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INCENDIO VERO, FUNZIONARIO FINTO

Post n°45 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio

Non si riusciva nemmeno ad entrare, figurarsi a trovare qualche notizia. L’ospedale cittadino era immerso in una nuvola nera di fumo, scaturita dai materassi bruciati. Un’intera ala del nosocomio era andata a fuoco. Il caos era totale: decine di lettighe che andavano e venivano tra cortile e corridoi, centinaia di persone intossicate tra degenti, parenti, infermieri e medici. Tutti i giornalisti e i fotografi si erano fiondati all’ingresso principale, ma erano tenuti a bada dal servizio d’ordine e dai vigili del fuoco che non volevano intralci. L’intera parte anteriore dello stabile, un grosso palazzaccio anni 60 a sette piani e lungo come un campo da calcio, era piantonato: nessuna possibilità di infiltrarsi, di andare a vedere con i propri occhi. Si riuscivano a raccogliere soltanto racconti di seconda mano delle persone scampate alle fiamme e qualche particolare sui soccorsi fornito dall’addetto stampa della Azienda sanitaria locale.

Ma il caposervizio era stato chiaro: “Mando te perché voglio la nostra versione dei fatti. Se mi accontentassi di quella ufficiale, me ne fotterei, non ci manderei nessuno. Trovami la verità, una qualsiasi verità, la nostra!”. Dopo aver deglutito, mentre mi avviavo verso l’ospedale, ancor prima di rendermi conto dell’invalicabile schieramento all’ingresso, mi dissi che qui ci voleva un’idea, un colpo d’ala. Per mia “fortuna” mi ricordai che qualche mese prima, essendomi rotto una gamba per un incidente in moto, venni trasportato in ospedale dall’ingresso del Pronto Soccorso. Per i lavori in corso in quel periodo, quel “varco” non era del tutto inaccessibile. Bisognava però presentarsi in maniera impeccabile, in modo da supportare con l’abito la faccia da “monaco” che avevo intenzione di sfoggiare. Passai prima a casa, era di strada, e mi cambiai: giacca, cravatta, scarpe tirate a lucido e profumo, tanto profumo.

Passai davanti all’ingresso principale: dalla strada vidi i colleghi accalcati all’ingresso. Feci il giro da dietro e parcheggiai il motore davanti al pronto soccorso, ma lontano da sguardi indiscreti. Entrai a larghe falcate e mi diressi sparato verso il reparto incendiato. Nessuno mi bloccò, nessuno mi chiese dove andavo. Se avessi trovato difficoltà ero intenzionato a prendere “in prestito” un camice bianco e un cartellino di riconoscimento, ma non ce ne fu bisogno. Le fiamme erano state appena spente, il fumo era ancora denso. La caposala mi si parò contro, ma invece di cacciarmi, come mi aspettavo, mi si rivolse così: “Finalmente, siete arrivati. E’ della direzione sanitaria, vero?”, mi chiese pro forma, ma era chiaro che non aveva bisogno di alcuna risposta. E infatti non gliela diedi. Quello che voleva era qualcuno a cui “appoggiarsi” e sfogarsi per il dramma che stava vivendo.

“Come è successo?”, feci con voce calma e rassicurante, accompagnata dallo sguardo più accigliato che potei. Lei non solo cominciò a raccontare che alcuni suoi colleghi erano andati a fumare dentro lo stanzone dove accumulavano i vecchi materassi in disuso, ma avevano anche pensato bene di gettare in terra le cicche. Bingo! Chiamai al telefono il nostro fotografo e gli dissi come fare per entrare in ospedale dal retro: se qualcuno gli chiedeva informazioni, doveva dire di essere stato chiamato dalla Direzione Sanitaria. Aspettai che arrivasse con qualche apprensione e intanto “intervistai” alcuni degenti intossicati. Dopo che il fotografo ebbe finito di scattare, assicurai la caposala che sarebbero stati presi provvedimenti, che l’inchiesta sarebbe stata seria (ma mi riferivo ovviamente a quella giornalistica) e sghignazzando mi allontanai in fretta.

