Creato da as_scacciapensieri il 19/09/2008
Il calcio dal nostro punto di vista
 

Area personale

 

Tag

 

Archivio messaggi

 
 << Giugno 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
          1 2
3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 21 22 23
24 25 26 27 28 29 30
 
 

Videoteca del "Mister"

"Invictus"

"Miracle"

"Coolrunnings" o "4 sotto zero"

"Goal" I e II

"L'attimo fuggente"

"Patch Adams"

"Il club degli imperatori"

"Karate kid"

"Che aria tira lassù"

"Angels"

"Hardball"

"Ogni maledetta domenica"

"Quella sporca ultima meta"

"L'altra sporca ultima meta"

"Honey Boy"

"Alì"

"Un allenatore in palla"

"Glory road"

"Colpo vincente"

"Sfida per la vittoria"

"Il sapore della vittoria"

"Terza base"

"La sfida di Jace"

"Un lavoro da grande"

"La leggenda di Bagger Vance"

"Il più bel gioco della mia vita"

"Bobby Jones"

"Iron Will"

"Rochy Balboa"

"La ricerca della felicità"

"Una bracciata per la vittoria"

"In due per la vittoria"

"Ice princess"

"Stoffa da campioni"

"Piccoli grandi eroi"

"Ducks una squadra a tutto ghiaccio"

"Derby in famiglia"

"Il migliore"

"L'ultimo samurai"

"Un sogno una vittoria"

"Buffalo Dreams"

"Mi chiamano Radio"

"Tutti all'attacco"

"Billy Eliott"

 

Maradona: ritmo e sincronia

 

Slalom di Ibra

 

Magia di Van Basten

 

Great Footwork

 

The Best

 

The Best 2

 

Goal incredibile

 

Magie di Zidane e Maradona

 

Cucchiaio di Totti

 

L'Allenatore

 

Credere nei propri sogni...

 

Spesso basta fare la domanda giusta...

 

Il calcio è emozione!

 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

Ultime visite al Blog

enzodivitadfederico.daveniDott.Grausoviky1964kalchialpas46paolodesimonis1946gianluca.sacconidanieledegabrieleely67_1geol.fogliamassimodantecodinobaggio1bellaslysupersanta65
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

Biblioteca

"La Formazione tattica in fase di possesso palla. Il calcio dalla parte dei giovani" di E. Cecchini e E. Battisti (www.calciolibri.com)

"Scoiattoli e tacchini" di Gianpaolo Montali

"Le 48 leggi del potere"

"Mourinho. Questione di metodo"

"Mi piace il calcio ma non quello di oggi" di J. Cruyff

"I 36 stratagemmi"

"L'arte del comando" di F. Alberoni

"Le strategie dei Samurai"

"Dice lo zen"

"Creatività e pensiero laterale" di E. De Bono

"Passi di sport" di M. Davi e M. Risaliti

"L'eccezzionale tecnica degli schemi mentali" E. De la Parra Paz

"Basket e zen" di P. Jackson

"Più di un gioco" di P. Jackson

"Racconti per il coaching" di M. Parkin

"Uno nessuno centomila" di L. Pirandello

"Game intelligence in soccer" di H. Wein (www.reedswainsoccer.com)

"Uno per tutti, tutti per uno" K. Blanchard

"La partita perfetta" di Comisso

"Magico calcio" di Comisso

"L'altro mago"

"L'ultimo baluardo"

"Il sogno di fubolandia" di J. Valdano

"Cuentos de fùtbol" I e II di AAVV

"Le città invisibili" di I. Calvino

"Febbre a 90" di N. Hornby

"Nel fango del Dio pallone" di C. Petrini

"Il gioco nel calcio" di G. Peccati e D. Tacchini

 

 

 

PERLE DI SAGGEZZA

Come spesso accade, le immagini hanno molta più importanza delle parole e di qualsiasi commento, per cui vi auguro buona visione!!

 

Cambiare punto di vista

 

L'allenamento

 

L'allenamento: lavoro duro!

 

Il calcio nel mondo

 

Il calcio si gioca ovunque!

 

Campo per creativi

 

Sicuramente

 

S.A.G.E.

 

Impariamo

 

Tattica, comunicazione e malintesi

 

 

Idee a confronto

Post n°241 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da as_scacciapensieri

Diceva H. Herrera:

"Giocando individualmente, giochi per l'avversario; giocando collettivamente, giochi per te. Il calcio moderno è velocità. Gioca veloce, corri velocemente, pensa velocemente, marca e smarcati velocemente".

Per V. Lobanovsky il calcio è fatto innanzitutto di preparazione atletica spinta al massimo e appiattimento delle divisioni di ruolo. Spiega il colonnello: «Una volta iniziata la partita, bisogna adattarsi a quello che succede e quanto più si è veloci a mettere in pratica questa duttilità, tanto più se ne gioverà il risultato della squadra. Abolire i ruoli fissi e i giocatori specializzati: questo è il calcio moderno. Non è più possibile parlare di difensori, attaccanti, centrocampisti, tornanti. Al loro posto cerchiamo di creare giocatori "universali" in grado di esprimersi in ogni parte del campo, in ogni posizione e situazione tattica, in ogni ruolo. E chiaro che ci sarà sempre chi è maggiorente portato ad attaccare e chi, al contrario, preferisce difendere: l'importante è che nessuno sappia "solo" attaccare o "solo" difendere. Il calcio può evolversi solo attraverso questo tipo dì giocatori». Per lui, ci sono solo due categorie: i difendenti e gli aggressori, e i due vasi tattici devono essere il più possibile comunicanti.

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°240 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da as_scacciapensieri

Venerdì, 07 Ottobre 2011
07/10/2011 - Ma adesso si può dire che quest'uomo era un genio?
Il cancro al pancreas alla fine ha ucciso Steve Jobs, che aveva solo 56 anni. Gliel'avevano diagnosticato nel 2004, poi, dopo una biopsia, era parso di natura curabile. Il grand'uomo della Apple aveva così tirato avanti fino all'anno scorso, inventando nel frattempo l'iPod, l'iPhone, l'iPad e tutto il resto. Il male era però riapparso, e ad agosto Steve aveva dovuto mollare tutto, chiedendo solo che gli riconoscessero una specie di presidenza onoraria. L'avevano rivisto qualche volta, magrissimo, quasi spettrale, nella misera condizione in cui siamo ridotti quando ci coglie quel male e che tanti di noi conoscono per averla vista addosso a qualche caro. L'altra notte, la fine.

Qual è stata l'invenzione più importante?

Credo l'iPod: lo scatolino che raccoglie ore e ore di musica e che non ha concorrenti. Tutte le invenzioni di Steve Jobs erano re-invenzioni, cioè un modo di guardare qualcosa che già esisteva da un punto di vista inaspettato. I computer sono nati prima della Apple, l'iPod ha disintegrato il mondo dell'mp3, regolarizzandolo addirittura, dato che quelli che prima copiavano scaricano adesso da iTunes la musica o i film pagando. L'iPhone, rispetto alla nascita dei cellulari, è arrivato persino tardi. E l'iPad è stato un modo per contrastare il nuovo gadget editoriale, il tablet su cui si possono leggere i libri e i giornali, e di cui Amazon sperava di essere monopolista. Steve Jobs era naturalmente un immenso venditore: tenendo segrete le sue invenzioni, maltrattando i giornalisti che tentavano di avvicinarsi, punendo le fughe di notizie, preparava poi l'adunata mistica in cui consegnava alla folla in estasi un qualche oggetto informatico di sorprendente bellezza. Steve stava attentissimo alla grafica e nel famoso discorso di Stanford del 2005 spiegò che uno dei momenti decisivi della sua vita era stata la frequenza di un corso di calligrafia che lo aveva introdotto all'arte tipografica. Pensi un po': il mago delle tastiere s'era formato alla scuola dei pennini e degli inchiostri.

Ognuna di quelle adunate era un evento?

