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tutto è disteso sulle frasi eppure

Post n°73 pubblicato il 07 Luglio 2011 da imagomentis

  

minchia però questa casa
anche stanotte è un bordello
passano i giorni rattoppati
e non cambia o meglio
cambiano i pezzi delle cose
che lascio in giro in forma di parole
tra la gente distratta
che va e viene e si sgola
per dire e si affatica per fare
mentre prima dovrebbe
inabissare l’occhio nel bicchiere
e poi palparsi l’anima a vicenda
con le mani sulla pelle in rilievo

tanto non cambia niente
dopo troppo reale
in croste di memoria
e cambia tutto nell’immaginario
dove alture tra cime
nevose e fredde
diventano passerelle bianche
su fiumi caldi
e dove parole e cose
di te che appari nuda
e ti accartocci e gemi
sono pause poggiate tra tuoi seni
ed in file asimmetriche
sono formiche rosse ubriache
tra le tue cosce caramellose

occazzocazzocazzo prestami la tua cipria
oggi non ho voglia di separare gli specchi
e non ho nemmeno voglia di uscire
ma ho finito le sigarette e il vino
e qualcuno deve andare fuori a comprarli
perciò mi serve un po’ del tuo makeup
da spalmare sul viso a dita chiuse
come un selvaggio in guerra
due strisce orizzontali sulla fronte
e tre distese a piombo sulla guancia

al mio rientro per caso tornerò a pensarti
sparsa nel mio bicchiere e dentro il fumo
come una folata acre di vento tiepido e liquido
che si attorciglia agli occhi in mulinello spaiato

certo tra  noi
succederà  qualcosa
perché è scritto
persino su questo soffitto basso
se chiudo gli occhi
lo leggo anche sui muri
che tu sarai
probabilmente in chiosa
oasi di pioggia
e luna sgocciolata
nel tuo cerchio
ed io forse sarò
in triangolo e delta
scudo e sentiero
di questo divenire
lento nel raggrumarsi

stanotte aspetterò l’alba del quotidiano
per insultarla sorpreso nell’assurdo
e nel mio sguardo arrossato
d’azzurro senza appoggio
in una lacerazione di preghiera
e di guerra e rito dissennato

come quel pane mistico spezzato
nel vuoto bianco del cielo
ed imbevuto nel vino
strizzato a sangue
in una vaga memoria
del sacrificio di un palestinese
biondo con gli occhi azzurri
che resta sempre un’effige erotica
come le madonne del quattrocento
(hai mai guardato il viso della donna
che porge quel bimbo ai saggi
nella presentazione al tempio
del giambellino cognato
del padovano andrea mantegna?
è puro eros appiccicato al muro
eros e tanathos del suo fatto sacro)
e leggerò i tuoi fogli per poggiarli sparsi
sul fianco sgombro del mio letto disfatto
prima del sonno ed al di là dell’assenza

ed alla fine avrai la tua leggerezza brumosa
di un sussurro di foglie di castagni nel bosco
in quel tramonto impastato di terra e di pioggia
e in un estroso spumeggiare di onde
in un mare d’inverno sotto la prima luce

avrai la tua consistenza di battigia schiumosa

la verità è che non me ne fotte una minchia
e le parole sono solo un pretesto
perché la realtà non è parola e il tuo gesto
non è che un suono di sillabe su carta

stanotte c’è uno strano sciabordio di sensi
e noi della ciurmaglia del buon buk
di notte sbronzi con una tastiera
coi sensi all’erta siamo pericolosi
sfidiamo l’ira del buon dio dei credenti
e tocchiamo persino il culo al diavolo

forse dovrei trovarmi una compagna
perché da troppo tempo insisto
nel rifiutare sinestesie di donnette
che sono facili facili ma una donna
è quasi un tatuaggio indelebile
proprio sul terzo occhio che si schiude
su quel delta di venere istoriato
da uno schizzo tracciato sopra un segno

ma perché penso alla tua bocca indolente
che si raggomitola in un risucchio di ombra?

perché mi lascio andare alle visioni
di un estetismo instabile nell’alcool?

per quale scopo allora
la maledetta inquietudine ritorna
in un contesto astratto
e si fa immagine di concretezza?