Al capo che mi vide arrivare così vestito al giornale, dissi che ormai lavoravo per la Sanità e che dovevo darmi un tono. Lui non capì una mazza né mi chiese come avevo ottenuto notizie e foto: in certi casi è sempre meglio non chiedere. Ma il giorno dopo, quando arrivai in redazione, fischiettava, leggendo il nostro e gli altri giornali: noi avevamo tutti i particolari in cronaca, come si dice, gli altri solo la versione ufficiale dell’incendio, fornita dalle autorità che stavano indagando: un cortocircuito… Non era uno che faceva molti complimenti, ma sapeva come farti capire che apprezzava il tuo lavoro. Quella volta mi offrì un caffè nella sua stanza, mentre telefonava al Questore e lo prendeva bonariamente per il culo, chiedendogli se aveva bisogno di dritte per le indagini sull’incendio… Gliele avremmo fornite volentieri noi!

Grande!!!

 
 
 

PUBBLICITA’-REGRESSO

Post n°44 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio

La notizia era “succulenta”: un noto imprenditore locale era finito sotto inchiesta da parte della magistratura, per aver distratto fondi della Unione Europea per alcuni miliardi, destinati alla formazione professionale degli addetti della sua azienda. Fondi che, si ipotizzava, aveva utilizzato invece per pagare qualche debituccio o magari per cambiarsi il Ferrarino e portare l’amante in Costa Azzurra. Il capocronista, a cui il nerista l’aveva “portata” su un piatto d’argento,  a sua volta l’aveva “presentata” al caporedattore come la notizia del giorno. Durante la riunione di redazione tutti d’accordo: meritava l’apertura della prima. Non avevano fatto i conti con il direttore, il quale aveva ricevuto una telefonata dal presidente dell’associazione imprenditoriale a cui era iscritto l’imprenditore sotto accusa. Il presidente, in ottimi rapporti con il direttore, aveva richiesto – papale papale – la “cancellazione” della notizia dal numero del giorno dopo. In pratica il giornale avrebbe dovuto snobbare la notizia come inconsistente o infondata e non pubblicarla. Il direttore, che a differenza di alcuni suoi idealisti cronisti, conosceva già bene come funzionano i giornali, non cadde dalla sedia né si mostrò scandalizzato. Pragmaticamente, fece presente che certe cose non si fanno per niente. Ma il presidente dell’associazione se l’aspettava e aveva già pronta la proposta: 100 milioni di pubblicità comprata dalle sue aziende sul giornale. L’affare si fece in quattro e quattr’otto e infatti la notizia non uscì il giorno dopo sul giornale.

Ma il direttore si era “dimenticato” – volutamente – di avvisare l’associazione di categoria che se non avessero fatto la stessa offerta anche agli altri giornali, la notizia sarebbe comunque uscita da qualche altra parte. E così fu: i soldi dell’imprenditore finirono nella casse del giornale, ma furono buttati via. Ufficialmente il giornale prese un “buco” (non aveva la notizia mentre i concorrenti sì), ma aveva quei 100 milioni in cassa che gli altri non immaginarono nemmeno. Un passo indietro al giorno prima: i direttore mise a parte della cosa il caporedattore, il quale ne informò il capocronista, il quale fece capire al suo cronista di nera che la notizia non sarebbe uscita. Questi cominciò a litigare con il suo capo ma trovò un muro: tutti avevano capito la situazione tranne il cronista.

Morale, direte voi? A volte anche la morale è positiva. Quel cronista incazzato perché ci teneva a vedere pubblicata la sua notizia, oggi è direttore di un noto giornale. Mentre gli altri sono scomparsi dall’orizzonte, relegati in ruoli minori o addirittura usciti dal mondo del giornalismo.

Per fortuna, non sempre – come diceva mia nonna – “chi più sporca la fa, diventa priore”.

