Verso il Fronte

Lo Stato (non) costa troppo


Alcuni dei post pubblicati in passato, tra cui segnatamente quelli contenenti link a conferenze di alcuni dei principali economisti eterodossi italiani, inducono a una riflessione sui costi dello Stato e sulle cause che li hanno generati.In verità, non si tratta poi di una riflessione particolarmente originale ma può essere utile farla per cercare di sistematizzarla.Il problema fondamentale da trattare è quello del costo dello Stato. In linea generale, si potrebbero fare due affermazioni, che grosso modo significano la stessa cosa: lo Stato costa troppo e (soprattutto) si pagano più tasse di quanti servizi lo Stato eroga in favore dei cittadini.Perché queste affermazioni sono vere? Basterebbe prendere il dato sul deficit dello Stato per capire che entrate e uscite non sono allineate e quindi chiudere qui il discorso. Eppure, senza entrare in troppi dettagli contabili, non è questo il dato più interessante. Ciò che va osservato è, infatti, il dato concernente l'avanzo primario dello Stato, cioè l'avanzo delle casse statali al netto del pagamento degli interessi sul debito pubblico.I dati del periodo 1994-2014 si trovano al link seguente sul sito del Ministero dell'Economia e delle Finanze: http://www.mef.gov.it/inevidenza/article_0045.htmlCome vedete, eccezion fatta per l'anno 2009, che è stato l'anno principale della crisi finanziaria, l'Italia ha registrato per 19 anni un avanzo primario. L'avanzo primario, poi, nel 2015 è stato pari all'1,5% del PIL.Grazie ai dati visibili sul link del MEF si può constatare molto semplicemente che, in effetti, le entrate dello Stato, che principalmente derivano dalla pressione tributaria, sono elevatissime e superano i servizi che, in cambio, lo Stato offre ai cittadini (sempre ammesso che l'emissione di un documento di identità, per fare un esempio, sia classificabile come servizio... chiaramente non vi è altra definizione classificatoria, ma trattasi pur sempre di un servizio di tipo pubblicistico e non privatistico, ossia che non corrisponde a un mero desiderio o bisogno del privato che il mercato può soddisfare).Procediamo ora ad alcune considerazioni elementari, prima di giungere a quelle un po' più complesse, cercando tuttavia di mantenerci sul semplice.Premesso che agli italiani, negli ultimi 20 anni, è stato chiesto uno sforzo di aggiustamento strutturale enorme che non ha fatto nessun altro (nemmeno la Germania, come si evince dal sito MEF), perché fare questo sforzo, specie se il debito continua a crescere?Innazitutto, non va dimenticato che lo sforzo aveva comunque portato a un risultato positivo prima dell'inizio della crisi, quando il rapporto debito/pil era sceso intorno al 100% del PIL. E' stato dopo la crisi che il rapporto è risalito fino ad arrivare al 130% del PIL. Ciò è stato dovuto, da un lato, proprio alla contrazione del PIL e, dall'altro, alle politiche di austerità fiscali che hanno contribuito ad accelerare la contrazione del PIL.Ciò detto, bisogna aggiungere che fare uno sforzo di quel tipo, anche prima dell'avvento della crisi, poteva non esser conveniente (dato che uno sforzo fiscale di questo tipo zavorra inevitabilmente la domanda interna). Il ciclo economico però non era negativo, come lo è stato dopo il 2006. E poi uno sforzo strutturale di queste dimensioni contribuisce a ridurre i tassi di interesse sul debito pubblico. Il che è un elemento chiave nell'ottica di una politica di contenimento del debito. Oltre al fatto che l'Italia, non avendo lo standing della Germania sui mercati, deve avere dei fondamentali di tutto rispetto se vuole attrarre capitali, per finanziare il proprio debito, non remunerandoli eccessivamente. Deve cioè garantire la fiducia verso il mercato.Posto ciò in positivo circa l'avanzo primario, veniamo però alle dolenti note.La prima osservazione da fare è che un aggiustamento strutturale di questo tipo, per quanto monstre, non è servito a riportare il debito entro livelli più contenuti. Si potrebbe obiettare che