la mia realtà è linguistica
insopportabile se ci pensi bene
e nel reale quella parte di me
che si disloca tra cose e persone
non ha l’essenza inutile del dire
ma la sostanza cieca dell’apparire

e infine so che il mio essere inquieto
dopo tanto reale rimasticato crudo
è nei frammenti dell’immaginario
di un disastro che annuncia
un sentimento fatto di parole

nel mio caos esistenziale
quotidiano e ossessivo
non reggeresti

per una settimana

perciò lasciamo

che tra di noi ci sia
solo un fatto di lessico

 

 
 
 

al bar del vino e dintorni

Post n°72 pubblicato il 04 Luglio 2011 da imagomentis

 

  

c’è stato il tempo in cui, al bar del vino, dopo un buon piatto di formaggi e salumi e una bottiglia di rosso docile al palato, lei mi portava un trittico di grappe che sceglieva solo guardandomi il viso e mi diceva pure in quale ordine bisognava sorseggiarle

 

ed io, stranamente docile, ubbidivo, forse per gioco oppure perché mi fidavo del suo gusto e della sua intelligenza, accompagnata da un corpo niente male e da uno sguardo di popolo sapiente, che alla battaglia è sempre in prima linea, col disincanto nella giusta dose e, nel suo caso, con l’ideologia, simile alla mia, tradita dalla gente e dal tempo

una era fruttata, l’altra pastosa e forte, la terza secca

 

i nomi non li ricordo, ne ho bevute tante e poi, per i liquori e i libri, ho poca memoria

probabilmente in questo modo mi difendo dall’eccesso, e lo attutisco

sarà perché li ho frequentati troppo?

 

lei indovinava sempre il mio stato d’animo

se ero inquieto, la composizione alcolica era accostata in forte secca fruttata, per darmi il tempo di abituarmi al dolce, e rappacificarmi con il mondo e con gli uomini

se invece ero irritato, fruttato secco forte, ed il torpore vigile arrivava

 

me ne stavo seduto al mio tavolo di legno, proprio sotto una raffigurazione africana, a bere i miei bicchieri, gettando lo sguardo su cose e persone, in silenzio, cercando di attutire la lontananza con il mio amore in india, e non ricordarmi della sua reale malattia mortale, assurda, ingiusta, disumana, e nello stesso tempo tenerla viva almeno col pensiero, evocando demoni, divinità, e tutto il possibile del non umano, per toglierle quel suo male intollerabile e prenderlo in me, fare un cambio di vita, io che avevo già vissuto abbastanza 

 

e qualche volta lei si sedeva di fronte per scambiare due chiacchiere

di tanto in tanto la sua espressione era simile alla mia, combaciava in intenti, in accordi semantici, di sinonimi muti, e le parole si accostavano quiete e remissive

e allora la vicinanza temperava l’istinto e mi venivano fuori frasi divertite o pensose

 

altre volte erano lontane, sorde, esuli nel loro altrove simbolico, figurativo ma ci piaceva sentirle lo stesso, nel loro mitigare la nostra solitudine diversa, io nel mio mondo  immaginato e infitto nel reale, lei nel suo mondo  reale spinto all'interno dell’immaginario

e insieme, separati,  accolti a tratti nell’assurdo insistere ai sogni, disincantati e pronti ad incantarci ancora 

 

più di una volta ho immaginato di sfiorarle la mano, il viso, ma era piacevole vederla lì, a poca distanza, a dire e a sorseggiare anche lei qualcosa di buono, fumando la sua sigaretta accesa col mio accendino rosso, e tra i sorsi perdere un po’ di sé stessa, a raccontarsi 

perché allora sciupare, per inseguire un gesto probabilmente inutile alla sua narrazione, quel sortilegio in forma di visione?

 

quando voleva starsene da sola, rispondeva al saluto da dietro il bancone, seduta su uno sgabello di legno, sotto bottiglie allineate e calici sospesi, con il volto pensoso e rarefatto  a leggere i suoi libri, e in quel momento avrei potuto persino innamorarmi della sua indifferenza imperfetta agli avventori, e soprattutto a me

 

una sera o una notte, con qualche bicchiere di troppo, incominciai a parlare a ruota libera, non so di cosa, forse del tempo che ci hanno rubato, dei sogni rapitati e delle idee che resistono ancora nella mente, ma non si raccontano più, se non dopo molti boccali

