Creato da: schoening il 16/04/2008
Racconti erotici

Archivio messaggi

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

Contatta l'autore

Nickname: schoening
Se copi, violi le regole della Community Sesso: M
Età: 69
Prov: MI
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 

Area personale

 

Ultime visite al Blog

schoeningmafricibgianni_margheri91alessandro.88lapcinzia.messoricirigliano.gabrielegiosplinterANNARAFFA1983simzattzorbailcosaccocosimo.dematteisformazione21InsolitodestinoMsanguin.mircomiss.crazy
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

 

Helga 01. Il giardino e la birra

Post n°1 pubblicato il 16 Aprile 2008 da schoening

Cara amica,
allora ti regalo questo mio ricordo. A quel tempo avevo poco più della tua età, ventisei anni. Nel mio giro di conoscenze, amici degli amici, c’era una signora di quasi quarant’anni, sposata ma senza figli, il marito architetto, lei non so di che cosa si occupasse. Me l’aveva fatta conoscere una mia amica (amica e basta), ma non c’era mai stata un vera e propria frequentazione.
Le poche volte che l’avevo vista, anche a casa sua, lei era sempre elegante. Io no, io ero piuttosto trasandato. Elegante ma non appariscente. Portava vestiti sobri che era piacevole guardare. Era bella soprattutto perchè curata, moderatamente bella, bionda e un po’ lentiginosa, capelli corti, seno piccolo.
Il fatto è accaduto in una serata di giugno. La mia amica era stata invitata a una festa in una casa in campagna proprio da questa signora. Che si chiamava Helga. Sì, era tedesca e il fatto è accaduto a Monaco, dove mi trovavo per motivi di lavoro. Una festa allora, fuori città, in una casa con un cortile, anzi più di un cortile, e anche un grande giardino e orto. Una festa in cui si mangia qualcosa, si chiacchiera, si ascolta musica, qualcuno balla, si fuma e si beve. Io non avevo ballato, non lo faccio mai, e a parte la mia amica italiana, Franca, una collega, non conoscevo quasi nessuno. C’era un paio di ragazze che mi piacevano. Di una se mi avvicinavo, si vedeva un po’ il seno, perchè ballava tanto e sudava e la camicia ogni tanto era un po’ slacciata. Ma a parte questo piccolo piacere, stavo bene, ma niente di più.
Così verso quasi mezzanotte vado in cortile. C’era già altra gente. Mi appoggio alla colonna di una specie di porticato. Mi metto a fumare. Ma non finisco la sigaretta che sento la voce di Helga: “Ecco il nostro fumatore solitario”. Mi chiede di fumare una sigaretta insieme a me e si appoggia anche lei a quella colonna. Era molto vicina a me. Si mette a parlare quasi da sola, io ogni tanto le rispondevo per gentilezza, perchè non capivo tutto. Però capivo che a ogni suo movimento - sai, non è comodo stare appoggiati a una colonna -, a ogni suo aggiustamento per cercare un posizione meno scomoda mi sembrava che si avvicinasse sempre di più. E così iniziai a sentire la sua spalla addosso alla mia e più ancora il suo profumo. Un profumo di signora. Un profumo di donna.
Allora venne spontaneo anche a me rendere quel contatto spalla-spalla più intenso, e mi accorsi che lei con impercettibili movimenti pure lo cercava quel semplice contatto. Semplice ma sensibile e tanto sensibile che il mio pene si ingrossò un poco.
Ma non sapevo proprio come fare. Non lontano da noi c’era gente che parlava. Non ci vedevano bene, è vero, perchè c’era poca luce e anche perchè eravamo un po’ di lato. Ma se mi fosse venuto in mente di baciarla... no, non si poteva. E poi lei parlava come se niente fosse e io per gentilezza dovevo concentrarmi su quello che diceva e cercare di partecipare alla conversazione.
Poi mi chiede un’altra sigaretta. Prendo il pacchetto dalla tasca dei calzoni e lei non può che guardare lì. Me lo vede duro e gonfio. Mi guarda in faccia. Sorride. Sorrido anch’io, imbarazzato ma contento perchè almeno aveva capito qualcosa.
