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whatever works

Post n°86 pubblicato il 06 Ottobre 2009 da buknowski

15.032.009

Scontando una equilibrata fusione di fattori sia quantitativi sia qualitativi, che trovano rara corrispondenza nel cinema non solo attuale, Woody Allen è, senza ombra di dubbio, il più grande regista vivente. Penso al genio traspositivo di uno Stanley Kubrick o al talento strizzato e talvolta sprecato di Nanni Moretti, due esempi seppure diversi di un accomodamento borghese giustificato più o meno sempre dall’impedimento produttivo. Per ribadire le parole del professore e portaborse Luciano Sandulli “La letteratura italiana dell'800 [...] è penosa, andrebbe saltata in blocco. Che cosa ce ne può importare a noi di un Silvio Pellico,
di un Berchet, di uno Zanella, di un Carducci? E anche Manzoni, diciamo una buona volta la verità: mentre lui per cinquant’anni scrive e riscrive I promessi sposi, Balzac infila uno dopo l'altro dieci capolavori, Melville scrive l'immenso Moby Dick, e Dostoevskij... beh, Dostoevskij scrive L'idiota, Delitto e Castigo e I fratelli Karamazov.” Dunque Allen sta al cinema come Fedor alla letteratura? Probabilmente sì, con la differenza che l’ebreo nuiorchese riesce ad andare addirittura oltre le responsabilità morali dello scrittore russo a cui dedicò il suo Match point. Lo supera per ragioni contestuali, non per altro, e non solo per riquadri fisici ma anche e soprattutto temporali, tanto che se oggi Dostoevskij fosse vivo probabilmente andrebbe a puttane nella Grande Mela, luogo di perdizione in cui Dio è gay e fa l’arredatore. E nella stessa New York trovano la loro giusta dimensione Marietta, moglie meridionale e bigotta che finisce col fare l’amore con due uomini coi quali andrà a vivere, e suo marito John, rispettato conservatore del Mississippi che scopre di amare il pesce. Allen insomma suscita qualche risata in più rispetto a Fedor che non ne suscitava nessuna, ma non tralascia per questo le sue profonde disquisizioni sulle umane relazioni che, a dire di Boris Yelnikoff, falliscono per una mancata visione di insieme da parte degli attori coinvolti. Woody Allen è, coi suoi infiniti altri ego,  profondo, volgare, snob, cinico ma ilare, intellettuale, spocchioso ed arrogante ma è l’unico a sfornare cinema da oltre quarant’anni con metodica puntualità giungendo così al suo quarantesimo film realizzato dietro la macchina da presa: Whatever works. Basta che funzioni, a prescindere dai fattori ostinati e contrari basta che funzioni. E sapete da cosa dipende l’esito di un qualsiasi progetto? Dalla machiavellica fortuna, dal quel caso imprevedibile secondò Niccolò. Ma attenzione, la fortuna secondo il proto politologo toscano è solo l’ultimo dei fattori indispensabili alla buona riuscita di un governo, o di un fine prodotto, come nella fattispecie. Anche se è solo il caso, in ultima istanza, a possedere quella sorta di potere di esecuzione, ad esso non può e non deve mancare la virtù perché “la fortuna domina solo su metà delle nostre azioni, lasciando l’altra al nostro libero arbitrio. Se gli uomini sapranno usare con accortezza e lungimiranza la loro intelligenza, la loro conoscenza e la loro prudenza, avranno la possibilità di opporsi alla fortuna.
Il paradigma insomma sembra essere ancora una volta quello di Cesare Borgia, anche se Allen non deve che a sé stesso l’essere riuscito a fondere virtù e fortuna e a perseverare quando questa venne meno. Mi riferisco al periodo artisticamente più basso (o forse dovrei dire meno alto), che va dallo scorpione di Giada alla Melinda doppia, dalla moglie fatta a pezzi da Alfonso Arau al brutto ma significativo, in quanto consapevole d’esserlo, Hollywood Ending. Woody Allen è sessualmente disturbato ma è riuscito a creare la giusta e prolifica alchimia tramutando in arte i suoi vizi, anche i peggiori. Ed è così che, da Play it again, Sam (film di transizione firmato da Herbert Ross) comincia il secondo periodo del regista, quello che pur mantenendo l’idiozia comica (che metterà definitivamente da parte dopo i grotteschi e assurdi quesiti sul sesso culminati nell’innamoramento della deliziosa pecora Daisy o nell’assalto da parte di una tetta gigante) si affaccia a orizzonti nuovi. E’ quel fascino famoso e discreto che lo porterà a interpretare un comico di successo in Annie Hall, in cui soffre di anedonia come il Boris di Whatever works; un autore televisivo in Manhattan, un regista in Stardust Memories, documentarista in Crimes and Misdemeanors, docente universitario in Husbands and Wives, scrittore in Deconstructing Harry. Oggi Allan Stewart Königsberg ha deciso di lasciare ad altri poco più giovani di lui il compito di sciorinare una superiorità di fatto indiscutibile se avalliamo la tesi della necessaria corrispondenza tra le intenzioni e i fatti. Boris sembra chiudere l’immenso cerchio autoriale che porta finalmente ad una presa di distanza totale verso tutto, sesso in primis. Sembra essere il suo una sorta di distacco verso qualcosa che in un modo o nell’altro non si può più avere. Ma la vita riserva sorprese anche se provi a suicidarti lanciandoti dalla finestra del tuo appartamento, sembra dirci il regista. Mai disperare insomma, con personaggi che ritornano se pensiamo al Mickey Sachs di Hannah and her sisters, il quale senza Duck soup, la guerra lampo dei fratelli Marx vista per caso in tv, non sarebbe mai arrivato a scoprire il reale significato della vita: spassarsela.

 
 
 
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