 

ma lo si fa con ironia, perché non è il momento della rabbia, quella è una cosa per intelletti giovani e corpi acerbi che si cercano l’anima, alla mia età sarebbe una cosa buffa e grottesca, meglio riderci sopra, un bel po’ ebbri, da gente libera e divertita ancora, a sfottere le persone serie

 

in quella notte con parole a valanga, lei non disse nulla, forse si limitò ad ascoltarmi, non ricordo

 

ricordo però il barbaglio rarefatto di un lampioncino lontano, il fondo sgombro dei bicchieri vuoti che emanavano un bagliore turchese, un vecchio olivo un po’ spaccato, scavato dal tempo, privo di frutti, con poche foglie povere e rami discostati, uno sguardo estraneo cadermi addosso pieno di stupore e di vergogna, e il mio occhio che scrive che sentiva sempre di più la mancanza di una tastiera, per riversare a fiotti “lu sangu pacciu”  sul mondo truffatore, contrabbandiere, per renderlo, perlomeno in scrittura, forse più umano, meno posticcio e artefatto

 

quando incomincio a dire, a raccontare a voce, non è facile tenermi a morso, mettermi la cavezza, rabbonirmi, farmi tacere

è molto più semplice dirmi vaffanculo e andarsene, e forse è quello che davvero cerco, restare solo, a far marcire l’anima

 

ma non si può, perché c’è sempre una femmina che ostinata vuole rintracciarmi nel mio io suddiviso, a grappoli, ad ammassi,  sparso ovunque, in frammenti che lascio ammonticchiati in giro, fino a scordarli altrove

 

forse perché prima o poi fa il confronto tra il suo bel mondo di cartapesta  e porcellana e il mio piccolo spazio brusco di pietra lavica e terraglia, e sente urgenza irrequieta di affascinare le frasi e di sedurle, senza smanceria alcuna, senza adulazione

 

io nel mio kaos sto bene

e quando torno a casa, tra le mie mura stinte dagli intervalli incerti della ragione, spengo il cervello e gioco con la memoria a togliere l’immaginario al reale, per mescolarli tra i fogli, troppo vicini ai bicchieri, alla musica

 

in una di quelle notti m’invitò a casa sua, ma questa è ancora un’altra storia

 

 

 
 
 

al bar del vino e altrove

Post n°71 pubblicato il 02 Luglio 2011 da imagomentis

 

come un vulcano erutta il magma incandescente nel  cervello s'espande il ricordo improvviso  ed è l’assenza che mastica ciò che resta del cuore

perciò mi guardo attorno e c’è una bottiglia nuova, di jd, a sostare sul tavolo, tra i libri sparsi e i fogli

l’acchiappo svelto e torno alla tastiera per scrivere minchiate con un altro nick

il blues fa il suo dovere e la bottiglia si spoglia del suo giallo ambrato

il tempo scorre senza una logica che non sia quella dell’ebbrezza e nella mia solitudine,

in questa stanza manchevole di femmine, non ho da dare conto a nessuno

i pensieri diventano parole scritte, innocue, fatte a pezzi da una rabbia attutita, smorzata a tratti dall’ironia solitaria che mi calma

fuori fa un po’ di freddo inusuale e l’alcool, allegramente, lo attenua

in questo fluire matto, senza clessidra, un amico mi chiama

e decidiamo di andare a bere in centro

per strada dico di voler rivedere un culo da collezione

lui accetta, perciò ci incamminiamo verso il locale

gli parlo un po’ di un mio innamoramento trasversale, nuovo di zecca,  fatto però di cenni divertiti agli occhi e di rimandi smorzati alle parole e ai gesti, senza quel privilegio muto del toccarsi 

ma lei è una sposa con un figlio e un marito ed io non sono abituato a fottermene della morale, eppure c’è un po' di roba anarchica che vortica nella mia testa di comunista eretico

lui se la ride perché ci è già passato

così, ciarlando ironici, giungiamo al bar del vino

saluti ai conoscenti e battutacce a iosa prima di accomodarci a un tavolino con le nostre birracce fresche e alla spina e due porzioni di bruschetta al pomodoro e all’aglio a fare da cornice

dal fondo di quel vicolo alberato lei finalmente arriva, ma non di spalle ed il suo culo non si fa vedere

il mio amico sornione le dice che sono innamorato e lei si siede al nostro tavolo poggiando sul ripiano il suo pacchetto di sigarette e invita una sua amica con un cane a chiacchierare con noi