Con un gesto assolutamente normale, per nulla malizioso, porta la sua mano sul mio pene che dentro i calzoni si induriva sempre più. E chiede: “Posso accarezzarlo?”. E certo che poteva. Non ci potevano vedere, ho visto che anche lei aveva controllato, e si sentiva libera di provocarmi, di giocare, dolcemente, come si accarezza la testa di un gattino, e intanto mi guardava e mi sorrideva. E con l’altra mano fumava. Mi buttava anche il fumo addosso. Non era la mia ragazza, non era la mia amante, non era una donna che paghi. Era una signora che voleva giocare e che si divertiva.
Poi io le dico che quasi quasi stavo per venire. E lei: “No, no. Così ti sporchi”. E smette. Si appoggia di nuovo alla colonna. Io rimango fermo e imbranato. Lei spegne a terra la sigaretta e con una faccia diventata stranamente seria mi dice: “Lo vedi quell’albero? Vai lì, io vado a prendere da bere e ti raggiungo”.
Faccio come mi dice. Però ho paura che si tratti di uno scherzo. E perchè deve prendere da bere? Allora mi avvicino come se niente fosse all’albero, ma stando attento a che cosa sarebbe potuto succedere. L’idea dello scherzo mi paralizzava un po’, ma l’eccitazione provata mi rendeva anche sempre più incosciente. Confuso? Incredulo.
Finché non la vedo col suo passo elegante e in qualche modo frettoloso, forse eccitato, che porta due bottiglie di birra.
Me ne offre una e beviamo un sorso. Senza dire niente. Mi prende per mano e mi porta in una zona ancora più buia. Mi fa appoggiare a un albero. Si abbassa come per fare la pipì, invece appoggia la sua bottiglia a terra e senza pensarci mi slaccia i calzoni, tira giù la cerniera, insomma mi tira fuori tutto il cazzo sudato e anche i testicoli e poi con un fazzoletto inzuppato di birra fredda me lo pulisce e rinfresca. E lì inizia a imboccare un pompino che nella vita ti capita due tre volte. Una lingua che si spostava dappertutto, le labbra che bagnavano dappertutto. Poi beve un sorso e trattiene in bocca un po’ di birra ancora freddissima e riprende tutto il pene nella bocca, un pene che invece si scaldava e che in quella bocca fresca sentiva sensazioni mai sentite prima.
Cara amica, è inutile che insista sui particolari. Un po’ perchè non posso ricordare tutto (ricordo solo quel misto di saliva e di birra, di labbra e di lingua, che con una dolce lentezza mi provocavano e trattenevano il piacere) e un po’ perchè anche tu, come mi hai detto al telefono, sei una artista del pompino. E sai che cosa mi piace di più del sesso orale? Non tanto sapere che la potenza del mio cazzo è tutta dentro la bocca di una donna, ma avvertire che è quella bocca che sta gustando la mia carne, il mio odore, il sapore strano che si nasconde fra le cosce, come quando si mangia golosamente un frutto succoso.
Però ricordo come Helga completò quella sua follia. L’avvisai che stavo per venire, e allora imboccò del tutto il pene e raccolse così, mentre io trattenevo un urlo, tutto lo sperma che mi uscì. Ma non lo ingoiò. Con la punta della lingua prese anche quel po’ che mi era rimasto addosso, poi bevve un altro sorso di birra, si alzò in piedi, si avvicinò - ricordo il suo rossetto tutto sbavato - e mi baciò. Un bacio prima tremendo nel sapore, poi sempre più dolciastro e poi dolce, sempre più nostro, solo mio e suo, io e lei che ci scambiavamo una cosa dal sapore mai provato.
C’era ancora birra nelle nostre bottiglie, più nella mia. La bevemmo tutta ancora in piedi uno accanto all’altra. Senza dire niente.
Poi lei prese la borsetta e mi chiese aiuto per rimettersi a posto. Se fosse rientrata così tutti avrebbero capito, anche se aveva due guance rosse che dicevano tutto. Così aspettammo ancora un poco. Lei raccolse non ricordo più quale frutto in quel giardino. “Questa è la mia scusa”, disse. L’altra cosa che mi disse, prima di lasciarmi lì da solo senza seguirla fu questa: “Luc, fa come se non fosse successo niente. Non ho mai nemmeno sognato di fare una cosa del genere. Non cercarmi, non telefonarmi”. E con gli stessi passi tremolanti se ne tornò dentro. Quando rientrai io, lei non c’era più.