c'è stata la crisi. Ma  le oscillazioni cicliche dell'economia ci sono sempre state, dunque dove sarebbe la novità?Qui però occorre andare al nocciolo del problema. Un conto è il livello assoluto di debito e un altro conto è il rapporto debito/pil. Nel nostro caso, il primo è senza ombra di dubbio enorme e tentare di ridurlo, quantomeno attraverso un aggiustamento fiscale del tipo tentato dall'Italia nei 20 anni considerati, rischia di essere un vero e proprio suicidio economico.Il secondo rapporto è invece riducibile se il tasso di crescita del PIL è superiore al tasso di indebitamento. In questo modo, anziché ridurre la massa del debito, lo si renderebbe sostenibile nel lungo periodo tramite un'espansione economica derivante dalle risorse che si liberrebbero se si rinunciasse, una buona volta, a perseguire obiettivi illusori di riduzione della massa complessiva del debito. Più o meno, si tratta di un modo di intendere le cose, questo, affine alla proposta lanciata ormai 10 anni fa, all'epoca del secondo Governo Prodi, di rinunciare a politiche di riduzione del debito pubblico per tentare piuttosto di stabilizzarlo (http://www.feltrinellieditore.it/news/2006/06/28/emiliano-brancaccio-conti-pubblici--stabilizzare-ma-non-abbattere-il-debito-6927/). Gli economisti che parteciparono a quel dibattito, d'altronde, erano ben coscienti che il destino del Governo Prodi si sarebbe giocato precisamente su quel punto. Come sono andate le cose lo sappiamo.La discussione fin qui condotta dovrebbe portarci a sposare la tesi da ultimo esposta relativa alla stabilizzazione del debito. La risposta è affermativa, ma a patto di ulteriori precisazioni.Sullo sfondo di questa discussione resta il problema, da una parte, della massa di debito e, dall'altra, degli interessi sul debito.Partiamo da questi ultimi. Se lo Stato è da più di 20 anni in avanzo primario, ciò vuol dire che, in pratica, non sta contraendo nuovi debiti (del resto, a dimostrarlo sta anche l'assenza di investimenti pubblici). Il  debito tuttavia continua ad aumentare senza contrarre nuovi debiti. Dunque, in una sorta di anatocismo senza limiti, gli interessi sul debito stanno formando nuovo debito in una spirale infinita. Di qui anche l'illusorietà del tentativo di voler ridurre una massa di debito che ormai si autoalimenta da sé.Venendo alla massa del debito, qui è necessario fare alcune considerazioni partendo da una distinzione. Un conto è il debito formatosi negli anni '70 del secolo scorso, un altro conto è il debito formatosi successivamente.Il debito formatosi negli anni '70 è il classico debito da spesa sociale. In quegli anni, in cui si attuava ancora la Costituzione (non a caso viene ora usata questa espressione) si espanse la spesa sociale. Il difetto di quell'impostazione fu che la spesa sociale venne finanziata a debito, non venne cioè rivista la struttura della tassazione per allineare le entrate e le uscite (come ci ricorda Sergio Cesaratto), anche se in quegli anni vi furono alcune delle principali riforme fiscali del nostro Paese.Il debito salì in quegli anni, ma non esplose, perché l'Italia praticava all'epoca la c.d. monetizzazione del debito pubblico e l'inflazione era più elevata, ciò che favoriva lo Stato debitore rispetto ai creditori.Negli anni '80, quando invalse l'interpretazione che bisognava cambiare la Costituzione e non attuarla (e non per caso) e che bisognava disinflazionare l'economia e che l'inflazione era un male provocato dall'eccesso di spesa e dalla monetizzazione, si procedette al divorzio Banca d'Italia/Tesoro con l'intento di procedere a una disinflazione. Gli effetti nefasti di quella scelta si sono prodotti sino a oggi. Difatti, il divorzio costrinse lo Stato a finanziarsi interamente sul mercato. Ciò fece esplodere gli interessi sul debito senza che vi fosse in realtà alcun significativo aumento del livello di spesa sociale e per investimenti (che in Italia infatti è inferiore alla media europea, senza che nessuno aggiunga come mai in Italia si possa avere