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Una storia d'amore a Milano -

Post n°46 pubblicato il 10 Maggio 2011 da giulia.2001

Abitavo a Villasanta. Mi chiamo Luciano, Luciano Cerutti.

Quando tutto cominciò, abitavo a Villasanta, dove la Brianza non si fa ancora collina, ma il grande polmone del parco di Monza ti permette ugualmente di respirare, a dispetto della diossina scaricata dal famoso disastro di Severo.

Veramente sono di San Fiorano, il nostro grande quartiere sito oltre ferrovia; e forse l’unico vantaggio che abbiamo rispetto a quelli del capoluogo consiste nel fatto che la stazione ferroviaria è dalla nostra parte, e loro devono prendere il sottopasso per raggiungerla. Sono ragioniere, anzi, con un certo orgoglio, perito commerciale; lavoravo a Milano, presso uno studio di dottori commercialisti associati in corso Lodi.

All’epoca, oltre al lavoro, ero un capo scout del Clan, e tutti i sabati li trascorrevo tra i miei lupetti, i miei reparti, i miei novizi, inventando nuove attività, secondo il credo del nostro grande Baden Powell. La domenica era un giorno perso; solo, talvolta, andavo al “Brianteo” a tifare Monza, nella speranza che un giorno saremmo divenuti la terza squadra in “A” del milanese.

Non volevo trasferirmi nella metropoli e quindi, per andare al lavoro, prendevo l’automotrice delle 7.13. Guardavo i treni della linea veloce per Arcore e Lecco sfrecciare sulla linea parallela alla nostra, elettrificata, ed io, dannato, aspettavo lo sbuffo di gasolio del trenino che arrivava da Molteno, finché lo stesso stancamente si arrestava alla fermata, dove salivo insieme all’esercito dei pendolari come me. Scendevo a Sesto; di corsa alla Metro 1, poi, dopo venticinque minuti, cambio a Piazza Duomo con la gialla; quindi Missori, Crocetta, Porta Romana e finalmente Lodi/Tibb, dove risalivo a rivedere la luce del sole.

Avevo ventun’anni. Mi innamorai di lei a Porta Romana.

 

La vidi per la prima volta su un vagone straripante di umanità della linea gialla. Era una rossa, piena di lentiggini. Non molto alta, i capelli raccolti in una crocchia, pantaloni, giaccone, scarpe della Nike. Una normalissima ragazza. Però a me piacciono da impazzire le rosse; chissà perché. Nel mio immaginario le rosse sono tutte irlandesi, ah, il cielo d’Irlanda, ed il suo mare, freddo, gelido....

La rividi casualmente sul treno del giorno dopo. Ma dal terzo giorno fui io a cercarla. In breve imparai che frequentava solo e sempre il quarto vagone (seppi più tardi che saliva a Zara) e che scendeva a Porta Romana. E così, addio fermata Lodi/Tibb; iniziai a scendere a Porta Romana, e ad arrivare puntualmente in ritardo al lavoro. Scoprii che lavorava in banca, un’agenzia dell’Unicredito (sfortunatamente avevo il conto alle poste, dove peraltro mi trovavo benissimo; niente appigli, dunque!).

Iniziai a frequentare bar e trattorie della zona. Iniziammo ad incrociare le nostre strade. Lei mi notò, e un giorno, forse, mi fece mezzo sorriso.

Ma l’occasione tardava.

Finché una volta ci trovammo a mangiare al “Dubbio”; io ero sotto la foto appesa con autografo di Maldini, lei vicino alla porta. Era piovuto, ma poi un pallido sole apparse. Si alzò per uscire, dimenticando l'ombrello.

Quello che avevo sempre cercato!

La rincorsi con l’ombrellino, bingo! Ahi, che tampa, non era il suo! Si mise a ridere, e fu così che le nostre vite s’incrociarono. Fu davanti alla Libreria di Porta Romana che la invitai per la prima volta a cena, il sabato sera. Oggi, quando passo davanti al negozio, ancora mi commuovo.

La scopai al Vigentino.

Sapevo fare un fuoco con pochi arbusti secchi. Sapevo montare la Tenda Sopraelevata con buona maestria. Me la cavavo con la palafitta. Una volta steccai una gamba ad un lupetto fratturato, ed il medico dell’ambulanza mi fece i complimenti. Forse sarei sopravvissuto anche in Iraq.

Ma non sapevo mettermi un preservativo!

Ho pensato più volte, oggi che sono il responsabile della Comunità Capi del mio paese, che dovremmo insegnare agli scout come si scopa. Fa parte della vita, e va fatto con responsabilità. Beh, una vecchia zia svernava in Liguria, e mi aveva lasciato le chiavi del suo appartamento in Via Ripamonti. Quindi decidemmo che l’avremmo fatto lì.

Era Ottobre, faceva un freddo becco. Lo scaldabagno non voleva accendersi, dovevamo lavarci al freddo. Non sapevo da che parte cominciare. Il nostro incontro ravvicinato fu come quello che avvenne tra il Titanic (il mio povero cazzo lanciato a tutta velocità) ed il grande Iceberg che l’affondò (perché Lei, povera, in quella circostanza era maledettamente frigida). Ci buttammo sul letto, guardandoci dolcemente, e cercammo di prenderci.