Per fortuna dopo una settimana mi telefonò lei, ma il seguito te lo racconto un’altra volta.

Ciao boccuccia.
Luc

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Helga 02. Le due fragole

Post n°2 pubblicato il 16 Aprile 2008 da schoening

Helga mi aveva chiesto di non telefonare e di non cercarla. In effetti io non avevo il suo numero, ma avrei potuto facilmente procurarmelo. Insomma, ero stato alla promessa fatta.
Dopo una settimana mi suonano alla porta (io abitavo con un tipo del posto, che per fortuna non era in casa). Apro e c’è Helga con Franca. Le faccio entrare. Beviamo qualcosa insieme. Sono state quasi un’ora quelle due, un’ora per me di ansia e di attesa. Perchè era ritornata? E perchè non era venuta da sola? Conoscendo l’amica, escludevo cose a tre. Ero confuso. Però mi dicevo di aspettare. La guardavo cercando di intuire qualcosa. Niente. Stavolta indossava dei jeans e una camicia rosa, era sportiva, e che cosa poteva voler dire?
Dopo un’ora, lo sconforto. Vanno via. Tutte e due. Ciao ciao, ci vediamo, eccetera.
Chiudo la porta e mi butto a letto. E vabbè, mi dico, che vuoi di più? Il paradiso l’hai provato, ora un po’ di purgatorio.
Così pensavo, pensavo al purgatorio, e non sapevo che quell’angelo-diavoletto di Helga stava risalendo le scale. Suonano di nuovo alla mia porta. Apro. E’ lei. Da sola. Sorrideva che sembrava il sole a mezzogiorno e mi porge un paniere con delle fragole.
“Ehi - mi dice -, va’ a lavarle e mettile in un bel piatto. E togli bene tutte le foglie e i gambetti”.
Prendo le fragole e vado in cucina. Obbedisco, anche se non so bene che cosa stia succedendo. Lei intanto va in bagno e ci sta per un quarto d’ora. Poi apre la porta e mi chiede dove mi trovo.
“Qui nella mia stanza”, le grido.
“Prendi le fragole, arrivo!”.
Le fragole erano già lì, sulla mia moquette, dove c’erano anche dei grandi cuscini (si usava stare seduti per terra, mica avevo il divano).
Le fragole erano lì. Anche io. Lei apre la porta. Vedo che non ha più i jeans né le calze ma un grande asciugamano messo a mo’ di gonna. Sopra indossava ancora la camicia. Ci guardiamo. Lei sorride ancora. Ironica, divertita, invitante. Poi lascia cadere l’asciugamano mostrandomi le gambe nude e il pube biondo, poco depilato, i peli lunghi e sottili.
“Hai da pagare un debito, lo sai? Stavolta tocca a te”. E poi: “Ma non spogliarti. Non voglio la penetrazione. Non voglio tradire mio marito”. E poi ancora: “Tu non devi dire nulla. Devi fare solo quello che ti dico io”.
Feci sì con la testa.
Lei stese l’asciugamano a terra, ci mise sopra due cuscini o tre, poi si sedette lì sopra aprendo le gambe come un fiore a primavera. Un altro cuscino lo usò per la testa.
“Bravo Luc. Guardami quanto vuoi. E prendi due fragole, una grossa e mettimela nella fica. Una più piccola e falla stare nell’altro buco. Fermati poi ad ammirare come il rosso delle fragole si addice al biondo dei miei peli e al rosa della mia carne”. Io mi misi ad eseguire. Metterle le fragole nella fica e nell’ano era quasi come penetrarla. Cara amica, c’era da tremare dal piacere. Mi fece stare lì fermo a guardare per molti minuti. E intanto le due fragole le vedevo ansimare, come se la fica e il culo le succhiassero dentro di sé e poi adagio le pompavano fuori.
Finalmente mi fece giocare come già immaginavo. Dovevo mangiare le fragole direttamente da lì, e quindi leccare. E poi altre due fragole, e poi altre ancora. Ad ogni cambio le mie leccate aumentavano. Dalla fica fino all’ano, dall’ano alla fica, su e giù, e poi dentro la fica e dentro l’ano. Era la prima volta che leccavo il buco del culetto di una donna e non pensavo che fosse così saporito. E dalla fica all’ano lei era un laghetto di miele.
Poi lei si girò, si mise a pecora, come dici tu, e così fu inevitabile affondare la bocca e la lingua fra le sue natiche. Per tutto il tempo, ovviamente, lei scalciava e sbuffava di piacere, gridava mordendo il cuscino, agitava le braccia. Le mia lingua dentro quel buco rosa e a spirale era come un solletico irresistibile.
Poi con un braccio mi prende i capelli, che ai tempi portavo un po’ lunghi, e me li tira fino a farmi male. Mi prende tutta la testa, si rigira e vuole che le lecchi solo la fica.
“Ma lentamente, lentamente, come un gelato” mi dice, sempre tenendo e stringendomi i capelli, “lentamente e solo sul punto che sai bene”. Il suo clito era come un minuscolo pene, pensai.
La lingua mi faceva già male, ma non dovetti leccare a lungo. Quando venne alzò il busto e con i denti mi azzannò la spalla.
La abbracciai. Ci abbracciamo. Un lungo e amoroso bacio in bocca, morbido, acquoso, sinceramente affettuoso.
Io ero ancora tutto vestito. La sua camicia era sudata e spiegazzata. “Poi mi presti qualcosa tu, spero”.
Ma a me non interessava la sua camicia. La guardavo, penso, implorandola. E lei sai che cosa mi disse? Questo: “Se vuoi masturbarti va’ in bagno, io voglio stare qualche minuto da sola”.
Ci andai in bagno ma non riuscì più ad avere un’erezione decente. Non si può bere l’acqua minerale dopo aver avuto per una buona oretta lo champagne sotto il naso. Lasciai perdere. Mi lavai le mani e la faccia. Avevo bisogno di fresco su di me. Poi ritornai nella mia stanza e cercai una maglietta che potesse starle bene. Ne trovammo un paio.
“Vado a provarle. I miei calzoni sono ancora in bagno, vero?”.
“Sì”.
“Ti sei fatto?”
“No. Ma non preoccuparti”.
Si rivestì nel bagno. Si fece anche una doccia e passò quasi una mezzora. Non c’era più nemmeno una fragola. Andai in cucina a bere una birra.
“Attento alla birra”, mi disse lei entrando già vestita. Notai che non le avevo ancora visto i seni.
“Preferisci la birra o le fragole”, mi venne da chiedere.
“Zitto - mi disse seria -, e ricorda che io oggi sono stata in giro tutto il tempo con la tua amica italiana”.
“Le hai detto di noi?”
“No, non l’ho detto a nessuno. Neanche a me stessa”.
E se ne andò via come se fosse venuta solo a mangiare le fragole o a bere il the.