Sì, con le file davanti ai negozi di gente che aspettava l'apparizione del feticcio e che si preparava ad adorarlo al di là del suo valore intrinseco e del suo prezzo spropositato. Il primo iPhone era in definitiva poca cosa, rispetto a quello che tecnologicamente avrebbe potuto contenere, e che la Apple avrebbe poi inserito man mano nelle versioni successive. E il costo – allora e adesso - era fuori dal mondo. Ma il prezzo, come sappiamo, non è determinato dal valore dell'oggetto, ma dalla domanda del pubblico. E pochi come Jobs hanno diritto al titolo di guru, cioè di grande suscitatore di domanda.

Per me, l'idea più grande è stata questa delle Apps (Applicazioni), con cui un telefonino iPhone si può trasformare in milioni di altre cose.

Ieri sui giornali americani è uscita una vignetta – ripresa poi da corriere.it – in cui si vede San Pietro alle prese con un librone alto così, e vicino a San Pietro c'è Steve, più giovane e col maglione dolce vita, che gli dice: «I have an APP for that» (io ho un'applicazione per questo).

La sua vita in due parole?

Madre americana, padre siriano, che all'ultimo tentò di incontrarlo e che Steve non volle vedere. Jobs è il cognome dei genitori adottivi (Steve ha sempre chiamato “mother and father” i suoi genitori adottivi e “biological mother and father” i suoi genitori naturali). Restò all'università sei mesi: aveva l'impressione di perdere tempo. Inizio a 20 anni nel solito garage, con Steve Wozniak. «Lavorammo sodo – ha raccontato poi – e dopo dieci anni, da due che eravamo nel garage, ci eravamo trasformati in una compagnia da due miliardi di dollari con 4 mila dipendenti». Come saprà – perché la storia è arcinota – la Apple entrò a un certo punto in crisi e Steve venne licenziato («un colpo di fortuna»). Fonda la NeXT e la Pixar, pasticcia felicemente con l'animazione (è suo il primo Toy Story), poi viene richiamato in Apple, che è ormai sull'orlo della chiusura. Seguono iPod, iTune, iPhone, iPad, i grandi successi degli ultimi anni e la rinascita dell'azienda, oggi la prima d'America.

Se volessimo riassumere la sua filosofia?

Ma ci ha dato lui stesso le regole a cui attenerci, nel famoso discorso di Stanford che ho già citato e in cui considerava il massimo della fortuna tre eventi disgraziati della sua vita: il fallimento all'università, il licenziamento dalla Apple e la diagnosi di tumore del 2004. Tutte cose che lo avevano rimesso in gioco, l'unica cosa che gli interessava davvero. La vita è poca – diceva - e non vale la pena di vivere quella di qualcun altro. Il discorso di Stanford si concluse con due frasi diventate celebri. «Stay hungry. Stay foolish». Cioè: «Siate affamati. Siate folli».

 
 
 

Calcio Totale e Rinus Michels

Post n°239 pubblicato il 01 Giugno 2011 da as_scacciapensieri

Calcio totale

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Calcio totale è l’espressione con cui nel calcio si definisce quello stile di gioco per cui ogni calciatore che si sposta dalla propria posizione è subito sostituito da un compagno, permettendo così alla squadra di mantenere inalterata la propria disposizione tattica. Secondo questo schema di gioco nessun giocatore è ancorato al proprio ruolo e nel corso della partita chiunque può operare indifferentemente come attaccante, centrocampista o difensore.

Il calcio totale è stato anche il primo stile di gioco ad applicare sistematicamente il pressing e la tattica del fuorigioco.

Storia

Per quanto la Nazionale austriaca degli anni trenta giocasse già una forma primitiva di calcio totale, le fondamenta di questo stile di gioco furono gettate da Jack Reynolds, allenatore dell'Ajax dal 1915 al 1925 e poi ancora dal 1945 al 1947. Rinus Michels giocò agli ordini di Reynolds e nel 1965 divenne lui stesso allenatore dell'Ajax, definendo il concetto di calcio totale così come lo conosciamo oggi e diventandone a tutti gli effetti il padre, applicandolo sia nell'Ajax sia nella Nazionale olandese. Quando nell'estate del 1971 Michels passò sulla panchina del Barcellona, il calcio totale fu portato avanti dal rumeno Stefan Kovács e anche in altri paesi europei si cominciò a giocare secondo questo modulo. Altra squadra anticipatrice del calcio totale fu la mitica Aranycsapat ungherese.

L'espressione più alta del Calcio Totale comprende un arco di tempo che va dal 1971 al 1974. In quegli anni il Calcio Totale trovo attuabilità grazie alla consacrazione del fuoriclasse olandese Johan Cruijff che, benché venisse schierato solitamente come centravanti, si muoveva in ogni gara a tutto campo a seconda dello sviluppo delle singole azioni, cercando sempre la posizione dove avrebbe potuto essere più pericoloso. I compagni si adattavano ai suoi movimenti, scambiandosi di posizione in maniera regolare in modo che i ruoli fossero comunque tutti coperti, anche se non sempre dalla stessa persona.

Subito dopo aver vinto la Liga spagnola con il Barcellona, Michels guidò la Nazionale Olandese ai Mondiali del 1974, portando in Germania una squadra divisa in due blocchi (Ajax e Feyenoord) e scossa al suo interno da mille frizioni e invidie, figlie anche delle contestazioni giovanili di pochi anni prima. In più, il CT decise di affidare il ruolo di titolare ad un portiere trentaquattrenne non professionista, Jan Jongbloed. Nonostante i mille problemi, l'Olanda passò il primo turno e demolì l'Argentina 4-0, poi la Germania dell'Est 2-0 sotto il diluvio e quindi il Brasile anch'esso per 2-0.

Nella finale con la Germania Ovest, l'Olanda passò in vantaggio su rigore concesso alla fine della prima azione di gioco e senza che i padroni di casa fossero ancora riusciti a toccare il pallone, ma di lì in poi la pericolosità di Cruijff fu fortemente limitata dall'efficace marcatura di Berti Vogts. Franz Beckenbauer, Uli Hoeness e Wolfgang Overath dominarono il centrocampo e permisero alla Germania Ovest di ribaltare il risultato e vincere la partita con il punteggio di 2-1.

Probabilmente anche a seguito di questa sconfitta, così come di quella con l'Argentina quattro anni dopo, si ritiene ancora oggi che il calcio totale sia uno stile di gioco bello ma perdente. In realtà, l'Ajax di Michels vinse 4 titoli nazionali e tre Coppe d'Olanda, e nei primi anni settanta il calcio olandese (anche il Feyenoord giocava con lo stesso modulo) vinse quattro Coppe dei Campioni consecutive.

In seguito, la Dinamo Kiev di Valeri Lobanovski vinse due Coppe delle Coppe (1975 e 1986) e il Belgio del 1980 arrivò fino alla Finale dei Campionati Europei. E lo stesso Michels era seduto sulla panchina dell'Olanda che vinse l’Europeo del 1988.

Nel calcio italiano la maggiore espressione del calcio totale fu il Napoli di Vinicio, il Lanerossi Vicenza allenato da Giovan Battista Fabbri, secondo nella Serie A 1977-1978. Ma anche la Ternana di Corrado Viciani negli anni settanta, e gli allenatori Luis Vinicio sempre nei settanta, Luigi Maifredi, Giovanni Galeone, Corrado Orrico, Giuseppe Marchioro e il più vincente Arrigo Sacchi negli anni ottanta, praticarono un tipo di gioco simile al calcio totale anche se in forme diverse e personali.

Senza ombra di dubbio, l'espressione più pura del calcio totale in Italia è stata rappresentata dal Foggia di Zdeněk Zeman nella prima metà degli anni novanta, capace di sbancare il campionato 1990-1991 di Serie B a suon di goal (70, dei quali 50 realizzati dal tridente offensivo composto da Roberto Rambaudi, Francesco Baiano e Giuseppe Signori), di concludere a metà classifica l'anno successivo in Serie A, e di confermarsi nei campionati seguenti, anche con giocatori sconosciuti provenienti dalle serie minori, sfiorando la qualificazione in Coppa Uefa; il tutto condito da assoluta velocità e spettacolo (talvolta ritenuto troppo spregiudicato) in ogni campo di gioco e contro qualunque avversario.

