europa l'incapacità di uscire dalla crisi per la colpa originaria della forza politica dei partiti di sinistra e delle costituzioni antifasciste nate dalle varie lotte di liberazione continentali, ammonisce che l'austerity si stenderà sul vecchio continente "per un periodo molto lungo".

Fonte: Il Fatto Quotidiano

 

 

 
 
 

Il Manifesto - Gianni Ferrara LA DEMOCRAZIA DIMEZZATA

Post n°159 pubblicato il 03 Aprile 2014 da francomari4

Il dise­gno di legge costi­tu­zio­nale appro­vato ieri dal Con­si­glio dei mini­stri per il "supe­ra­mento" del bica­me­ra­li­smo per­fetto non ha il solo obiet­tivo che dichiara. Quello che declama è secon­da­rio, stru­men­tale. La sosti­tu­zione del Senato pari­ta­rio con que­sto fan­to­ma­tico assem­bra­mento di pre­si­denti di regione, di due dele­gati di ogni regione, di sin­daci e di "nomi­nati" dal Capo dello stato in numero cor­ri­spon­dente a quello delle regioni non mira solo allo svuo­ta­mento espli­cito di potere di quel ramo del Par­la­mento (lo si potrà ancora chia­mare cosi?) ma a qual­cosa di più rile­vante e inquie­tante. 

Anche più che inquie­tante. Non uso a caso un ter­mine di tal tipo. Di fronte abbiamo l'estremismo revi­sio­ni­sta che sfo­cia nell'assolutismo maggioritario.

Il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo del pro­getto ren­ziano non è affatto diretto a con­cen­trare in una sola Camera la forza della rap­pre­sen­tanza nazio­nale, come chi scrive pro­pose alla Camere (IX Legi­sla­tura pro­po­sta di legge cost. n. 2452) in rigo­rosa coe­renza con il costi­tu­zio­na­li­smo demo­cra­tico della sini­stra. Si viveva in ben altro clima, in una sta­gione della sto­ria repub­bli­cana del tutto diversa dall'attuale. Era il 1985, i par­titi c'erano, erano di massa ed erano que­gli stessi dell'Assemblea costi­tuente, il regime elet­to­rale era quello pro­por­zio­nale, gli anti­corpi allo stra­po­tere delle mag­gio­ranza gli erano impli­citi ed inestricabili.

Mira all'opposto del raf­for­za­mento della rap­pre­sen­tanza popo­lare il dise­gno di Renzi, mira ad eli­mi­narne una sede, un organo, una isti­tu­zione. Pri­vato della par­te­ci­pa­zione al potere di indi­rizzo poli­tico, il Senato delle auto­no­mie non eser­ci­terà nean­che una fun­zione legi­sla­tiva di qual­che rilievo. Non è organo par­la­men­tare una assem­blea che non la eser­cita, dispo­nendo solo del potere di emen­da­mento il cui eser­ci­zio non pro­duce effetti di qual­che con­si­stenza. Ma come con­fi­gu­rato, il Senato delle auto­no­mie non può rile­vare come espres­sione di una qual­che forma di democrazia.

A com­porlo non vi saranno rap­pre­sen­tanti della Nazione ma i man­da­tari degli enti regio­nali e comu­nali o per­ché tito­lari di organi di enti regio­nali o comu­nali o per­ché scelti da tali tito­lari di organi di enti regio­nali o comu­nali. 
Si aggiun­gono ad essi 21 cit­ta­dini nomi­nati dal Pre­si­dente della Repub­blica, che, stante il loro numero cor­ri­spon­dente al numero delle Regioni, potreb­bero imma­gi­narsi come fidu­ciari del Capo dello stato per mediare con quello nazio­nale l'interesse spe­ci­fico degli enti di pro­ve­nienza della mag­gio­ranza dei mem­bri di un tale Senato. La cui mag­gio­ranza rispon­derà agli enti di pro­ve­nienza e i 21 al Pre­si­dente della Repub­blica la cui figura ver­rebbe sfi­gu­rata con qual­che impronta di regia memo­ria. Comun­que né gli uni né gli altri rispon­de­ranno al corpo elet­to­rale, alla imme­diata espres­sione di quel popolo tito­lare unico della sovra­nità dalla quale sol­tanto può deri­vare la rap­pre­sen­tanza poli­tica. Come si vede dalla ricon­fi­gu­ra­zione ren­ziana del Senato la rap­pre­sen­tanza poli­tica ne esce e la demo­cra­zia è dimezzata.

Come dimez­zata, con­tratta, svuo­tata è la rap­pre­sen­tanza poli­tica con­fi­gu­rata dalla legge elet­to­rale per la Camera dei depu­tati, il ren­zu­sco­num . Il cui obiet­tivo - e lo abbiamo scritto e moti­vato - è la distor­sione della rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare e la sua ridu­zione a fun­zione ser­vente del pre­mie­rato asso­luto con ten­sione alla mono­cra­zia. 
Sil­vio Ber­lu­sconi ha ragione nel dichia­rare che il dise­gno isti­tu­zio­nale di Mat­teo Renzi è quello incor­po­rato nella legge costi­tu­zio­nale che volle fare appro­vare nel 2005 e che il corpo elet­to­rale respinse nel 2006. Ad opporsi a quel dise­gno con tutte le forze della sini­stra e della demo­cra­zia ita­liana c'era il Par­tito demo­cra­tico. A rea­liz­zare quel dise­gno c'è ora il suo lea­der. È tri­ste ma dove­roso constatarlo.

 

 

 
 
 
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