 
 
 

SULLA STRADA, INCAZZATO A… MORTE

Post n°43 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio

Ero in motorino, diretto in redazione, quando cominciarono a superarmi ambulanze e pattuglie della polstrada a sirene spiegate. E per un cronista, questo tipo di sirena ha lo stesso suono ammaliatore che dovevano avere le Sirene alle orecchie di Ulisse. Seguirle fu quasi automatico: ma quella volta me ne pentii di brutto. Arrivati sul posto dell’incidente, vidi una scena che non potrò dimenticare per tutta la vita: sull’asfalto c’era quello che restava di una ragazza di 18 anni e della sua bici. Era stata travolta da un camion, un tir il cui autista si teneva la testa fra le mani, circondato da poliziotti. Non vorrei passare per cinico, ma la scena era davvero da voltastomaco: gli infermieri e il medico dell’ambulanza cercavano di raccogliere dall’asfalto quello che restava della povera figliola, il cui corpo martoriato era diventato una sola cosa con il manto stradale bollente e poroso di quel pomeriggio estivo. I poliziotti tentavano di tenere lontani i curiosi inviperiti: qualcuno di loro avrebbe volentieri linciato il camionista. Io passai sotto il cordone grazie al solito poliziotto amico e mi avvicinai all’uomo per sentire cosa diceva agli agenti. Continuava a ripetere inebetito: “Non l’avevo vista, ve lo giuro, non l’ho vista”. Mi allontanai per chiedere la dinamica ad un agente che conoscevo come esperto di infortunistica. Mi disse che secondo lui, il camionista aveva girato improvvisamente a sinistra, senza mettere la freccia che risultava spenta, investendo la ragazza che si trovava alla sinistra del pesante mezzo, con la sua bici. Il tir le era passato sopra, martoriandola.

Il camionista era tra lo spaventato e lo choccato: “Ma cosa volete da me? Io non ho fatto niente di male…”, gridava ai poliziotti. A quel punto persi la calma e mi diressi a grandi passi verso di lui: qualcosa mi era scattato in testa, volevo menarlo, punto e basta. Per me si meritava di verdersi ridotta la faccia come aveva ridotto quella povera ragazza. Per fortuna, il mio amico poliziotto se ne accorse e mi sbarrò la strada. Ma dovette accennare a tirare fuori la pistola dalla cintola dei pantaloni per convincermi a desistere. Per qualche secondo avevo perso proprio il lume della ragione. Ma era una delle prime volte che assistevo a scene come quella. Negli anni seguenti ne ho viste tante altre così e purtroppo ci si fa l’abitudine: ricordo due ragazzini in motorino uccisi da un ubriaco drogato che guidava contromano. Anche lì mi si scatenò dentro una rabbia sorda: ma ormai sapevo come uscirne senza usare le mani e senza lasciarmi coinvolgere emotivamente più di tanto: me la presi con un giovane collega di un altro giornale che mi seguiva e mi si era appiccicato addosso come una zecca. Non sapeva ancora muoversi autonomamente sulla scena del “delitto” e così mi veniva dietro. Volevo scacciarlo in malo modo, poi mi ricordai che anch’io facevo come lui,  quando ero alle prime armi.

 
 
 

UNA PIZZA E UN TELEVISORE

Post n°42 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio

Come “contraltare” all’episodio negativo di cui sopra, voglio raccontarne due “positivi”, almeno per quanto mi riguarda. Non per vantarmi, ma sempre per testimoniare delle situazioni in cui ci si imbatte quando si fa questo lavoro.

Il primo, circa 2 anni fa: una madre con cinque figli “barricata” dentro l’ufficio comunale dell’assistenza sociale. Era stata appena sfrattata, il marito disoccupato l’aveva abbandonata con la numerosa prole e lei si era messa in testa che protestando vigorosamente con gli assistenti sociali, le avrebbero dato una casa popolare, dei vestiti e qualcosa da mangiare per i suoi bambini. Non aveva neanche un centesimo e non intendeva più stare al freddo – era un inverno gelido – a sentire piangere impotente i suoi figli. Quando arrivai io, spedito a vedere cosa succedeva, la scena mi ricordò quella vista tante volte nei documentari, dei pulcini di uccelli che strepitano a bocca aperta verso la madre, con il becco spalancato, alla disperata ricerca di cibo che il loro volatile genitore procura loro partendo e tornando dal nido e imboccandoli con quello che trova. Questo grappolo di bambini, vestiti con abiti estivi, infreddoliti, smunti e smagriti, reclamava cibo da una madre ancora giovane e che – mi spiegò la donna – non poteva neanche fare la cameriera o qualsiasi altro lavoro, perché non sapeva a chi lasciare i bambini, alcuni troppo piccoli per andare a scuola.