Tattica e tecnica

La buona riuscita del calcio totale dipende in larga parte dall’adattabilità di ogni membro della squadra a ricoprire più ruoli. I giocatori devono avere una grande capacità di analizzare le diverse situazioni tattiche per potersi scambiare con efficacia la posizione in campo, e sono necessarie una buona tecnica e un’ottima preparazione fisica.

Mentre centrocampisti e attaccanti pressano a tutto campo e spesso in maniera selvaggia i portatori di palla avversari, i difensori difendono a zona applicando il fuorigioco. Non è infrequente che i terzini si spingano sulla fascia palla al piede per arrivare sul fondo e crossare, così come spesso gli attaccanti tornano in difesa per aiutare a coprire. La differenza del calcio totale rispetto ai moduli a zona successivi è che i giocatori si muovono in relazione alla posizione dei compagni invece che a quella della palla, perché la copertura degli spazi è una condizione primaria di questo stile di gioco, secondo cui la squadra in campo deve sempre mantenere la stessa disposizione tattica (solitamente un 4–3–3).

La creazione degli spazi quando la squadra è in possesso di palla è un’altra condizione necessaria per poter giocare il calcio totale, e solo la capacità di creare e riempire gli spazi da parte dei giocatori rende possibile la buona riuscita di questo stile di gioco. In caso contrario, sarebbe impossibile imbastire azioni d’attacco efficaci perché verrebbero a mancare tutti i corridoi di passaggio. Invece, i movimenti continui e perfettamente sincronizzati dei giocatori in campo, e le insistenti sovrapposizioni degli uomini senza palla, mettono in difficoltà le difese bloccate nella marcatura a uomo, mentre la circolazione del pallone per vie orizzontali permette ai giocatori in attacco di avere il tempo di liberarsi e rendersi pericolosi.

Il pressing a tutto campo ha anche l’effetto di mantenere la squadra corta, cosa che favorisce gli inserimenti offensivi così come i ripiegamenti difensivi. Questo influisce però anche sul gioco del portiere, che opera ora quasi come un libero, controllando l’area di rigore sia nelle uscite sia giocando il pallone con i piedi.

Differenza tra Calcio Totale e Tiki Taka

Il calcio totale si è evoluto in vari modi: uno di essi è il Tiki Taka uno schema di gioco spesso considerato l'evoluzione latina del calcio totale olandese; la differenza più evidente di questi due schemi di gioco è che, mentre il calcio totale è basato su una completa mobilità e libertà dei giocatori in campo, grazie anche alla loro potenza fisica, il Tiki Taka invece si adatta alla natura fine del calcio spagnolo, di conseguenza, per sopperire a questa carenza fisica il gioco viene incentrato su transizioni lente, passaggi corti e possesso costante del pallone, tutto ciò per limitare il tempo a disposizione che può avere l'avversario per creare azioni, obbligando quindi quest'ultimo a fare pressing costante con conseguente dispendio di energia.

Secondo Raphael Honigstein,il Tiki-Taka è un importante evoluzione del calcio totale ma se ne differenzia principalmente perché si concentra sui continui movimenti rasoterra del pallone piuttosto che sui giocatori. Controllare la palla con calma per lungo tempo significa infatti controllare anche l'avversario, poiché quest'ultimo è impossibilitato a giocare.

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°238 pubblicato il 09 Maggio 2011 da as_scacciapensieri

6 maggio 2011Il nuovo re del calcio moderno

Barcellona e Manchester United sono le squadre che si giocheranno la Champions 2010-11. Sono state le più convincenti. Forse il Real Madrid di Florentino Perez e Mourinho avrebbe potuto arrivare in finale se non si fosse scontrato con il fenomenale Barcellona. I Blaugrana ed i Red Devils hanno confermato che a livello internazionale si vince più con il collettivo che con i solisti. Inoltre hanno evidenziato l' importanza di essere guidate da una grande idea più politica. Il gioco è il vero motore che permette di trasformare un gruppo in una squadra. Le conoscenze collettive più moderne fanno parte ormai del dna delle due contendenti: zona, pressing, raddoppi, fuorigioco, diagonali, possesso palla, velocità, smarcamenti collettivi, transizione, ripartente ed individualità al servizio della squadra. Il Barcellona del maestro Guardiola ne è l' esempio più brillante, ma pure gli uomini di Ferguson non scherzano. Tutte e due cercano di imporre il proprio gioco: il Barça con più convinzione e personalità. Entrambe hanno uomini ben collegati e posizionati: le squadre sono corte, strette e i giocatori sempre connessi. I riferimenti in fase difensiva sono il pallone e il compagno più che l' avversario. I due team attuano un pressing notevole, ancora una volta il Barça si fa preferire per continuità, organizzazione e intensità. Il possesso palla è un altro elemento imprescindibile del calcio moderno e prevede la collaborazione di tutti in continuo movimento, come dimostrano Xavi, Iniesta, Busquets, Dani Alves ecc. I Red Devil sono superiori a livello agonistico e fisico e forse hanno una maggiore esperienza (Ferdinand, Vidic, Giggs, Carrick, Van Der Sar, Scholes). A livello individuale le due squadre si equivalgono. Messi da una parte e Rooney dall' altra sono le star: la loro performance potrebbe essere decisiva ma solo se avranno la collaborazione della propria squadra, non è un caso che Messi sia meno fenomeno quando gioca nella propria nazionale. Sarà una grande partita solamente se Ferguson se la vorrà giocare da grande squadra e senza tatticismi negativi. Peccato che non ci siano squadre italiane, ma l' amarezza maggiore consiste nel comprendere quanto siamo distanti dal calcio che conta.

Sacchi Arrigo

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°237 pubblicato il 09 Maggio 2011 da as_scacciapensieri

26 aprile 2011Torniamo a un gioco di squadra

Il Milan, a meno di crolli imprevedibili, sarà il nuovo campione d' Italia. Un risultato meritato per una squadra che quasi sempre è stato in testa, anche se il risultato è stato conseguito più dalle individualità che dal gioco d' insieme. Ciò tuttavia non riduce i meriti di Allegri che ha saputo motivare e dare continuità a un gruppo non semplice. D' altronde in Italia si vince più col singolo che con il collettivo, al contrario dell' Europa. Max ha dimostrato classe e idee chiare nelle scelte a volte anche poco popolari (Ronaldinho, ecc...). Eppoi i rossoneri hanno parecchi giocatori avanti con gli anni e altri che venivano da un' annata incerta. Però il valore del campionato è stato brutalmente ridimensionato dalla estromissione di tutte le nostre squadre dall' Europa. Sconfitte che bruciano ancora di più perché causate da avversari con meno storia e meno investimenti. I rossoneri, primi in campionato ma fuori dagli ottavi di Champions e con solo 9 punti in 8 gare dimostrano quanto siamo lontani dal calcio europeo. Però ogni volta che capita una Waterloo, dopo poco ci dimentichiamo e non facciamo quasi nulla. Sono anni che annaspiamo. Il calcio italiano ha avuto un momento d' oro quando siamo usciti da un football prevalentemente individuale e difensivo come dimostrano i seguenti dati: periodo ' 89-' 99: in 11 edizioni, in Coppa Uefa solo una volta assenti dalla finale, otto volte primi e due volte secondi; in Champions solo due volte assenti dalle finali con quattro vittorie e cinque secondi posti. Periodo 2000-20011: Coppa Uefa-Europa League, nessuna finale, Champions sette volte assenti alle finali con tre vittorie e due secondi posti. I motivi attuali di questa recessione sono molteplici: settori giovanili non più produttivi, politica basata su calciatori anziani, mancata evoluzione tecnico-tattica. Siamo ancorati ad un calcio antico e individuale e così l' interpretiamo (per dire, se una squadra segna poco si cerca un attaccante, mai si pensa a migliorare il gioco). Giochiamo da sempre un calcio più difensivo che offensivo, ma si cresce di più a costruire che a rompere! La connessione fra i vari reparti è precaria. All' estero, in ambienti più acculturati e sereni, formano delle squadre, mentre noi abbiamo dei gruppi che al massimo sono legati dallo spirito e quasi mai dalle conoscenze collettive. Ricordiamoci che il calcio è sport di squadra e cominciamo a lavorare in questo senso. Solo così ritorneremo a primeggiare.

