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Post N° 71

Post n°71 pubblicato il 13 Aprile 2006 da jp.f

Disabilità ed handicap
Due parole due significati
Distingue per capire e affrontare le possibilità di un lavoro educativo

Per affrontare adeguatamente il lavoro educativo con i soggetti disabili è fondamentale ri-partire dal significato delle due parole “disabile” e “handicappato”. Nel linguaggio comune esse vengono usate come sinonimi ma in realtà sottintendono due significati diversi. Non interessa ora discutere del concetto che l’O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha voluto dare a queste due parole, ma analizzare la ricaduta che dal punto di vista pratico viene esercitata sul lavoro educativo. Tralascio per precisa volontà la nuova denominazione “diversamente-abile” che il solo pensiero mi “gela” la voglia di scrivere.

Sintetizzo: handicap nella sua accezione generica significa svantaggio ( i più maturi ricorderanno che la parola è stata rubata al mondo dell’ippica dove handicap è lo svantaggio che il cavallo migliore subisce alla partenza per raggiungere lo stesso traguardo degli altri), cioè dover fare delle cose, raggiungere degli obiettivi, dei traguardi con delle difficoltà d’origine. Il punto di partenza rispetto ai cosiddetti “normali” non è uguale a tutti gli altri, diverse cause cliniche ne costituiscono l’impedimento a raggiungere gli stessi traguardi; ad esempio limitazioni sensoriali, fisiche ecc.

Disabile, lo dice la parola stessa, è il non possesso delle abilità necessarie o utili al raggiungimento di uno scopo, di una funzione, ecc. Di per sé disabilità non è necessariamente handicap, perché rimosse o trovate le strategie per superare la disabilità il soggetto non si troverebbe più nella condizione di svantaggio e quindi di handicap.

Fin qui l’idea di educazione dei soggetti disabili e/o handicappati non esige particolare approfondimenti se non nel concepirsi quale forma del rapporto attraverso cui un soggetto in relazione ad un altro promuove un lavoro di crescita, di relazioni, ecc, ecc.

Nel corso degli anni, nel lavoro con soggetti disabili, è emersa sempre più chiaramente l’esperienza che la parola handicap in realtà esprime anche un altro concetto: svantaggio da una parte, ma “forma della relazione” dall’altra.

L’aspetto più grave del soggetto con handicap emerge quando egli stesso assume l’handicap quale forma del rapporto con i suoi altri, ossia come se affermasse: non “ho uno svantaggio”, ma “sono lo svantaggio”. Per i più avveduti sottolineo l’imputabilità del soggetto quanto al proprio handicap.

La forma del rapporto di questo soggetto con i suoi altri, non sarà più domanda, ricerca di soluzioni, desiderio,  soddisfazione, ecc, ma affermazione di uno status, espressione di una soluzione trovata: appunto l’handicap. Il soggetto si pone con la perdita (ma non si tratta di perdita piuttosto di opposizione) dell’orientamento a soddisfazione, per dedicarsi (si tratta di vera e propria dedizione) alla realizzazione del “rapporto secondo l’handicap”.

Si tratta di psicopatologia del rapporto ed è importante definirlo così perché rende possibile una cura. Concepire l’handicap solo come uno svantaggio, o peggio uno status, permette solo il suo “mantenimento” e quindi la sua  conferma.

Per capire questo però è necessario osservare il soggetto nel suo muoversi all’interno dei rapporti con gli altri. Osservazione guidata da alcuni criteri che hanno come riferimento la possibilità di soddisfazione quale meta del proprio muoversi. Soddisfazione intesa come possibilità di raggiungere un risultato che porti il soggetto alla … soddisfazione, cioè alla quiete e alla pace (per dirne due).

Ad esempio un soggetto che ha sete, si muoverà per procurarsi da bere e compiuto questo gesto sarà soddisfatto, la memoria di questo lo farà ri-muovere quando il bisogno di bere tornerà a farsi sentire. Il soggetto con handicap, per restare all’esempio, non trarrà soddisfazione dal bere pur riconoscendone il bisogno, ma continuerà a bere senza soddisfazione, ripeterà cioè il comportamento. Ma attenzione, non è il comportamento che definisce l’handicap, quanto l’assenza di soddisfazione, di conclusione soddisfacente nei moti, per cui essi vengono ripetuti all’infinito senza quiete.

Non è casuale che uno dei primi e fondamentali moti ad essere interrotti sia quello del parlare in quanto strumento “principe” della relazione; il soggetto con handicap rinuncia (oppure ne fa un uso improprio) all’impiego di tale strumento quale mezzo di domanda del rapporto per ricevere soddisfazione dall’altro. E un vero processo di auto-esautorazione.

Handicap esprime allora la forma del rapporto tra almeno due soggetti così come la parola, amicizia, amore, odio, tolleranza, affetto, ecc. Così come nelle parole amicizia, amore, odio si persegue lo scopo rispettivamente dell’amicizia, dell’amore, dell’odio, anche nell’handicap si persegue lo scopo dell’handicap. Cioè il soggetto con handicap realizzerà con i suoi altri il proprio handicap.

Concludo con una osservazione che su quest’ultimo punto apre la possibilità ad un lavoro educativo: per arrivare ad avere l’handicap quale forma del rapporto bisogna che qualcun altro si renda “disponibile” al costituirsi di questa forma del rapporto. L’amicizia, l’odio, l’affetto si esprimono nel rapporto tra due, così l’handicap non definisce il soggetto ma la forma del soggetto nel rapporto con i suoi altri. Il lavoro educativo trova qui l’unico terreno di cura: nel non sostenere l’handicap quale forma del rapporto, ma nel proporre una relazione soddisfacente (per entrambi) alla quale invitare il soggetto, che nella sua libera iniziativa giocherà  la possibilità ad aderirvi.

 
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