Creato da kajapo il 03/09/2009
c'è un solo modo per impadronirsi della vita. viaggiare. viaggiare dentro se stessi con l'occhio nudo. e viaggiare nelle strade, camminando a piedi...
 

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il prete che uccise sette alberi di mango

Post n°2 pubblicato il 01 Ottobre 2009 da kajapo
 

                               Il  prete che uccise sette alberi di mango
                           E tolse la frutta dalle manine di decine di bimbi della favela

Correva e corre, mentre scrivo , l ’anno duemilanove del calendario “cristiano”.
C’è un punto, segnato sulla mappa del Brasile. In alto, dove l’immenso Rio delle Amazzoni, rompendosi in mille bracci, e creando migliaia di isole , si getta nell’oceano.  Verso la fine del delta, dove ormai sono scomparse le isole e l’acqua del fiume si incontra con l’atlantico,  la mappa indica un verde color di foresta. Ma è solo un retaggio di una remota memoria di carta. E come spesso è accaduto in un recente passato, le mappe di nazioni paesi e luoghi , sono divenute obsolete, inservibili. Non c’erano più gli stati, le nazioni. Persino le città erano andate distrutte. Annientate dalla sapienza dell’orrore umano.
Sotto il delta comunque, voi vedrete ancora la carta tinta di verde. Ma quel verde è solo il capim, l’ erba alta, esile, che si flette al vento come una piuma. E poi col passare della pioggia e sotto la sferza del dio sole equatoriale, si risveglia color dell’oro. Ed è così, perché lì c’è solo una distesa senza limiti. Un latifondo che ha divorato tutto il verde possibile . E in cambio produce carne di vacca, per saziare le bocche di chi può pagarla. Cioè noi, europei, noi americani, noi russi e noi arabi. Qui e là, sotto il Rio, ci sono dodici milioni di vacche. E solo sette milioni di esseri chiamati umani. Adesso scendete col dito sulla mappa verso sud, lentamente. Vedrete una quantità di fiumi, fiumiciattoli, igarapè, come son chiamati qui. Qualche lieve segno di strada, ma non ingannatevi, sono tutte sterrate. I ponti, quelli no, non sono segnati, ma capite che sono fatti di legno e raramente rabboccati in cemento, alle estremità. Quindi, sono proprio come gli esseri che li hanno costruiti, irrimediabilmente provvisori. Si fanno e si sfanno con le piogge, le persistenti inondazioni. I venti furiosi che salgono dall’acque. E non c’è più la barriera protettiva, gli alberi frondosi della memoria antica. Scendete ancora un poco e finalmente troverete un piccolo agglomerato di casette. Certo le vedete indistinte, impersonali. Ma è proprio lì che andiamo, perché la nostra storia appartiene a quel luogo.
E dunque nel villaggio che ha il nome di una santa, e dove la maggioranza degli abitanti si dedica alle fazende di quattro imperatori del bestiame, ricavandone in cambio il necessario per vivere in miseria: dunque, nel villaggio c’è , oltre alle casette e ad una piccola favela, un grande giardino. Nel giardino case e casette in muratura, la sala delle riunioni, coi muri a metà per arieggiarla, nel centro dello spazio. Siepi di fiori, un orto ormai abbandonato. E sette maestosi e giganteschi alberi di mango. Ogni anno dai rami torti e ombreggianti cadono quintali di manghi gialli e succosi. Un vero dono di dio. Un dono si, perché decine e decine di pargoli, quasi tutti seminudi e scalzi, entrano nel giardino e raccolgono il frutto proibito. Si proibito, perché lì è proprietà privata. È della parrocchia, cioè del prete. Ma c’è un tale , che abita nella casa grande, che ha un cuore grosso così. Sa che questi bimbi della favela lì vicina, esattamente oltre il muro del giardino, sono figli di poveri. Di miserabili che svolgono lavori saltuari e precari. E non possono certo permettersi una alimentazione adeguata per i figlioletti. Lui lascia il cancello aperto. Loro entrano, e sono tanti, tanti. Lanciano grossi sassi verso i rami. Usano anche delle pertiche. Quelli più grandicelli salgono un buon tratto e ne fanno cascare a decine.   