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Febbraio
Era inverno, la città era vigorosa, e gli istanti erano veraci ed incoscienti. Venne febbraio e la mia vita ne fu travolta. In pochi giorni ogni cosa fu mutata, trasfigurata. Andai ad abitare nelle vicinanze di un boulevard a lastroni rossi, solcato da aceri dal tronco chiaro, dove antichi palazzi si scrutavano con diffidenza. Quel viale era il paradigma dell’intera città. Vi confluiva una strada spoglia, fredda, pavimentata in lastre di cemento, che conduceva dritta sino ad un parco, aperto, luminoso e spettrale di luce lattea. Non lontano dal primo incrocio stava, nascosto, il cortile buio ed ambiguo della mia casa.
La scrittura richiede esercizio e pazienza. E quell’inverno io scrivevo, scrivevo più di quanto avessi mai fatto. Vendevo infatti le mie dita per la scrittura, e le vendevo a poco prezzo, per pagare il letto basso delle mie notti affrettate. Ma presto sopravvenne un risvolto imprevisto. L’abitudine della scrittura serale intima e sconnessa cominciò a staccarsi dalla mia pelle, come le incrostazioni dall’intonaco di una parete. Dal momento che venni impiegato come giornalista, dovetti assistere al crollo della spinta del mio stile. Mi ero istituzionalizzato.
Consideravo che l’opinione generale sulla mia esistenza non mi si addiceva. D’altra parte non mi riusciva di individuare responsabili di questo insuccesso al di fuori della mia persona. Quando mi mettevo a pensare ero afflitto dall’inconsistenza dei miei progetti letterari. Nessun approdo in vista, nessuna rotta tracciata; e l'età che cresceva. Certe volte mi ponevo delle scadenze ultime: se entro tot anni non avessi portato a termine un romanzo, un romanzo intero, per quanto difettoso, avrei ammesso con dignità il fallimento.
Dividevo una stanza in un soppalco con uno studente di Taranto dalla voce sottile ed i modi garbati. In alcune occasioni sapeva farsi piccolo, efebo, lamentoso, più di quanto già non fosse. Dentro di lui agivano lacerazioni violente, incertezze ammesse all’autocritica solo di recente, in grave ritardo. L’idea di una loro risoluzione andava sfumando. Era frivolo e triste, ma non mi piaceva.
Le mie ultime note di fedeltà ai ritmi circadiani si dissolsero. Le notti diventarono sottili, sottilissime. Le mattine scomparvero. Ad un certo punto non mi sarebbe stato difficile farmi assumere come portiere notturno o come guardia giurata.
Mi aggiravo in casa scalzo, affamato e infredolito; fra le stanze polvere, ronzii, fragore. L’appartamento e i suoi spifferi; le luci fioche; il mobilio sconclusionato; le sbarre alle finestre; il boschetto malsano sul retro del bagno. Il ventre che reclama. Reclama una voce, reclama un corpo da piegare attorno a sé.
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Inviato da: charles21
il 23/11/2006 alle 13:14
Inviato da: tatinabs1986
il 08/09/2006 alle 00:04
Inviato da: skawe
il 07/09/2006 alle 16:58
Inviato da: tatinabs1986
il 03/03/2006 alle 11:29
Inviato da: tatinabs1986
il 06/01/2006 alle 12:11