Gli assistenti prendevano tempo, ma in realtà non sapevano cosa fare. L’assessore, da me interpellato telefonicamente, faceva il possibile ma doveva affrontare decine di casi come quello: alla fine gli strappammo la promessa di una sistemazione provvisoria in albergo per la famigliola, in attesa di una casa popolare; e di sistemare in un asilo i bambini in età prescolare. La donna si calmò e si convinse a lasciare gli uffici comunali, diretta all’albergo che l’avrebbe ospitata.

Ma restava il problema contingente, che bisognava risolvere immediatamente: quello della fame dei figli. Avevo in tasca solo una banconota da 20 euro e non è che nuotassi nell’oro. Ma, con mia stessa meraviglia, mentre l’accompagnavo all’albergo, passando davanti ad un supermercato, non ci pensai due volte ed entrai con loro, comprando pizze (era la cosa che più piaceva a tutti i bambini) e latte. Mi ringraziarono quando li lasciai all’albergo. Ma ero io che dovevo ringraziarli perché quella volta mi sentii molto fortunato per averli potuti aiutare anche solo un po’.

L’altro episodio circa 20 anni fa. Una ragazzina di 16 anni era morta di overdose di eroina: la sua “sfortuna” era stata di essere molto carina. Di lei si era innamorato uno spacciatore ventenne che l’aveva portata letteralmente sulla cattiva strada, a battere. Schiavizzata con la droga, la ragazza aveva tentato di ribellarsi al suo sfruttatore. Risultato: lui le aveva iniettato una dose mortale. Era stata trovata nell’auto dello spacciatore, arrestato ma ormai troppo tardi. La sedicenne era la figlia maggiore – aveva un fratellino di cinque anni più piccolo - di due poveri cristi senza lavoro, che vivevano in una vecchia casetta, all’apparenza dignitosa, all’interno di un quartiere popolare ma non malfamato, non lontano dal centro cittadino.

Mi venne voglia di andare a trovare la madre e il padre, per capire come era stato possibile che quella tragedia accadesse. Sentendo la parola “giornalista” mi accolsero come se fossi una pubblica autorità. Varcando la loro soglia di colpo mi lasciai alle spalle l’Italia moderna e progredita, efficiente e consumista che ero abituato a frequentare con tutti i miei sensi. E precipitai nel terzo mondo. Una casa così squallida non l’avevo mai vista: non c’era niente, niente di quello che “fa” una casa. La cucina era formata da una vecchia stufa con un solo fornello. Le camere erano totalmente disadorne: per letti brandine arrugginite; per armadi alcuni fili tirati da una parete all’altra con un paio di stampelle; per sedie due vecchi sgabelli di paglia mezzi bucati. Nella camera della bambina due note stonate rispetto allo squallido contesto generale: un coniglio di peluche di ottima fattura e un libro di favole, grande, bello, colorato e molto costoso. La madre mi spiegò che alla figlia li  aveva regalati quel “maledetto”, così lo chiamava. Pensai che era ancora una bambina.

Non c’era nemmeno una radio, una tv. Fu facile capire perché la ragazzina fosse stata attratta dal “ricco” spacciatore che le faceva regali.

Me ne andai sconsolato, pensando a cosa potessi fare io, oltre a scrivere il mio pezzo di “denuncia” che spesso, come sappiamo, lascia il tempo che trova. No, volevo fare un piccolo gesto personale, sentivo di doverlo fare, perché mi sembrava di aver violato, persino violentato la dignità di quella famiglia immersa nella povertà più assoluta. Andai a casa mia, mi guardai attorno: notai il vecchio televisore che non guardavo mai perché non avevo tempo né voglia. Lo caricai in macchina, passai in un negozio di elettrodomestici, comprai un’antenna portatile e mi diressi di nuovo verso quel buco nero senza speranza. Senza dire granché, entrai, posizionai il televisore, lo collegai all’antenna e lo accesi. Subito il bambino venne a sedersi sul pavimento davanti allo schermo. “Speriamo che non segua il destino della sorella”, desiderai ardentemente mentre me ne andavo via.

