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Post n°52 pubblicato il 05 Maggio 2010 da furomtvbrasil1

L'analisiModello InterUn gruppo organizzato e 14 stranieri che giocano all’italiana: così è maturata l’impresa del Camp Nou

 

MILANO — La lunga marcia verso Madrid è cominciata l'11 marzo 2009 nella pancia di Old Trafford, il Teatro dei Sogni (infranti) dell'Inter in Champions. Il Manchester United aveva appena eliminato i nerazzurri, un gol per tempo e via andare, Ibrahimovic stava decidendo di trasferirsi altrove, per sollevare la coppa con le orecchie, Massimo Moratti aveva perso la pazienza negli spogliatoi. Cose da Inter. José Mourinho, non arrabbiato ma triste, si presentò davanti ai giornalisti e pronunciò la frase che l’avrebbe inchiodato alle proprie responsabilità. Dopo aver difeso i suoi giocatori («primadi toccare la mia squadra, dovranno ammazzare me»), annunciò orgogliosamente: «Ora so che cosa bisogna fare per vincere la Champions. Ne discuterò con la società, non con voi». Sorrisini di compatimento dei presenti.

Oggi, 416 giorni dopo, i sorrisini di compatimento sono scomparsi. Oggi ci si interroga se davvero questa squadra può riuscire nell’impresa di centrare il triplete, meglio, la tripletta visto che si tratta pur sempre di una squadra italiana. Tre settimane per una, anzi per tre risposte. Che cosa ha capito, negli spogliatoi di Old Trafford, José Mourinho? Prima di tutto che a questa squadra mancavano un'identità e una personalità europea. E che forse la partenza di Ibra non sarebbe stata poi così drammatica. Facile dirlo oggi, dopo aver visto il fantasma all'opera in due semifinali. Un po' meno all'epoca dei mal di pancia. Riduttivo anche dire che l’arrivo di Sneijder, lo scarto del Real, ha modificato radicalmente il gioco dell'Inter, anche se non sono lontani i tempi in cui lo Specialone puntava i piedi come un bambino arrabbiato perché gli mancava il trequartista. Aveva ragione, evidentemente. Ma la questione, prima che tecnica, era soprattutto di testa. E qui Mourinho ha lavorato da psicologo ed educatore. Avevano sempre accusato l’F.C. Internazionale di essere un po’ troppo, appunto, internazionale, si diceva che senza uno zoccolo duro italiano non sarebbe mai andata lontano in Europa. Infatti. Mercoledì, al Camp Nou, 11 stranieri in campo, 3 stranieri subentrati a partita in corso, uno straniero come allenatore. E una qualificazione conquistata giocando all’italiana, in modo moderno ma così determinato da far rispolverare, sui giornali spagnoli, l’italianissima parola «catenaccio». Bisogna avere una grande capacità di persuasione per convincere Eto'o a fare il terzino. Mou l'ha fatto.

Ma ci vuole anche l’ossessione tattica dello Specialone per trasformare l’abnegazione in risultato. Ci ha messo del tempo, Mourinho, prima di arrivare al 4-2-3-1 con cui ha eliminato Chelsea e Barcellona. L’ha introdotto quasi alla chetichella a Bergamo, 13 dicembre 2009, Atalanta- Inter 1-1: partito a inizio stagione con Sneijder dietro le due punte, Mourinho si è avvicinato a tappe al modulo definitivo (a Genova, per esempio, fece di necessità virtù giocando—e stravincendo 5-0 — con due trequartisti e Balotelli unico attaccante), quasi si esercitasse in campionato per le partite che sarebbero venute in Europa. L’ultima esibizione in Champions con il 4-3-1-2 è stata in casa con il Chelsea, poi la dolcissima follia di Stamford Bridge, 16 marzo. Il 4-2-3-1 è diventato il marchio di fabbrica dell’Inter Specialona, e gli interpreti della recita (con poche variante dovute solo a infortuni o squalifiche) sempre gli stessi. Capaci di giocare (e di vincere) anche in inferiorità numerica (Barcellona, ma anche il derby, o la partita con la Samp accompagnata dalle manette), proprio grazie alla feroce organizzazione collettiva. Ora a Mourinho non resta che l’ultimo obbiettivo, Bayern permettendo: sovrapporre alla poesia «Sartiburgnichfacchetti» la prosa moderna di «Juliocesarmaiconlucio »: filastrocche da campioni d’Europa.

Roberto De Ponti
30 aprile 2010

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