Sacchi Arrigo

 
 
 

GRANDI MISTER

Post n°236 pubblicato il 25 Aprile 2011 da as_scacciapensieri

L'ALLENATORE TOTALE (ERNST HAPPEL)

Nessun allenatore come lui, vinse dovunque in tutta Europa.
Unica recriminazione: il titolo mondiale sfiorato con gli Orange a Buenos Aires '78

La sua fine, in fondo al 1992, commosse il mondo del calcio, che ricordava l'energia e l'attivismo di questo gran viaggiatore della sfera di cuoio e non poteva non metterli a raffronto col volto tragicamente scavato delle ultime istantanee sui campi.
Il male incurabile che lo affliggeva, un tumore allo stomaco, ne aveva contraffatto i lineamenti, non riuscendo però a impedirgli di continuare a lavorare coi suoi ragazzi, con gli afrori dello spogliatoio, con quel benedetto rotolare del pallone che aveva fatto da sottofondo a tutta la sua vita.
Dal gennaio di quell'anno, Ernst Happel aveva accettato di prendere in mano i destini incerti della Nazionale austriaca, raccogliendo il grido di dolore del presidente della Federcalcio, Beppo Mauhardt. Happel era già a conoscenza del male che gli insidiava il futuro, ma disse ugualmente sì.
Per riuscire a convincere il "santone" aveva fatto pressione persino il cancelliere Franz Vranitzky, capo del governo, nella sua veste di presidente del Circolo dei sostenitori della Nazionale. «Il calcio austriaco» aveva detto nell'occasione Happel «è precipitato così in basso che può solo migliorare».
C'era da tentare l'avventura della qualificazione ai Mondiali 1994.
«I miei quattro comandamenti» aveva concluso il tecnico «sono sempre gli stessi: correre, correre, correre e disciplina».

Ernst Happel era nato a Vienna il 29 novembre 1925 ed era diventato nell'immediato dopoguerra un superbo campione. Difensore centrale grintoso, energico e di alta qualità tecnica, soprannominato "Achille" per la prestanza fisica, lo splendore atletiluti, grazie tra l'altro all'abilità sui calci di rigore, che batteva senza rincorsa. Stupì l'Europa negli ottavi di Coppa dei Campioni 1956-57, quando segnando tré gol al grande Real Madrid (uno solo su rigore) costrinse le favoritissime merengues all'incontro di spareggio, poi perduto.  Totalizzò 51 partite in Nazionale e chiuse con i Mondiali del 1958, diventando direttore sportivo del Rapid. La sua fama doveva diventare però universale nelle vesti di allenatore.

Dopo tre anni lasciò Vienna per l'Olanda, chiamato a guidare dalla panchina l'ADO Den Haag, dove svolgeva un proficuo tirocinio, mettendo a punto le sue idee tattiche.
Dopo aver raggiunto la finale di Coppa d'Olanda nel 1963, conquistava il trofeo nel 1968, superando in finale il fortissimo Ajax.
La prodezza gli valeva la chiamata del Feyenoord di Rotterdam, la svolta della carriera.
Portò subito la squadra alla prestigiosa accoppiata titolo e Coppa nazionale e l'anno dopo, nel 1970, centrava la prima Coppa dei Campioni di una squadra olandese.

 

Il complesso possedeva alcune individualità di spicco, il regista Van Hanegem e il centravanti svedese Kindvall in particolare, ma era soprattutto il gioco totale ideato da Happel, difesa a zona e spinta atletica costante in ogni centimetro di campo, a fare della allora semisconosciuta squadra di Rotterdam una autentica potenza. Capace pochi mesi dopo di completare l'opera conquistando la Coppa Intercontinentale a spese dei "duri" argentini dell'Estudiantes.
Seguendo quella scia tattica, l'Ajax di Cruijff avrebbe dominato la massima competizione continentale per tre anni di fila. Happel però era già in cerca di nuove avventure.
Dopo una breve e non felice parentesi in Spagna, nel Siviglia, nel 1973 assumeva la guida del Bruges, che portava in breve ai vertici.
La sua mania per la preparazione atletica divenne proverbiale: nel dicembre 1975, prima di salire sull'aereo che avrebbe condotto il Bruges a Roma per il match di Coppa Uefa coi giallorossi, teneva un allenamento alle sette del mattino! Nel 1975-76 conquistava il titolo nazionale e mancava in finale col Liverpool la conquista della Coppa Uefa.

 

L'anno dopo bissava il titolo, abbinandovi la coppa nazionale. Nel 1977-78, Happel sfiorava il capolavoro assoluto, vincendo il terzo titolo consecutivo e approdando alla finale di Coppa dei Campioni, dove incappava di nuovo nel Liverpool, capace di vincere solo di misura (1-0), nonostante il Bruges lo avesse affrontato indebolito dalle assenze.

Alla fine di quella stagione, guidava la Nazionale olandese ai Mondiali di Argentina, dove, nonostante il forfait di Cruijff, riusciva a raggiungere la finale, per poi cedere ai padroni di casa ai supplementari dopo che Rensenbrink al 90' colpiva il palo che avrebbe dato agli orange la vittoria mondiale.

La nuova, grande tappa della carriera di Happel è in Germania, all'Amburgo: nel 1982 vince il titolo nazionale e l'anno dopo fa il bis, conquistando anche la Coppa dei Campioni, nella finale contro la Juventus grazie al gol di Magath.
(a fianco Happel con i due trofei)

L'ultimo grande capitolo è il ritorno in Austria, chiamato dal Tirol di Innsbruck. La cura Happel è prodigiosa: il Tirol conquista in due stagioni, tra '89 e '90, due titoli e una coppa nazionale.

 

Poi, le prime avvisaglie della malattia. Il gigante Happel, un omone di straordinaria gagliardia, viene colpito da un male a tutta prima misterioso, che lo fa dimagrire a vista d'occhio. Scende fino a 51 chili, i medici non rivelano la natura del morbo, si parla di una malattia del fegato o di un virus equatoriale.
Poi, Happel si riprende e risponde alle invocazioni della Federcalcio: «La mia salute è di nuovo fantastica» risponde in occasione della sua presentazione come Ct alle domande sulle sue condizioni, «io mi sento veramente bene solo quando lavoro e quando sono nella mia Vienna. Adesso ho entrambe le cose, quindi sto benissimo».
È l'allenatore più titolato d'Europa, con 17 trofei di club vinti in quattro paesi.
Dal primo gennaio 1992 comincia l'avventura alla guida dell'Austria, ma le sue condizioni di salute cominciano a peggiorare. La diagnosi questa volta è impietosa: tumore allo stomaco. Happel non si arrende, continua ad andare in panchina nonostante la malattia e la chemioterapia ne modifichino tragicamente i lineamenti. L'ultima uscita pubblica è il 28 ottobre 1992, in occasione del successo 5-2 su Israele a Vienna. Pochi giorni dopo, il 14 novembre, spira nella clinica universitaria di Innsbruck.
L'Austria lo onorerà intitolandogli il suo stadio nazionale, il Prater di Vienna.
 

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°235 pubblicato il 19 Marzo 2011 da as_scacciapensieri

Mercoledì, 01 Dicembre 2010
Schemi, classe e velocità: mai nessuno come il Barça
GIANNI MURA PER LA REPUBBLICA -

Come gioca il Barcellona si gioca in paradiso, e lì il più lieto dello spettacolo dev'essere stato Liedholm. La squadra di Guardiola segue le idee di Nils, ma a ben altra velocità. Per il resto vale l'adagio: "Finché il pallone ce l'abbiamo noi non ce l'hanno loro". Elementare, senza pallone non si fanno azioni e non si segna. Il Real è stato abbattuto, non solo battuto, anche se a Mourinho non piace ammetterlo. Pure, in un certo senso lo 0-5 di lunedì rivaluta il Mourinho interista, che un Barcellona quasi uguale (mancava Iniesta, Villa era altrove) lo eliminò, con un po' di fortuna ma giocando il ritorno in 10.

