Creato da umegh1 il 24/02/2012

Il mondo di Leo

L'uomo più potente è quello che è padrone di se stesso

 

 

La giustizia umana, Seneca.

Post n°187 pubblicato il 12 Novembre 2016 da umegh1

La natura non costringe l'uomo a peccare, ma gli ha dato l'inclinazione a peccare. La natura non da nè sapienza nè virtù. Si diviene saggi non si nasce saggi. La guerra dell'uomo all'uomo è un pericolo quotidiano contro cui bisogna sempre premunirsi e vigilare. La tempesta minaccia prima di scoppiare, l'edificio scricchiola prima di crollare, il fumo preannuncia l'incendio; la rovina che ci viene dall'uomo è improvvisa ed è tanto più nascosta quando è più vicina; ed è un errore credere ai volti che ci si presentano, l'immagine è di un uomo e l'anima di una belva, ma delle belve il più pericoloso è il primo assalto costrette a nuocere per fame o per paura, diversamente dall'uomo che prova piacere nel far del male ad un altro simile. Non si può fare un passo senza che si veda una vergogna, non si esce di casa senza dover camminare in mezzo a scellerati, avari, impudenti e perciò appunto felici. Quando vediamo il foro, comizi e circo zeppi di gente, possiamo dire che là sono riuniti tanti vizi quanto sono gli uomini. Si aggiungano gli orrori delle guerre, i tradimenti delle nazioni, le violazioni dei patti, le violenze della forza predatrice, i furti, le frodi; se il saggio dovesse adirarsi difronte all'enormità dei misfatti, la sua non sarebbe più collera ma pazzia. Lo stimolo più potente di ogni infamia è il denaro: esso intossica le case, mescola i veleni, consegna le spade ai sicari quanto alle legioni ed è sempre macchiato del nostro sangue. I nostri costumi si sono ridotti a tal punto che si considera la povertà una maledizione e una vergogna. Eppure tutti costoro che ricchezze ed onori pongono in alto nessuno è grande. Un nano non diviene grande per essersi collocato su una montagna e un colosso conserverà la sua grandezza anche nel fondo di un pozzo. quindi se vogliamo conoscere il vero valore di un uomo guardiamolo spogliato del suo patrimonio, delle sue ricchezze, degli onori; guardiamolo nell'animo per vedere se egli è grande di suo oppure è una grandezza presa in prestito. Le ricchezze toccano pure ai leoni e il denaro cade su certa gente come una cloaca.

 
 
 

Tratto da "De Ira" Seneca

Post n°186 pubblicato il 15 Giugno 2015 da umegh1

La regola migliore è di rifiutare subito il primo insorgere dell’ira, combatterne i remoti principi ed impegnarsi in concreto a non adirarsi. Infatti, se comincia a trasportarci fuori strada, è difficile tornare alla salvezza, perché non ci sarà più nulla di ragionevole, una volta che s’è intromessa e le si è concesso di nostra volontà un settore di dominio: su ciò che resta, farà quanto vorrà, non quanto le permetterai. “L’ira, dice Aristotele, è necessaria e, senza di essa, non si può venire a capo di nulla: essa deve gonfiarci l’animo ed infiammarci l’ardire. Ma non dobbiamo servircene come di un comandante, ma come di un soldato. Questo è falso, infatti, se ascolta la ragione e la segue nel cammino che essa le traccia, non è più ira, dato che la caratteristica dell’ira è la ribellione, perciò la ragione non assumerà mai come aiutanti le passioni sprovvedute e violente, sulle quali essa non ha alcuna autorità e che sa di non poter mai frenare. Di male, direi, l’iracondia ha questo: non accetta d’esser governata; si adira anche contro la verità, se le si presenta contraria al suo volere; perseguita le sue vittime designate con grida, rumore, scomposti movimenti di tutto il corpo, ed aggiunge ingiurie ed insolenze.  Nell’ira, dunque, non c’è nulla di grande, nulla di nobile, neppure quando essa si mostra impetuosa e sprezzante degli dèi e degli uomini. Oppure, se si pensa che l’ira produca in qualcuno la magnanimità, si deve pensare che la produca anche il lusso: vuol coricarsi sull’avorio, vestirsi di porpora, coprirsi d’oro, spostare la terraferma, rinchiudere i mari, trasformare i fiumi in cascate, fare boschi pensili. Quindi cosa è l’ira; se essa nasce senza il nostro assenso, non soccomberà mai alla ragione. Tutte le reazioni che insorgono fuori dell’area della volontà, sono invincibili ed inevitabili, come il brivido di chi è cosparso d’acqua fredda o la ripugnanza a certi contatti, il rizzarsi dei capelli alle notizie più brutte, l’effondersi del rossore alle parole sfacciate, la vertigine che coglie chi guarda i dirupi. Poiché nulla di tutto questo è in nostro potere, la ragione non può impedirne il verificarsi. L’ira è messa in fuga dai retti dettami: essa è infatti un vizio volontario dell’animo, non una di quelle reazioni che sono insite nello stato di condizione umana e perciò accadono anche ai più saggi.