Ma il preservativo non entrava, o era alla rovescia; e lei era secca come la fontana malata di Palazzeschi. Infine la penetrai (oddio, gridò molto, ero maldestro come gatto Silvestro). Che disastro, venni in un baleno.

Ci riprovammo, alla fine mi tornò duro.

Le cose andavano ora meglio. Lei era un po’ umida, io ci davo dentro, ma non venivo più. Mi salvò il 24, quello diretto verso Salvanesco.

Lo sentii prendere velocità, giungere come un rombo di tuono, frenare, aumentare lo sferragliamento, sempre di più, sempre di più e... uao, venni, in una esplosione di colori.

Ancora oggi, di tutta la rete cittadina, amo molto prendere il 24.

La sposai a San Calimero, ed andammo ad abitare in Piazzale Lotto. Una rossa in bianco! Che accoppiata di colori. Canta Carmen Consoli: «ricordo il giorno del mio matrimonio...» Beh, io ricordo poco. Non avevamo soldi, facemmo il viaggio di nozze a Tresenda, in una villa di un parente. Trovammo un alloggetto in piazzale Lotto. Lei si fece trasferire al centro servizi della sua banca in Lorenteggio, io prendevo la filovia circolare 90 per recarmi al lavoro.

Si viveva, qualche volta andavamo al “Ducale” a vederci un film. La domenica andavo a San Siro, per la partita dell’Inter, ma mi mancava il Monza, mi mancavano gli Scout, mi mancava Villasanta. Scopavamo abbastanza bene, ci volevamo abbastanza bene, avevamo una vita abbastanza serena, il futuro sembrava accettabile, forse avremmo messo in cantiere un figlio.

Mi tradì in Piazza Cordusio.

Chissà perché, quel giorno non presi la metro. Fu il destino? Non volevo andare sottoterra, avevo visto un uomo, un tossico, in ginocchio, a faccia in giù sull’asfalto. Tutti gli passavano avanti e scendevano la scala. Io non ce l’ho fatta, son tornato indietro. E così ho preso il 2, per piazzale Negrelli; una vecchia motrice Peter Witt, panche di legno, guidata da una tranviera. Guardavo dai vetri, scorreva tanta gente...

E a Piazza Cordusio l’ho vista, mano nella mano ad un tipo importante della sua banca, uno che la foto glie l’aveva pubblicata persino il Corrierone. Ed ho capito che era persa per sempre. Ci separammo, andai a stare da solo al Giambellino. Perché? Forse perché mi chiamo Cerutti. Ricordate la ballata di Gaber, il Cerutti, Cerutti Gino?

Beh, ero così, ma non mi chiamavano Drago.

Al bar sport, parlavo sempre del Monza. Mi ritenevano un pirla. Forse io sono un pirla, un pirla tutto solo. Non volevo tornare dai miei a Villasanta. Pure Milano mi stava stretta. Ero così stufo...

Morì al Niguarda, e fu sepolta al Cimitero di Chiaravalle. Uno stupido calabrone, quello che secondo le leggi di natura non dovrebbe volare, la punse sul collo mentre stava sistemando un vaso di gerani. Abitava col suo dirigente in piazzale Loreto.

Sbiancò subito. Choc anafilattico.

Il dirigente non c’era, ebbe ancora la forza di chiamare un’ambulanza. Ma giunse troppo tardi al centro antiveleni. La portammo al cimitero di Chiaravalle, non so perché, e non l’ho mai chiesto ai miei suoceri. Poca gente. C’era il dirigente della banca, da solo. I parenti stretti e quelli meno. Io ero con gli scout di Villasanta.

Cantavano.

«Madonna degli Scout,

ascolta t’invochiam,

concedi un forte cuore

a Noi ch’ora partiam.

La strada è tanto lunga,

il freddo già ci assal,

respingi Tu Regina,

lo spirito del mal»

Mi unii a loro.

«e il ritmo dei passi

ci accompagnerà

là verso gli orizzonti

lontani si va...»

Voltai la schiena, e ripercorsi i passi perduti.

Sono tornato a Villasanta. Ho ripreso lo scoutismo, sono il Capo Sezione. Domenica vado al “Brianteo”, forza ragazzi, facciamo il culo a quei venduti del Genoa, e torniamo in serie “B”. Ho cambiato studio commerciale, ora lavoro a Monza. Vado a Milano sempre più di rado. Ieri però ero in città. Era il 28 febbraio, il giorno del mio compleanno. Ne compio ventisei. Ho visto una ragazza dai capelli rossi, ai giardinetti di Via Quadronno; mi sembrava Lei, ho affrettato il passo, ma poi l’ho vista entrare al Gaetano Pini. Ho girato a vuoto, sono arrivato in Garibaldi. L’automotrice partiva alle venti e quindici. Ho preso un biglietto alla macchinetta automatica. Mi sono acceso una Marlboro. Mi è caduta una lacrima, ha strisciato sul mio viso. Ma il dolore non era quello...

Io, della vita, non ho mai capito nulla.

 

 

 
 
 
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