Il Barcellona esibisce a memoria un calcio molto bello, fatto di tecnica, velocità e gusto del gioco. Il suo limite sta solo nella ricerca della perfezione, nel voler segnare sempre dall'area piccola. La sua forza sta nel credere ciecamente in questo stile di gioco, che coniuga la pazienza del ragno alla rapidità dello scorpione. Cruijff ha gettato i semi, Guardiola ha fatto crescere la pianta. Cinque gol (nessuno di Messi, in serata vagamente storta) e potevano essere di più. Ora si capisce perché in capo a una stagione Ibrahimovic sia stato respinto come un corpo estraneo. Perché, pur segnando la sua parte, appartiene a un altro calcio. Che non vuol dire essere meglio o
peggio, ma solo diverso, portatore di altri valori. Tant'è che in Italia è amatissimo, rispettato, unico. Dove va lui arriva lo scudetto e ci si può permettere il lusso di giocare senza gioco: palla lunga e ci pensa il gigante. Un lancio alto e lungo dalla difesa all'attacco per il Barcellona non è un errore, è un'eresia.

Con l'ingresso di Jeffren, lunedì erano 9 i giocatori usciti dalla cantera, ossia dal vivaio. Una percentuale del genere ce la scordiamo. L'Italia non è un Paese per giovani, nemmeno per giovani calciatori. Qui, finché le cose non cambieranno radicalmente, si misurano in centimetri e chili. La tecnica è la grande sconosciuta, in compenso tutti corrono molto (spesso a vuoto), forse perché, come dice Galeone, insegnare a correre è più facile che insegnare a giocare. La ragnatela del Barcellona si fonda su una tecnica impressionante, ma anche su un pressing alto e ben coordinato. Alta è anche la percentuale di piedi buoni rispetto a quelli un po' scarsi. In gergo, di manovali rispetto ai violinisti. Puyol, Abidal e Busquets sono i manovali, punto e basta. Se Iniesta o, in seconda battuta, Xavi, non vince il Pallone d'oro, è uno scandalo. Due così simili in Italia nessuno li farebbe giocare insieme. Guardiola sì, e il doppio regista è una delle chiavi del successo. In più il Barcellona piace perché si vota a un calcio di rara bellezza, direi quasi musicale. A chi guarda sembra tutto facile, spontaneo, ma dietro a certi tagli, a certe aperture c'è molto lavoro nelle prove, cui corrisponde molto entusiasmo nelle recite che contano.

Faccio fatica a immaginare Guardiola su un'altra panchina, Inter o Chelsea che sia. Oppure con lui si ingaggia almeno mezza squadra. Altrimenti rischia di essere come Ibrahimovic al Barcellona: un alieno. Ma questo un allenatore non può permetterselo. Merita un grazie da tutti quelli a cui piace il calcio spavaldo, leale, allegro e che mette allegria.

Alle spalle di questo Barcellona metto nell'ordine il Milan di Sacchi, la Honved di Jeno con la supervisione di Sebes, il Real di Di Stefano, l'Ajax di Michels e Cruyff, la Juve del Trap, di Scirea e Platini e l'Inter europea di Herrera. Partiamo da qui: tutto l'opposto, fiducia nel contropiede orchestrato dal grandissimo Luisito Suarez e favorito dalla velocità di Jair e Mazzola, dalla corsa di Facchetti, da una difesa molto forte. Squadra italianista come poche. Italianista anche Trapattoni, ma la Juve che perse ad Atene con l'Amburgo era una signora squadra poco italiana, illuminata dal genio di Platini e dalla classe di Scirea, infiammata dall'anarchia di Boniek e dalle sgroppate di Cabrini. C'era in questa Juve un po' dello spirito dell'Ajax, solo un terzino e lo stopper a tenere la posizione, gli altri liberi di scambiarsela su e giù per il campo. All'Ajax già allora c'era l'attenzione al vivaio, la valorizzazione dei giovani, i maestri di tecnica per i ragazzini. Mentre il Real, ben prima di Perez setacciava campioni in giro per il mondo. Kopa dalla Francia, Puskas dall'Ungheria, Di Stefano (poi naturalizzato spagnolo) dall'Argentina. Era il Real che dominava in Europa, un attacco che incantava e una difesa (Zoco, Pachin) di picchiatori. La Honved perse Puskas e altri pezzi e si perse coi carri armati del '56. Era la base della Nazionale, sempre allenata da Sebes, stesso gioco, solo con Palotas centravanti arretrato al posto di Hidegkuti. Molti abboccavano ai numeri sulle maglie, ma i veri attaccanti erano l'8 e il 10, Kocsis e Puskas.

Il Milan di Sacchi si continua a dire, forse perché sarebbero troppi i giocatori simbolo. Questa squadra ha cambiato l'immagine del calcio italiano, rinunciatario e timido in trasferta, catenacciaro a oltranza, sempre teso a portare a casa il massimo risultato col minimo sforzo. In casa o fuori, per quel Milan era la stessa cosa, dopo qualche minuto gli altri erano barricati (all'italiana) nella loro area. Era un Milan che univa il vigore fisico (Gullit, Rijkard, Costacurta) alla tecnica (Van Basten, Donadoni, Maldini). Con un'intensità, per dirla con Sacchi, fin lì sconosciuta. Il Milan toglieva spazio, toglieva fiato. Paradossalmente, si difendeva attaccando, senza mai sguarnire l'ultima linea, a costo di ricorrere sistematicamente al fallo tattico e al fuorigioco insistito, e regolato dal braccio di Baresi. Era un Milan di granatieri, tolti Evani e Donadoni, mentre il Barcellona è in larga parte formato da minigiocatori. Ma questo è il bello del calcio: non è il fisico a fare la differenza. Quando arriveremo a capirlo anche in Italia, si potrà cercare di imitare il Barcellona, che oggi è semplicemente inimitabile.

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°234 pubblicato il 19 Marzo 2011 da as_scacciapensieri

Venerdì, 03 Dicembre 2010
Campioni dalla culla: le società a caccia di atleti sempre più piccoli
MAURIZIO CROSETTI PER LA REPUBBLICA - 

Calciatori bonsai di anni uno. Tennisti miniaturizzati di diciotto mesi.
Minuscoli giocatori di baseball in grado, non diciamo di colpire la palla con la mazza, ma neppure di spostarla di tanto così. È l´ultima americanata e riguarda lo sport, anche se la parola è impropria: cosa c´è di sportivo nell´attività fisica in fasce, già organizzata con i criteri delle squadre e delle leghe, sotto l´enorme ombrello del mercato?
La notizia, anzi l´allarme, lo lancia il New York Times, raccontando che negli Usa esistono centinaia di società sportive per i bambini sotto i due anni. Si chiamano "The little gym", oppure "Baby goes pro", e già dal nome rivelano lo scopo: costruire in laboratorio mini atleti da selezionare per un professionismo non così lontano. Anche se il primo obiettivo è vendere iscrizioni, attrezzi ginnici (persino un lettino con le sbarre adattato), magliette e scarpe.

«L´attività motoria infantile è giusta, l´esasperazione e l´agonismo mai».
Enrico Casella è l´allenatore di Vanessa Ferrari, la più brava ginnasta italiana. Il loro è uno sport dove si comincia da piccoli: «Ma non da piccolissimi, perché serve la possibilità di capire e scegliere. L´avviamento sportivo deve sempre essere disinteressato e giocoso: se poi il talento per le gare esiste, si capirà più avanti. Il rischio è il plagio da parte degli adulti, a loro volta condizionati dal mercato. L´America, in questo senso, è il peggiore dei modelli».
La Federazione italiana medici pediatri è contraria allo sport in miniatura. E avverte che la pratica agonistica sotto i dieci anni si può svolgere solo nella ginnastica e nel pattinaggio (dai 6 anni), oppure nel nuoto, nella scherma e nel rugby (dagli 8). Anche se è il demone calcio ad attirare i genitori-ultrà: sognano denaro e fama per i figli, nonostante le statistiche federali dimostrino che solo lo 0,2 per cento dei 700 mila giocatori dagli 8 ai 16 anni tesserati in Italia arriva in serie A. Si rincorre qualcosa che non esiste, pagando anche mille euro all´anno, sulla pelle di chi è piccolo e non può difendersi. E il prezzo può essere alto (non si parla solo di denaro) anche per i pochissimi che arrivano in fondo. «Ho sempre odiato il tennis», rivelò André Agassi: il padre gli appese una pallina sopra la culla, predestinazione e maledizione.