 
 
 

Filosofia della stupidità

Post n°185 pubblicato il 13 Maggio 2015 da umegh1

Sulla scia di alcune osservazioni sparse di Gilles Deleuze, è possibile abbozzare il progetto di una “filosofia della stupidità”. Ma attenzione: va mantenuta tutta l’ambiguità del doppio genitivo contenuto nel titolo.

Infatti, fuorviati da una falsa interpretazione della tradizione (ricordate l’avvio dell’argomento ontologico che, nel Proslogion, Anselmo affida alla voce dello stupido? “Dicit stultus in corde suo: Deus non est…”) quando Deleuze parla della stupidità, per gli intelletti più ottusi sopraggiunge sempre il sospetto che egli si stia escludendo dal discorso.  Così lo stupido ha subito voglia di interromperlo : “Ma chi si crede di essere? Per chi si prende?”.

Come se, parlando dell’imbecillità, il filosofo non parlasse, per una volta, anche di sé; come se la stupidità facesse eccezione alla regola secondo la quale, qualunque cosa si dice, non si parla mai d’altro che di sé. Ma come potrebbe la stupidità fare eccezione alla regola nella quale essa trova il suo fondamento?

La stupidità è, per l’appunto, quella parte di noi stessi che vede nell’altro uno specchio dal quale non  può provenire nient’altro che la propria immagine. Il suo sguardo  attraversa il mondo e finisce sempre per ritrovarvi, più o meno consapevolmente, un “alter ego”, la sua ombra, il suo riflesso. La stupidità è la riduzione del mondo all’ “io”, dell’altro allo stesso; è una sindrome di paranoia egotica che è difficile tenere a bada. Cede volentieri all’abbaglio dell’identico, come il politicante che inveisce esclamando: “Il nemico è uno stronzo. Crede che siamo noi, il nemico; mentre il nemico è lui!”.

La stupidità, come il pensiero unico, preferisce “riconoscere” piuttosto che incontrare: è cieca e sorda per l’evento, perché lo confonde con la futilità del nuovo e dello stravagante. E’ il contrario dell’eccezione, incline alle seduzioni  del déjà-vu (del “mi sembra di ricordare”), amica del generale e  nemica della differenza.  La stupidità ci fa annegare nel gruppo dal quale più nulla ci distingue e nel quale conta solo la corrente che trascina.

O meglio, la stupidità galleggia nel vago, si spande sulle onde dei media, ed è spesso affabile, ospitale, accogliente. Tutti si orientano nella stupidità: è il luogo comune nel quale ci si esonera a vicenda dalla fatica di pensare. La si riconosce nei catechizzatori la cui condotta smentisce le parole, nei blasfemi che, come i superstiziosi, credono che Dio sia il Diavolo; o nell’edonismo del consumo, per il quale si gode non nell'essere felici, ma  nel  poter dimenticare che non lo si è mai stati.

La si riconosce in quelli che credono di riconoscerla nelle parole dell’altro, e che per questo, tuttavia, si assegnano comunque un ruolo di primo piano, ripetendo: “l’ho sempre detto anch’io…” oppure “è esattamente quello che ho sempre pensato”. Insomma, la stupidità ha sempre l’ultima parola, ha sempre ragione. 

Fausto Pellecchia.

 
 
 

lettere a Lucilio Seneca.

Post n°184 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da umegh1

Mi chiedi che cosa secondo me dovresti soprattutto evitare? La folla. Non puoi ancora affidarti a essa tranquillamente. Quanto a me, ti confesserò la mia debolezza: quando rientro non sono mai lo stesso di prima; l'ordine interiore che mi ero dato, in parte si scompone. Qualche difetto che avevo eliminato, ritorna. I rapporti con una grande quantità di persone sono deleterî: c'è sempre qualcuno che ci suggerisce un vizio o ce lo trasmette o ce lo attacca a nostra insaputa. Più è la gente con cui ci mescoliamo, tanto maggiore è il rischio. Ma non c'è niente di più dannoso alla morale che l'assistere oziosi a qualche spettacolo: i vizi si insinuano più facilmente attraverso i piaceri. Capisci che cosa intendo dire? Ritorno più avaro, più ambizioso, più dissoluto, anzi addirittura più crudele e disumano, poiché sono stato in mezzo agli uomini. Verso mezzogiorno sono capitato per caso a uno spettacolo; mi attendevo qualche scenetta comica, qualche battuta spiritosa, un momento di distensione che desse pace agli occhi dopo tanto sangue. Tutto al contrario: di fronte a questi, i combattimenti precedenti erano atti di pietà; I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi; tutto il corpo è esposto ai colpi e questi non vanno mai a vuoto. La gente per lo più preferisce tali spettacoli alle coppie normali di gladiatori o a quelle su richiesta del popolo. Al mattino gli uomini sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi, al pomeriggio ai loro spettatori. "Uccidi, frusta, brucia! Perché ha tanta paura a slanciarsi contro la spada? Perché colpisce con poca audacia? Perché va incontro alla morte poco volentieri? Lo si faccia combattere a sferzate, che si feriscano a vicenda affrontandosi a petto nudo." C'è l'intervallo: "Si scanni qualcuno, intanto, per far passare il tempo." Non capite nemmeno questo, che i cattivi esempi si ritorcono su chi li dà? Ringraziate gli dei perché insegnate a essere crudele a uno che non può imparare. Bisogna sottrarre alla folla gli animi deboli e poco saldi nel bene: è molto facile subire l'influsso della maggioranza. Frequentare una massa di gente diversa da loro avrebbe potuto cambiare i costumi persino di Socrate, Catone, Lelio; nessuno di noi, soprattutto quando il nostro carattere è in formazione, può resistere alla pressione di tanti vizi tutti insieme. Un solo esempio di mollezza o di avarizia produce gravi danni: un commensale raffinato a poco a poco ti guasta, ti infiacchisce, un vicino ricco scatena la tua avidità, un compagno malvagio contamina anche un uomo semplice e puro: che cosa pensi che succeda alle nostre convinzioni morali quando vengono attaccate in massa dai vizi?        Due sono i casi: o li imiti o li odi. Ma sono da evitare l'uno e l'altro estremo: non devi assimilarti ai malvagi, perché sono molti, né essere nemico di molti, perché sono dissimili. Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore e accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché mentre s'insegna si impara.