 
 
 

FOTO DA VERGOGNARSI

Post n°41 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da salbarbio

Uno degli episodi della mia carriera professionale di cui più mi vergogno avvenne quando facevo i cronista di nera. Il mio caposervizio mi chiese di trovare la foto di un ragazzino che era morto annegato in una vasca di liquami, in campagna, mentre giocava: la sua palla era finita nella profonda pozza e lui, per riprenderla, si era sporto troppo, cadendovi dentro. Sapeva nuotare, ma evidentemente le esalazioni provenienti dal liquame lo avevano stordito impedendogli di reagire.

Avevamo avuto dalle forze dell’ordine i particolari della notizia, ma ci mancava l’immagine del bambino defunto. E, chissà perché, i direttori, capiredattori e capiservizio sono tutti convinti che una notizia strappalacrime debba necessariamente essere corredata dalla foto della vittima, affinché i lettori guardandolo in faccia, negli occhi, possano identificarsi con il dramma, con il dolore provato dalla sua famiglia nel perderlo.

Gli inquirenti non fornivano immagini: il bambino era ovviamente minorenne e andava tutelato, così come la sua famiglia. E nessuno dei colleghi aveva il coraggio di andare a disturbare la famiglia del morto per chiedere un’immagine. Anche perché il fatto era accaduto da poche ore e si sa in quale prostrazione sono padri e madri che hanno perso un figlio da poco. Insomma, occorreva un collega con il pelo sullo stomaco, che non andasse troppo per il sottile, che non avesse remore a rigirare il coltello nella piaga del dolore altrui. Fui “prescelto” io, che pure non credevo e non credo di avere le “doti” richieste dal caso.

Mi recai così nel casolare della famiglia colpita dal grave lutto. Mi sedetti di fronte alla madre del bambino, appena tornata dall’obitorio dell’ospedale. Notai subito che era un’abitazione povera ma dignitosa e anche che c’era una gran quantità di crocefissi e immagini sacre. Doveva essere una famiglia molto religiosa: una di quelle famiglie che riesce a vivere anche momenti come quello con una serenità che ad altri manca. Mentre la madre mi raccontava cosa era accaduto, non potei non ammirare quella donna che pur straziata era capace di ricondurre alla volontà divina anche la morte di un figlio. E istintivamente mi venne da volerle bene, da partecipare al suo dolore. Dovetti forzarmi non poco quindi per arrivare al vero motivo della mia presenza lì: la foto del suo bambino. Ero pronto a sciorinare il solito discorsetto che facevo ai parenti delle vittime degli incidenti stradali: “Se pubblichiamo la sua immagine sarà un modo per rendergli omaggio, per ricordarlo ad amici e conoscenti, perché il suo volto resti nella memoria della gente”. Ma non ce ne fu bisogno: quella madre non mi chiese perché. Non mi chiese spiegazioni: non ce n’era bisogno. “Guardi, guardi com’era bello – mi fece mostrandomi una scatola piena di fotografie di famiglia – prenda quella che vuole”. Il suo orgoglio di madre era per lei un sentimento a cui aggrapparsi nel dolore: la consapevolezza di aver messo al mondo un essere così ben fatto, anni prima l’aveva resa felice. E oggi le dava la forza di continuare a vivere, oggi che la felicità era sparita per sempre.

Io ne presi un paio, la ringraziai e mi allontanai in fretta: un po’ per non scoppiare a piangere con lei e un po’ perché mi vergognavo come un ladro. Lei voleva far vedere a tutto il mondo com’era bello quel figlio perduto; io volevo solo una foto per corredare il mio articolo, per essere considerato più bravo dei miei colleghi agli occhi dei capi e per sapere intimamente di essere così cinico da poter chiedere una cosa così inutile e stupida ad una madre a cui era appena morto il figlio. Per vendere qualche copia di giornale in più.

Quella volta, nel mio piccolo, mi sono davvero sentito come uno di quei giornalisti dipinti come farabutti in tante pellicole cinematografiche e serial televisivi: quelli che per una notizia in esclusiva farebbero fuori la madre. Ecco, io la “mia” madre l’avevo appena fatta fuori.

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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