«Tutto questo è demenziale, quale sarà il prossimo passo?
- si chiede il professor Lyle Micheli, fondatore della prima clinica pediatrica di medicina sportiva all´ospedale di Boston - Lo sport sotto i tre anni è una fabbrica di infortuni e tensioni assurde. Nella nostra clinica facciamo sparire gli opuscoli che pubblicizzano certe palestre e certe società sportive».

Il messaggio che arriva dal mercato è subdolo, fa leva su buoni sentimenti
e pessimi sensi di colpa. "Aiutate i vostri figli a non essere più obesi", ma anche "passate più tempo con loro": ed è la stessa industria pubblicitaria che gonfia le pance di cibo spazzatura. In un video, la simpatica scimmietta Emkei spiega che anche da piccolissimi si può giocare a calcio o a tennis, e vuoi non credere a un grazioso cartone animato? La "Lil´Kickers", una tra le più diffuse accademie del calcio americano, anzi del soccer, ha filiali in diciotto Stati: circa il 55 per cento dei suoi 100 mila calciatori d´allevamento ha meno di tre anni, ed esistono persino squadre composte da giocatori di diciotto mesi. La mostruosità è che giocano in campionati veri, con mamme e papà che già urlano a bordocampo. «Noi vogliamo solo il divertimento dei bambini, non stiamo cercando il nuovo Pelè», dichiara Don Crowe, amministratore delegato di "Lil´Kickers". Il sospetto è che cerchi soprattutto iscritti, e gonzi da illudere.

«Spesso, i genitori fanno solo danni». Lo dice Giorgio Cagnotto,
tuffatore leggendario, padre e allo stesso tempo allenatore dell´azzurra Tania. Campionessa per forza? «Veramente, all´inizio l´avevamo avviata verso sci e tennis, il gusto per l´acqua è venuto dopo. Cominciare troppo presto, a volte, porta il ragazzo a stufarsi altrettanto presto. E se è vero che nei tuffi non si può iniziare dopo gli otto anni, tutto dipende da come lo si fa. I bambini non sono polli in batteria, e questo vale per tutti gli sport. Per molti papà e mamme, i loro ragazzini sono subito campioni, e l´allenatore è una persona che non sa valorizzarli. Io mi difendo spiegando dal primo giorno che con i tuffi non si mangia». Ma provate a dirlo alle madri e ai padri dei poveri, indifesi e comici calciatori in miniatura. Per loro sì che servirebbe il Telefono Azzurro, e non nel senso del colore della nazionale.

 
 
 

Vuoi mollare?

Post n°232 pubblicato il 16 Ottobre 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

Che squadra!!!

Post n°231 pubblicato il 16 Ottobre 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

Godetevi questo film!!

Post n°230 pubblicato il 16 Ottobre 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

Quanto conta un allenatore?

Post n°229 pubblicato il 16 Ottobre 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

Articolo di Giornale

Post n°228 pubblicato il 12 Ottobre 2010 da as_scacciapensieri

28 settembre 2010 da la Gazzetta dello Sport

Sacchi: «Rilanciamo i vivai»Il capo delle giovanili azzurre propone corsi per tecnici e campionato riserve La proposta Corvino: niente veti agli extracomunitari e un tetto per far giocare almeno sei italiani

LUCA CALAMAI FIRENZE La «battaglia dei giovani» inizia nell' Aula Magna di Coverciano, in un grigio pomeriggio di fine settembre. Hanno risposto tutti alla chiamata alle armi di Arrigo Sacchi e Demetrio Albertini. Dirigenti, vecchi campioni, figure che lavorano da una vita a contatto con i ragazzi. Tre ore di dibattito. Senza neppure la tradizionale sosta per il caffè. Dopo la batosta ai mondiali in Sudafrica il calcio italiano ha capito che bisogna voltare pagina. Ripartendo dalla base, cioè dai nostri talenti. Bravi ma trascurati. Le proposte Arrigo ha un blocco notes pieno di appunti. Lui, come al solito, è un uomo d' attacco. Quindi, va al cuore del problema. «Il mio Milan aveva 5-6 grandi giocatori che arrivavano dal settore giovanile. Dobbiamo tornare a quei tempi. La legge Platini, con i bilanci virtuosi, obbligherà le società a crearsi i campioni in casa a costo zero». L' analisi della situazione è fondamentale. É come studiare il «nemico». I nostri ragazzi non trovano spazio, invecchiano senza avere opportunità, non hanno buoni maestri. Il nuovo responsabile per le nazionali giovanili, indica in tre mosse la rotta da seguire: 1) allenatori preparati e retribuiti in maniera adeguata; 2) strutture e materiale all' altezza e 3) grande attenzione all' aspetto etico e comportamentale. Sacchi spiega, a una platea che lo segue in religioso silenzio, la sua idea tattica: «Dobbiamo lavorare sul gioco, non sui solisti». Messaggio raccolto. A proposito di allenatori. Renzo Ulivieri, presidente dell' associazione, ha annunciato che in tempi brevi verranno organizzati due corsi per tecnici di settore giovanile. Un progetto che era stato colpevolmente abbandonato. Seconde squadre «Il salto dalla Primavera alla prima squadra è troppo grande. I nostri giovani invecchiano nei settori giovanili o vengono ceduti in prestito a club di Lega Pro dove raramente riescono a trovare spazio». Demetrio Albertini e Arrigo Sacchi sono favorevoli alla creazione della squadra riserve che dovrebbe partecipare o al campionato di Lega Pro, seconda divisione o al campionato Interregionale. Un modo per obbligare i nostri ragazzi a crescere. «É un progetto che si sposa a meraviglia con la prevista ristrutturazione dei campionati. Nel giro di due anni dovrebbe diventare operativo, ne abbiamo già parlato con i vari presidenti». Un' idea importante. Italiani protetti Il passaggio successivo è decidere se «proteggere» o meno i giocatori italiani. Pantaleo Corvino, d.s. viola, propone di abolire la differenza tra comunitari e extra-comunitari 8ora per le giovanili ma anche per la A) e di stabilire un numero fisso di italiani da avere sempre in campo. «É un argomento delicato - osserva Sacchi - anche perché è triste avere bisogno di una legge per veder giocare i nostri giovani. Tra l' altro noi siamo maestri nel creare le leggi e poi trovare il modo per dribblarle. In Spagna non esistono leggi protettive eppure le loro nazionali giovanili dominano a livello internazionale». Il dibattito, però, è aperto. Le società potrebbero accettare l' idea dei sei-sette italiani sempre presenti. La Figc è pronta a dare l' ok. E Corvino spinge pure per una licenza che obblighi i club di A e B ad avere dei campi ad hoc per i vivai. Incontri al top «I responsabili di Juve, Milan e Inter hanno spiegato che i ragazzi che hanno ceduto in prestito in lega Pro non riescono a trovare spazio. E stiamo parlando di alcune delle squadre Primavera più importanti. Bisogna cambiare approccio. Anche la stampa ci deve aiutare. Quando ero al Real Madrid, in uno spogliatoio di grandi campioni, i giornali spingevano per avere in campo dei giovani». Arrigo Sacchi vuole che la sua battaglia diventi la battaglia di tutti. Lui, l' uomo che ha rivoluzionato il calcio italiano ora cerca un' altra vittoria: i giovani al potere. **** x HA DETTO «Anche Inter, Juve e Milan faticano: i loro ragazzi non trovano spazio neanche in Lega Pro: deve cambiare la mentalità. In Spagna, ad esempio, è diverso» * * * IL DECALOGO DI ARRIGO Più campi e un lavoro di squadra La collaborazione con la Figc serve per il salto di qualità Il decalogo di Arrigo Sacchi. 1) Servono allenatori-maestri che sappiano lavorare con i giovani. 2) servono più campi di allenamento per i settori giovanili. 3) bisogna tornare alle seconde squadre e farle partecipare al campionato di Lega Pro o al campionale interregionale. 4) bisogna insegnare ai giovani educazione e senso etico. 5) le società devono tornare a investire in maniera importante sui settori giovanili. 6) bisogna lavorare sulla qualità del gioco e non sul valore del singolo. 7) può essere utile (ma non è indispensabile) imporre un numero fisso di italiani in campo nei campionati giovanili. 8) la federazione deve accompagnare questo progetto con degli investimenti adeguati. 9) i tecnici delle nazionali devono lavorare a stretto contatto con gli allenatori dei club. 10) la stampa deve spingere per la promozione dei talenti come succede in Spagna.