una spesa inferiore alla media europea e un debito pubblico di queste dimensioni).Sia consentito un piccolo inciso: in primis, alcuni degli economisti anti euro, pur ricordando lodevolmente il passaggio del divorzio come elemento chiave del disastro del debito pubblico, omettono di ricordare la dinamica precedente del debito, quella degli anni '70. Perché lo fanno? Perché se lo facessero finirebbero per dover in parte dar ragione ad Andreatta e Ciampi che il divorzio praticarono nel 1981. Cioè a dire che la spesa era salita senza aggiustamenti fiscali e bisognava porla sotto controllo. Il problema, chiaramente, era che lo strumento per tale contenimento si è rivelato del tutto errato avendo fatto esplodere il debito invece di contenerlo.In secundis, non bisogna dimenticare la dinamica dei tassi di interesse di quegli anni (e qui ci aiutano gli interventi di Bellofiore) e principalmente dei tassi di interesse americani. Se l'obiettivo era disinflazionare l'economia anche americana attraverso un aumento dei tassi (come ricorda Caffè nei suoi saggi), l'Italia non avrebbe potuto esser da meno perché, va ricordato, a quel tempo i tassi europei seguivano i tassi americani. Un aumento dei tassi di interesse in America, non bilanciato da un aumento in Italia avrebbe comportato un deflusso di capitali verso gli USA in quegli anni. Come ci saremmo finanziati allora?Mediante il divorzio, abbiamo dunque ottenuto di disinflazionare l'economia pur aumentando il debito (ciò che è apparentemente un paradosso, se non si tiene conto appunto del fatto che che la riduzione dell'inflazione è dovuta a una contrazione di base monetaria giacché l'aumento del debito è dovuto non all'immissione di circolazione di moneta all'interno del sistema economico, ma a una sua riduzione perché la moneta doveva andare a pagare tassi di interesse più alti) comunque mercé un aumento dei tassi di interesse pagati dallo Stato.L'esito di questa politica è stato disastroso, come si può evincere a distanza di ormai quasi 40 anni.Abbiamo infatti un debito pubblico in aumento sol perché dobbiamo pagare gli interessi sul debito, senza elementi per contrastare questa dinamica.Per altro verso, la struttura fiscale resta comunque sperequata. Il livello di tassazione è infatti troppo basso per portare il deficit a zero, ma se lo aumentassimo schianteremmo l'economia nazionale senza ormai raggiungere risultati troppo positivi. Ed è comunque troppo alto, come ci dimostra il dato sull'avanzo primario, in rapporto ai servizi statali erogati ai cittadini.Sulla scorta del ragionamento che precede, nell'attuale contesto, pur essendo auspicabile un allineamento di entrate e uscite dello Stato (ciò che di per sé non è un obiettivo detestabile ma che è impraticabile oggi; mentre è assolutamente da respingere l'inserimento dell'equilibrio di bilancio nella Costituzione per varie altre ragioni), non è possibile alcuna manovra fiscale. A sistema vigente, se aumentassimo le entrate statali per azzerare il deficit, l'economia privata smetterebbe di funzionare. Ma se diminuissimo le entrate dello Stato per favorire l'economia correremmo il rischio di dover pagare di più in termini di tasso di interesse giacché aumenterebbero i dubbi dei mercati sulla tenuta dei conti pubblici (lasciamo da parte ora la questione di un aumento dei consumi che generi poi un aumento delle entrate fiscali), col rischio di vanificare la politica intrapresa.L'unico strumento utilizzabile in questo momento per uscire dalla trappola in cui siamo è quello di tornare alla monetizzazione del debito pubblico da parte della Banca Centrale. Ciò consentirebbe allo Stato di reperire risorse più facilmente, sulla base di tassi di interessi più bassi rispetto a quelli del mercato finanziario, liberando risorse da investire e aumentando l'inflazione (che è stata troppo a lungo a livelli eccessivamente bassi).Alla luce dell'evoluzione della situazione attuale, del resto, altra strada non sembra esserci, essendosi esaurito il margine di manovra fiscale.