 
 
 

la giustizia umana Seneca.

Post n°183 pubblicato il 07 Febbraio 2015 da umegh1

La natura non costringe l’uomo a peccare, ma gli ha dato l’inclinazione a peccare; la natura non dà né la sapienza né la virtù. Si diviene saggi, non si nasce saggi: e diventare buoni è un’arte che dipende dalla libera volontà nostra, nella quale risiede il merito ed il demerito della nostra vita. L’uomo malvagio vuole il male: lui l’ha scelto assecondando con la volontà la disposizione al male.
La guerra dell’uomo all’uomo è un pericolo quotidiano contro cui bisogna sempre premunirsi e vigilare. La tempesta minaccia prima di scoppiare, l’edificio scricchiola prima di crollare, il fumo preannuncia l’incendio: la rovina che ci viene dall’uomo è improvvisa ed è tanto più nascosta quanto più è vicina. È un errore credere ai volti che ci si presentano: l’immagine è di un uomo, l’anima è di belva; ma delle belve è più pericoloso il primo assalto: una volta passate non ci ricercano più, e solo il bisogno le porta a nuocere costrette dalla fame e dalla paura. Per l’uomo è un piacere rovinare un altro uomo.
Non si può fare un passo senza che si veda una vergogna; non si esce di casa senza dover camminare in mezzo a scellerati, avari, prodighi, impudenti e perciò appunto felici. Quando vediamo il foro e i comizi e il circo zeppi di cittadini, possiamo dire che là sono riuniti tanti vizi quanti sono gli uomini. Fra codesti uomini che si vedono, non c'è nessuna pace: l’uno è tratto da un meschino interessa per la rovina dell’altro, e nessuno guadagna se non c’è un altro che soffre; il felice è odiato, l’infelice è disprezzato, il maggiore è mal sopportato e il minore è oppresso; a una lieve voluttà, a una piccola preda si vorrebbe sacrificare ogni cosa. Si aggiungano gli orrori delle guerre, le infamie dei giovani, i tradimenti delle nazioni, le violazioni dei patti, le violenze della forza predatrice, i furti, le frodi; se il saggio dovesse adirarsi in proporzione della enormità dei misfatti, la sua non sarebbe più collera, ma pazzia.
Lo stimolo più potente di ogni infamia è il denaro: esso intossica le case, mescola i veleni, consegna le spade tanto ai sicari quanto alle legioni: ed è sempre macchiato del nostro sangue. Il denaro occupa la vita di molti, dacché incominciò ad essere in onore, perì l’onore vero della vita: e fatti di volta in volta mercanti e mercanzie, noi ricerchiamo non già il merito, ma il costo delle cose. E i nostri costumi si sono ridotti a tal punto che la povertà si considera come una maledizione e una vergogna. Eppure di tutti costoro che le ricchezze e gli onori pongono in alto nessuno è grande. Perché dunque apparisce tale? Perché lo si misura con il suo piedistallo. Un nano non diviene grande per essersi collocato su una montagna e un colosso conserverà la sua grandezza anche nel fondo di un pozzo. Se vogliamo conoscere il valore giusto di un uomo guardiamolo spogliato del suo patrimonio, degli onori, delle altre false apparenze della fortuna; guardiamolo nell’animo per vedere s’egli è grande di suo o se ha una grandezza presa in prestito. Ciò che può toccare all’uomo più vile e spregevole non è un bene. Le ricchezze toccano pure ai leoni: e il denaro cade su certa gente come in una cloaca.

 
 
 
 
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