le guardo il viso e gli occhi, agili e vispi, ora disabitati dall’inquietudine, e tuttavia ribelli, ed il suo corpo, minuto e snello

me la rammento, irrequieta, a bere e a dire di sé stessa senza pudore a me che, frantumato dai bicchieri vuotati, l’ascoltavo insinuare tra le parole tutto il suo essere madre e donna separata, in rivolta col mondo e compagna, come il mio amico ed io

le accenno alla faccenda, una storia abbozzata non concreta, agli inizi, un po’ opaca, con questa femmina,

che mi asserraglia perché ad un poco di valore etico ci tengo

e mi risponde che all’amore ho già dato, che non ho nulla da perdere, che un’amante è meglio di una moglie, che un amante ha dell’amante i suoi momenti migliori,che non la devo sopportare tutto il tempo e se una donna ci sta è solo perché lascia passare un altro nel suo mondo

io le rispondo che la morale è come l’anima, una volta mollata tutto prosegue come nell’entropia

poi dà al mio amico chiavi e libretto della sua macchina e ci invita a raggiungerle in un locale dove si suona jazz

si allontana e finalmente posso adocchiarle il culo

guardo il mio amico che si diverte a vedere la mia faccia sorpresa da quel tempismo imprevisto delle sue risposte e mi dice che finalmente un po’ d’umanità traspare dal mio esistere

così finiamo i due boccali di birra e andiamo a prendere la macchina

il locale è nei pressi di una piazza con un castello normanno che la sovrasta

entriamo e un sax fa uscire le sue note acute

sbircio il bancone e noto buone bottiglie e questo mi rassicura

ci fanno segno e ci avviciniamo

sul tavolino ci sono due bicchieri di un ottimo valpolicella

ordino una bottiglia dello stesso vino e mi avvicino al bancone

c’è un buon torbato il bushmills e ne prendo un bicchiere

ne offro un po’ a quella femmina e lei mi dice che non vuole mischiare ma mi lascia bere in pace senza storcere il naso

il cane è un trovatello un po’ vecchiotto e facciamo subito amicizia

il mio amico chiacchiera e ride e si scola il suo vino

finisco il torbato e riempio un calice di valpolicella e chiacchiero guardando quella gran bella femmina con stupore

ha gli occhi agili e scuri i gesti nervosi e la risposta pronta

del suo culo ho già detto del seno piccolino e sodo no, lo dico ora

domani penso avrò un’altra cena lucida dove tra gli altri ritroverò una donna che conterà i miei bicchieri

questa se ne strafotte perché è una donna libera che paga le sue scelte

l’altra vorrebbe esserlo ma è imbrogliata in una gabbia nido che la protegge, eppure tutte e due sono donne inquiete

usciamo in strada a fumare le nostre sigarette e a ridere di noi ed al ritorno nel locale mi scolo un altro bushmille e mi siedo accanto a questa femmina nervosa

vorrei cingerle il corpo con il mio braccio e sorriderle per sconciarla un po’

ripenso alle mie storie e non ricordo come siano iniziate, chi ha fatto il primo gesto quello che appiccica i corpi, perciò scaccio il toccarsi

sono un po’ sbronzo quando ritorno a casa  a notte fonda e le due donne si sovrappongono nell’iride disgiunta al mio pensare

meglio così mi dico, dopo anni di sentimento dissolto nel reale torna di nuovo una femmina a porsi accanto al mio io

ma prima di dormire punto la sveglia per il mio urto col mondo l’indomani

questa notte però me ne strafotto e voglio dedicarla ai miei pensieri quasi mai innamorati

e per portare a compimento il gioco, dalla bottiglia mi scolo un sorso di jack daniels, e per un po’ la memoria si placa

poi m’addormento col lato destro del mio letto vuoto

 

 
 