Calamai Luca

 
 
 

Risultati

Post n°227 pubblicato il 12 Ottobre 2010 da as_scacciapensieri

Venerdì apro il giornale e leggo i risultati di calcio giovanile (e questo è già un paradosso...).

Ancora più paradossale è vedere che molte partite terminano con risultati da pallamano: 12-1; 8-2; 11-0; 9-1; 10-0; 7-3.

E' vero che il gol è l'essenza del gioco del calcio, ma non credo serva a qualcuno giocare una partita che termina 11-0. Molto diverso se termina 6-5! Il numero di gol è lo stesso, ma la difficoltà della partita considerevolmente diversa. Diceva Arrigo Sacchi, non troppo tempo fa intervenendo ad una trasmissione sportiva, che se tutto è troppo semplice acquisisci solo vizi....

Molte scuole calcio hanno voluto con forza che tutti partissero giocando campionati provinciali, alla "pari" (?!?!), per poi passare, successivamente, ad una fase regionale. Ma con quale obiettivo? Risparmiare sulle trasferte? Mantenere nella propria società il giocatore bravino che altrimenti sarebbe andato altrove a giocare campionati più importanti? Non lo so! So solo che sulla Carta dei diritti del giovane calciatore, il sesto punto dice: diritto di misurarsi con giovani che abbiano le sue stesse possibilità di successo; mentre il settimo dice: diritto di partecipare a competizioni adeguate all'età. Non mi sembra che i risultati rispettino questi due punti. Si pensa a risparmiare su trasferte, rimborsi agli istruttori, a rivendicare (giustamente, se dovuti!) premi di preparazione, a trattenere più giocatori possibili nella propria scuola calcio, ma chi pensa veramente ai ragazzi? Chi investe per avere strutture adeguate, tecnici competenti (non basta che abbiano conoscenze o un passato illustre), campionati e tornei all'altezza (intendo chi riesce a giudicare in che campionati i propri giocatori possono stare, giocandosela sempre con onore)?

Non servono risposte, spiegazioni o scusanti, sarebbe già un grande successo se qualcuno riflettesse su questi argomenti.

 

 
 
 

Comunicare = Capirsi?

Post n°226 pubblicato il 17 Settembre 2010 da as_scacciapensieri

Non sempre la nostra comunicazione risulta essere efficace (anche non comunicare, comunica qualcosa...) e se non si è sulla stessa lunghezza d'onda, si rischia di non capirsi, e di incorrere in spiacevoli incomprensioni!

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°225 pubblicato il 17 Settembre 2010 da as_scacciapensieri

Giovedì, 08 Luglio 2010
La scuola ha i capelli grigi in cattedra prof cinquantenni
SALVO INTRAVAIA PER LA REPUBBLICA -

Per la prima volta, la scuola italiana è over 50. Il dato emerge rielaborando i numeri relativi all´anno scolastico 2009/2010 del ministero dell´Istruzione. Rispetto all´anno precendente l´età media degli insegnanti è ulteriormente cresciuta superando, probabilmente per la prima volta da quando esiste la scuola pubblica nel nostro Paese, la soglia "psicologica" dei 50 anni. Nel dopoguerra, la penuria di laureati consentiva l´accesso alla cattedra anche ai diplomati. Per le maestre di materna ed elementare è stato così fino a pochi anni fa. Poi sono arrivate le Ssis (le Scuole di specializzazione per l´insegnamento secondario), di durata biennale, e i corsi triennali di Scienze della formazione primaria. E oggi per i quasi 8 milioni di alunni italiani incrociare prof giovani è diventato sempre più difficile: gli under 30 sono ormai una specie rara e i non più giovanissimi under 40 rappresentano una minoranza.

I numeri lo confermano. Nel 1998 l´età media degli insegnanti superava appena i 45 anni, oggi siamo oltre i 50. Se 12 anni fa 4 maestre di scuola materna e 6 colleghe di scuola elementare non avevano ancora spento 30 candeline, oggi se ne conta meno di una su cento. Quasi nessuno, invece, tra le fila dei prof di scuola media e superiore. Anche gli under 40 costituiscono una sparuta minoranza: appena 13 su 100. Poco più di un decennio fa erano il doppio: più di un quarto dell´intero corpo docente. A imbiancare le teste dei docenti hanno contribuito i tagli agli organici e l´allungamento dell´età pensionabile. Insomma: gli alunni incontrano ormai a scuola docenti mediamente più vecchi dei loro genitori, anche alla scuola dell´infanzia.

E i dirigenti scolastici, chiamati a traghettare la scuola nel terzo millennio? Hanno in media 58 anni e gli under 40 non esistono quasi. Ma oltre confine le cose marciano in modo differente. In Finlandia e Norvegia, ai primi posti per risultati nei test Ocse Pisa rivolti agli alunni, un insegnante di scuola media su 10 ha meno di trent´anni e 4 su dieci meno di 40 anni. Ma non occorre spingersi troppo lontano per accorgersi che gli insegnanti più vecchi del mondo sono proprio quelli italiani. In Francia, gli under 40 rappresentano il 43 per cento e oltreoceano succede altrettanto: negli Stati Uniti siamo al 42% e in Giappone al 40. «Negli ultimi anni - dichiara l´ex viceministro della Pubblica istruzione del governo Prodi, Mariangela Bastico - è mancato il ricambio, attraverso le immissioni in ruolo, che aveva previsto il precedente governo: 150 mila assunzioni in tre anni, bloccate dall´attuale esecutivo». Ma anche i precari della scuola sono con i capelli grigi: hanno in media 39 anni, otto su 100 ne hanno più di 50 e qualcuno ha oltrepassato i 60. Prima di entrare di ruolo, devono sottoporsi a una lunga gavetta: dei 62 under 40 su 100 iscritti nelle graduatorie dei supplenti diventano di ruolo appena 13. Ma il ministro dell´Istruzione Mariastella Gelmini sta mettendo mano alla cosiddetta formazione iniziale degli insegnanti. Il regolamento è ormai pronto, le nuove norme però per salire in cattedra sono già criticate dagli addetti ai lavori. «La bozza rischia di allungare ulteriormente i tempi - commenta la Bastico - per i futuri insegnanti della scuola dell´infanzia e della primaria, mentre per quelli della scuola media e superiore il percorso potrebbe accorciarsi. Ma la cosa che aggraverà la situazione è l´elevamento dell´età pensionabile a 65 anni per le donne, che nella scuola rappresentano la maggioranza».


 
 
 

Articolo di giornale

Post n°224 pubblicato il 17 Settembre 2010 da as_scacciapensieri

Mercoledì, 07 Luglio 2010
Prof migliore d’Italia: disoccupato
FRANCESCO MOSCATELLI PER LA STAMPA -

È il professore più bravo d’Italia. È rimasto senza lavoro anche quest’anno. Si chiama Luca Piergiovanni, ha 37 anni, e insegna(va) italiano alle medie «G.B. Grassi» di Uggiate-Trevano, in provincia di Como. Una settimana fa, mercoledì 30 giugno, ha ricevuto questa mail: «Gentile collega, a nome del presidente nazionale dell’Anp (l’Associazione nazionale Dirigenti e Alte professionalità della Scuola), ti esprimo vive congratulazioni per il tuo successo nell’aggiudicazione del premio “Docente dell’anno”». Le motivazioni? «Per il tuo impegno nell’innovazione didattica attraverso l’uso delle tecnologie». Un trionfo. Peccato che lo stesso giorno sia scaduto il suo ennesimo contratto a termine.