Vi assicuro, basta osservarli un istante per capire come siano denutriti. E è così possente il morso della pancina mezza vuota, che spesso salgono su quando ancora il mango è duro. Cioè voglio dire, è acerbo poco commestibile. Ma loro non sottilizzano. Quello che addentano rapidi è qualcosa di denso, fibroso ricco di minerali e vitamine. E dal sapore piacevole. Dunque l’uomo lascia fare. Sa cosa è la fame. Sa dove vivono. Come vivono. cosa avranno per cena. Fagioli e un poco di mandioca. Quindi, lui che ha il timore di dio, li lascia fare. Certo loro gridano, strillano, si rincorrono. Ridono si azzuffano piangono. Sono bambini. Bei bambini con le pancine quasi sempre semivuote. E così i sette manghi danno il dono di dio alla stirpe dei favelados della cittadina col nome di una santa.
Ma “as mangueiras”, come chiamano le piante di mango , oltre al dono di dio, abbracciano il giardino con l’ombra maestosa dei rami frondosi. E’ un respiro dalla calura incessante del tropico.  Oltre al ristoro dell’ombra, accolgono decine di specie differenti di uccelli. E potessi spiegarvi con le parole, tutte le melodie dell’alba. Tutti i canti, i concerti mattutini e notturni, dei mille uccelli che sostano e passano  tra fronde. Ma le parole non possono tanto. E poi anche il branco di scimmie , i “micoleon”. Piccole scimmie non può grandi di uno scoiattolo, dai musini incantevoli e la coda prensile e lunghissima. Che spesso di notte, saltando da oltre il giardino, e poi da ramo a ramo, giocavano e si prendevano la loro piccola porzione di manghi. E poi certamente, tutte le migliaia di insetti, i ragni, le formichine che vivono in simbiosi con i sette maestosi manghi del giardino nella cittadina col nome di una santa. Insomma è un bel posto, lì dentro, per vivere e  perché no, anche per morire.
Il mondo ha bisogno di questi giardini. Il mondo ha bisogno del verde, dell’ossigeno, dei canti, del sorrriso dei bimbi. Ha bisogno del frutto per saziare le pancine corrose dalla fame. Il mondo ha bisogno.
Poi un giorno, un brutto giorno, è arrivato un prete nuovo. Era giovane, appena uscito dal seminario. Sembrava un poco timoroso, circospetto. Forse, si pensava, sarà premuroso con i tanti poveri, i tanti miserabili che vivono qui accanto, dentro quelle puzzolenti baracche di legno. Con i tetti di latta e eternit e la cucina fatta da tre mattoni per infilarci la legna.
Badate, siamo sempre nell’anno duemilanove del calendario occidentale.  Dunque, passati  pochi giorni e dopo aver ben compreso qual era il suo potere. Dopo aver contato, me lo immagino, il numero delle chiavi posate sul suo tavolo, ha capito che lui era il padrone.  Il vero padrone delle anime, delle case, delle elemosine e del giardino. E avendo constatato, durante una riunione nella sala del giardino, il tramestio prodotto dai bimbi, e il fastidio che procurava a lui, uomo di chiesa e necessario agli spazi del silenzio e della tranquillità. Questo prete, di nemmeno trent’anni ha deciso : che gli alberi siano dannati al rogo eterno.
L’uomo della casa è un uomo buono. E’ tollerante, cerca di spiegare che è un errore, che i bimbi hanno bisogno di questo prezioso dono di dio. Ma l’uomo non sa che dio è lì, di fronte a lui. E’ uscito da poco dal seminario, mio dio. E ha imparato poche cose, ma chiare : lui ha le chiavi, lui è il padrone.
E così arrivano gli operai. Quattro motoseghe a petrolio. Un lavoro immenso. Alberi di venti e trenta metri. Una base di almeno due di diametro. Il rumore infernale straccia l’aria per due giorni interi, senza soste. Pezzi di mango morto si accastellano al suolo. 
Al terzo giorno il giardino era vuoto. E muto. Non più canti di uccelli nelle aurore tinte di giallo e arancione. Non più ombra nel pomeriggio assolato. Niente più la frutta, dono del suo stesso dio. Non più le grida felici dei bimbi. Solo un cupo silenzio. Un silenzio che ha il colore della morte. Lo stesso colore che ha l’anima di quell’uomo. Che è solo un prete.

Osvaldo pasquali

 
 
 
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