 

il bar del vino

Post n°70 pubblicato il 01 Luglio 2011 da imagomentis

  

non fu difficile arrivare al bar del vino,

piccolo e legnoso come una cantina d’altri tempi e conficcato in una strada alberata  di una via principale dal nome mitologico,

al centro storico della città

 

il mio amico mi aspettava vicino ad un chioschetto,

ad un paio di chilometri dal bar,

e lì, in una tarda serata con la brezza fredda appiccicata alle  gote,

ci scolammo un miscuglio di limone spremuto,

seltz, sciroppo di agrumi e un pizzico di bicarbonato,

chiamato  digestivo dall’inventore ottantenne che cinquanta anni prima l’aveva ideato e che gestiva ancora il suo chiosco da tempo immemorabile,

in mezzo alla piazza che in quel momento era quasi vuota

 

erano le dieci di sera ed era un’ora cortese per passeggiare in una città siciliana

la donna del bar del vino  era una minuta trentacinquenne,

bruna dalla carnagione pulita,

coi seni piccoli ed il corpo nervoso e accogliente,

e un culo da collezione  che ti guardava dritto negli occhi,

quando parlava con te

 

qualche settimana prima avevo accettato la proposta del mio amico di partecipare come ascoltatore di una lettura di poesie,

all’interno del bar o sui tavoli esterni poggiati su un marciapiede isola pedonale,

poeti e poetesse a recitare le loro frasi, a leggere i loro versi

c’ero andato anche io ma non avevo letto niente di mio,

avevo solo bevuto e ascoltato

 

una volta sola, verso la fine della figurazione,

ero sbottato esclamando:

 “queste sono minchiate cu lu bottu a bumma”

 

era stato davvero troppo sentire da una giovane voce in foggia di penna fragile  e accasciata su una forma improbabile di scrittura che si rifletteva nei suoi gesti consunti

 “tre quarti della poesia sono nati dal dolore “

 

e aveva appena letto una poesia che recitava più o meno questi versi che trascrivo a memoria:

 

“tu sei il mio amore

che mi spezza il cuore

e quando non sei vicino a me

il mio conforto al dolore

è scrivere questi versi per te”

 

era con tutto ciò una bella femmina e mi guardò incazzata

aveva una bocca come due spesse ciliegie appena  schiacciate dalle dita e non continuai il discorso,

forse afferrato dalla percossa dello sguardo,

come un pescespada infiocinato da un esperto uomo di mare

 

la femmina del bar del vino  però si abbassò dietro il banco e iniziò a ridere sbirciandomi attraverso il vetro colorato di un bicchiere

ripresi a bere un eccellente nero d’avola  che appesantiva i miei  gomiti appoggiati all’angolo del bancone mentre guardavo l’incavo di un seno appiccicato alla maglietta leggera e lo vedevo alla mia destra mischiato fra tante bottiglie,

mentre alla mia sinistra  stavano a galla il mio amico ironico,

le poetesse e i poeti,

chi ascoltava giocondo seduto al tavolo con una faccia borbottata di noia e di compiacenza

 

qualcuno mi guardò male,

la tizia del dolore e della poesia mi commutò in una camurria ignorante,

io continuai a bere con la mia strafottenza versata nel bicchiere di rosso,

sbirciando complice la femmina divertita dietro il banco ed ogni tanto il suo culo,

e tutto finì lì

 

e almeno per quella sera la poesia addolorata smise di scassarmi la minchia

e rimase in silenzio

 

 
 
 

l’oro nella cintura di rimbaud e la lana nell’arcolaio di gandhi

Post n°69 pubblicato il 29 Giugno 2011 da imagomentis

 

 

l’oro:

cadono
si assottigliano
le parole puttane
e si smorzano languide
come dopo un amplesso

poi

in un sortilegio accidentale
si ammassano e tornano
da distanze carnose
distratte in apparenza
ma in sostanza astute

qui senza di te
tutto è in subbuglio

nel disordine armato
balla il cancan
un culo di perle levigate
in un disastro adescato
dalle mie frasi

probabilmente è un baratto

prima
le donavo
in cambio di niente
ora
le svendo tutte
queste parole già scritte
ad un centesimo l’una

per ricompensa chiedo
un lembo della tua pelle
da punzecchiare
e poi scarabocchiare
con un rametto d’ulivo
e una foglia di palma
inzuppati in tinture
fatte di pioggia e bruma
e vino rosso e conchiglie
vermiglie e bianche
sminuzzate da pietre
e terra densa
e frutti succosi
e carbone di quercia
ed erbe odorose
e petali di fiori
e grano giallo

come segni rupestri
sul tuo corpo velato

e se non è il tuo guscio
a farsi tela e papiro
sarà la buccia vuota
di un’altra donna

nel reale è possibile
questo mercato osceno
dove parole vuote
sono fiumane
di sensi asciutti