Luca è un professore del 2010. Di quelli che danno del tu al computer. Da un paio d’anni, quando si parla di «strategia delle tre i», lui e i suoi studenti girano l’Italia per spiegare agli altri come si fa: hanno vinto il premio «A scuola di innovazione» del Ministero dell’Istruzione, hanno partecipato al «Forum della Pubblica amministrazione» di Roma, al «Toscana Lab», hanno esportato in Lombardia i corsi di alfabetizzazione informatica per anziani e hanno aperto un sito internet multimediale dedicato alla musica e alla letteratura (www.chocolat3b.podomatic.com). Idee e progetti che andrebbero valorizzati. E che invece hanno il respiro corto del precariato.

«All star» color fucsia ai piedi, e piercing d’acciaio sotto il labbro, Luca apre la porta della sua casa di Valmorea, un minuscolo comune incollato alla Svizzera, e, nonostante si sia appena iscritto per la quinta volta al centro per l’impiego, prova a sorridere. L’appartamento, in affitto a 400 euro al mese (spese e bollette escluse), stona decisamente con il suo look: le pareti sono rivestite con una vecchia carta da parati grigia, i mobili sono di mogano scuro. «Vivo qui da cinque anni, ma sono sempre sul punto di traslocare - spiega Luca, sfoderando un fortissimo accento toscano - . Il mio posto è stato tagliato e a settembre non so se potrò insegnare e nemmeno dove mi spediranno». Originario di Arezzo, laureato con 110 e lode in Lettere a Perugia, Luca aveva tentato la carriera accademica. «Dopo due pubblicazioni scientifiche, tante pacche d’incoraggiamento e tre anni di tira e molla, ho deciso di frequentare i corsi di abilitazione all’insegnamento - ricorda -. Dalle mie parti, però, trovare un posto era impossibile. Nemmeno una supplenza. E dire che c’era una scuola media proprio a cento metri da casa mia. Per non cadere in depressione, a 32 anni, sono tornato al mio lavoro del liceo: il disc jockey. Facevo 3 o 4 serate a settimana: dance anni ’70-’80, house, musica latina. Per campare ho fatto di tutto: il karaoke sulla riviera romagnola e il barman alle feste cubane. Quando ho ricevuto una proposta da Como mi è sembrato di rinascere».

Il rosario, in realtà, era appena iniziato. «Nel 2005 ho avuto un contratto completo fino al 31 agosto - spiega -. A partire dall’anno successivo, però, le cose sono peggiorate: ogni anno una scuola diversa, contratti in scadenza il 30 giugno e pochissime ore di lezione a settimana». Lo stipendio? Ottocento euro al mese, compresi i consigli di classe, i colloqui con i genitori e la correzione dei compiti. Quest’anno ha toccato il fondo con uno «spezzone orario»: due classi, dodici ore a settimana. Per raggiungere quota 18 ore e lo stipendio base di 1300 euro al mese si è dovuto inventare alcuni corsi pomeridiani. «Intendiamoci: non sono un martire. Ma quando sento parlare di fannulloni mi viene da piangere - continua Luca -. Ci sono altre migliaia di persone, anche più anziane di me, nelle mie stesse condizioni. Ci chiamano ragazzi, ma mi sembra assurdo che a 37 anni uno non possa pensare di crearsi una famiglia. Mi hanno detto che alle premiazioni per il “Docente dell’anno” ci sarà il ministro Gelmini. Sto preparando una lettera da consegnarle: com’è possibile che in Italia il merito e l’impegno non paghino mai?». Fuori dalla finestra del salotto svetta il monte Generoso, che divide l’Italia dalla Svizzera. «Chissà dove finisco dopo le vacanze. Alla mia ragazza hanno offerto un posto dall’altra parte del confine. Quasi quasi ci vado anch’io. Se rimango qui, rischio di trovarmi ancora a fare il dj alle feste cubane. Altro che figlioli».

 
 
 

Effetto panna cotta

Post n°223 pubblicato il 17 Settembre 2010 da as_scacciapensieri

Eccomi qui, dopo tre mesi di silenzio... voluti!

Diciamo che sono stato in "nave", a guardare cosa accadeva. A riflettere su ciò che è stato e su ciò che sarà. L'estate del calcio sembrava portasse con sè tanti cambiamenti, si parlava di anno zero, di rivoluzioni tecniche (dopo la delusione mondiale), istituzionali, di risanamento (vedi società saltate)... Mi sembra che non sia cambiato molto!

La sensazione è la stessa di vedere una panna cotta. Quando la scuoti questa si muove e sembra modificarsi velocemente, salvo poi riassestarsi nella stessa identica forma iniziale.

 
 
 

Italia fuori subito! Fallimento annunciato...

Post n°222 pubblicato il 24 Giugno 2010 da as_scacciapensieri

L'Italia fuori subito non può essere una sorpresa! Non siamo fuori per le scelte del C.T., non siamo fuori per i gol annullati o per i giocatori assenti. Si dice che abbiamo poca qualità, e forse è anche vero, ma la colpa non è certo dei tanti stranieri che giocano in Italia e tolgono spazio agli italiani (non basta questo per giustificare la figura barbina rimediata con i molti dilettanti della Nuova Zelanda...). La realtà è che nessuno in Italia programma l'attività, ne in prima squadra, ne purtroppo nel settore giovanile. Da noi allena l'amico, il conoscente dello sponsor, il macellaio che ha tempo libero, l'ex giocatore importante che smette ed inizia dal settore giovanile (??!!??) senza avere idea di cosa si deve fare in quelle fasce d'età. Da noi conta vincere, più di ciò che si impara, anche nei pulcini (che tristezza gli articoli sul giornale, in cui vengono osannate le squadre vincitrici i tornei di pulcini ed esordienti....). Siamo una delle pochissime Federazioni che non hanno un serio programma di sviluppo del settore giovanile (al contrario di Germania, Scozia, Svizzera, Spagna, solo per citarne alcune...). Competizione è diverso da formazione, quest'ultima necessita di pianificazione, competenza e pazienza, parole sconosciute a tutti o quasi. Nella filosofia della formazione la sconfitta è un momento di crescita importante, in quella della competizione una tragedia. Per me questa eliminazione può e deve essere benedetta! Se ci si interroga, se si riflette sui motivi del flop, se ci si rimbocca le maniche e si da spazio a chi ha idee e competenze... altrimenti non c'è futuro e a quanto pare nemmeno presente!

 
 
 

Allora, qual'è il vostro mestiere?

Post n°221 pubblicato il 05 Giugno 2010 da as_scacciapensieri

Allora qual'è il vostro mestiere?

Vi siete mai posti la domanda? Allenate per vocazione, per insegnare o per altri motivi (arrotondare lo stipendio, soddisfare il bisogno di "fare la formazione", perchè avete il pomeriggio libero)?

Da quanti anni allenate? Oppure avete allenato lo stesso anno per X volte?

Allenate per vincere le partite e leggere il lunedì sul giornale quanto siete bravi, oppure per insegnare qualcosa ai vostri giocatori? (e questa seconda ipotesi, a volte, implica accettare di perdere, perchè è giusto fare qualcosa. Ad esempio fare giocare titolare il 3° portiere, oppure togliere il giocatore più forte..oppure fare entrare anche quello più scarso...)

Cosa sia giusto non lo so! e non voglio giudicare chi la pensa in altri centomila modi. Ma porsi la domanda e riflettere, questo è doveroso! La risposta è quasi sempre dipende. Dipende dalla società, dagli obiettivi (sempre che le società ne abbiano), dai giocatori, dal contesto e anche, sopratutto, dall'allenatore. Se si pensa ad allenare, si preparano i giocatori a vincere, si "fa tattica", si è per forza maggiormente deduttivi. La scorciatoia è obbligata, il tempo è sempre poco.... Se si pensa ad insegnare, non ci si può inventare istruttori all'ultimo momento, bisogna avere conoscenze e competenze, una filosofia, un modus operandi da seguire, bisogna mettere in conto che per apprendere cose nuove serve tempo, ed in questo tempo ci sta che qualcosa si sbagli e si perdano delle partite... bisogna sapere dove si sta andando, come si può tornare indietro per poi andare avanti di nuovo... bisogna sapere cosa c'è prima, e cosa c'è dopo. Questo è più difficile, così molti non sanno o non vogliono sapere, che esiste anche questa via, che è molto più nobile, più dispendiosa, più impegnativa e meno di facciata!

 
 
 
Successivi »
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963