nella mia illusione
spesso di notte ebbro
per trafugare le frasi
di un’intuizione poetica
abbacinata dal giorno
troppo loquace e nitido
nel suo clamore falso
indosso panni curiali
e la canaglia
si oscura
come un dettaglio
tra i fatti inservibili
del quotidiano osceno
che mi ha trastullato
con canzoni e balli sboccati
di imboscata blasfema
e che la poesia
nel suo vagolare irrequieto
ha trasformato
in danze e canti
di guerra e di preghiera

ed è convinto
questo insieme indistinto
di corpi agitati
pieni di desideri
che si mischiano
a pelle viva e nuda
di avermi affascinato
e corrotto nel gorgo
dell’inganno dei sensi

tanto il mondo non cambia
è postribolo e frode

eppure
la poesia è un miraggio
dai colori mischiati
che lo esorcizza
tra muri

spesso però
ciechi impostori
la tingono arruffandola
e false giunchiglie sorde
con apparecchi acustici
ben intonati al silenzio
barbugliano rumori
che spacciano per suoni

almeno nel mio immaginario
che sboccia dal reale
e nel reale insiste
voglio
colori e suoni
di fiaba sussurrata
voglio
colori e suoni
di bolgia disillusa
da sublimare o da vivere

resterà un segreto
tra me e te cesellato
questo mio raccontare
di visione e materia
e sarà sogno ancora
per incantarsi
ogni volta sorpreso
nel suo disincanto

 

la lana:

che posso dirti mio piccolo sole?

scrivi sempre coi sensi
non lasciarti imbrogliare
dalla ragione

la poesia o c’è o non c’è

è
come la bellezza
evidente allo sguardo

se manca
è solo chiacchiera
e gioco di barattoli vuoti

suggestione ordinaria
che prima o poi svanisce
senza lasciare tracce
di corpi celesti
evanescenti
o tizzoni d’inferno
frammentati

ed è un imbroglio linguistico
che riconosco al tocco
e che si sbriciola
come una foglia marcia
di un albero sterile

ed è putrefazione
di scrittura spruzzata
con profumi ed aromi
per ingannare gli inetti
o soddisfare gli ipocriti

ed è persino
un lessico stonato
riverniciato per sciocchi
privi di specchi

polvere fastidiosa
di una filologia falsa
priva di quella verità
che non esce dal vago
cenno del dire
e stupisce soltanto
chi si illude di essere
franchigia astuta nel tratto
di un’apparire dolciastro
ammantato di vuoto
cupo e malato
senza nemmeno
il privilegio di esistere
nell’assurdo

perché l'ombra del nulla
che ci lambisce
è un accenno dell’anima
gettata a caso
nei rimasugli
del linguaggio corroso
ed è fatica
nei sentieri interrotti
della poesia

è un disastro lentissimo
sotto una luce fioca
in usufrutto spietato
nello sguardo insensibile
di demoni e di dei
che si sottraggono
annoiati e feroci
se le parole non hanno
il suono magico e folle
del dio pan o di orfeo

fonemi privi di voce
nella scrittura
si fanno melodie innaturali
che lo sguardo ruffiano
ridipinge
note nello spartito
dei nostri passaggi
spogli di spazio e tempo

ed è un accadere senza nomi né cose
il mio immaginario
che nel reale si appiglia
a mani nude
come un naufrago esausto
al faraglione che affiora
dai cinque sensi

il sesto senso imperfetto
del mio sfiorarti
è in quella falce di luna
sul mare
che ti assomiglia
e pende granulosa
come appesa
ad un filo di resina
tra le mie iridi azzurre
oppure
nella carezza intimidita
della mia mano ad un cucciolo
fulvo di volpe
trovato per caso
nella boscaglia
e quel suo mordicchiare selvaggio
a scatti inquieti
con quel musetto grazioso
era simbolo e segno
del mistero dell’occhio
e del linguaggio
senza significato
e dell’istinto
senza accezione
proprio della natura
che si cela mostrandosi
ebbrezza scortecciata

il residuo è cultura
maledetta cultura
da sprofondare
in un mastello di concretezza

nelle corrispondenze
incompiute
di un lessico inclinato
tra il corpo e l’anima
ti accolgo lieve
nel terzo occhio
e ti trattengo libera
nell’infinito umano
in triangoli e cerchi
indefiniti

 

 

 
 
 

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