Ciao, linguetta mia. Ci fu anche un seguito, per mia fortuna. Ma ora penso che anche tu voglia riposarti un po’.

Pensami.
Luc

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Helga 03. Spostare mobili

Post n°3 pubblicato il 18 Aprile 2008 da schoening

Passò un’altra settimana, o poco più. Un lunedì mattina arriva una telefonata di Helga. Mi chiedeva se potevo aiutarla a spostare alcuni mobili del suo studio, a casa sua. Un divano, la scrivania e forse anche la libreria.
“Beh - dissi -, perché non ti fai aiutare da tuo marito?”
“Perché lui, che è architetto e che ha arredato tutta la casa, non è d’accordo”.
Avevo capito.
“Per cui, se vieni oggi stesso per mezzogiorno ti offro qualcosa da mangiare e nel pomeriggio mi aiuti. Lui oggi e domani non c’è, è via per lavoro, così quando ritorna si trova di fronte al fatto compiuto. Capito?”
Sì sì, avevo capito. Appena avevo sentito la sua voce al telefono già era iniziata l’agitazione; ora sospettavo sì qualche stratagemma, però lei proprio non mi lasciava intuire niente. Anzi, poco dopo aggiunge: “Guarda che il pranzetto è l’unica ricompensa che avrò per te”. L’unica. Va bene. Almeno, pensai, avrò modo di rivederla.
Arrivai a casa sua per il pranzo. Insalata e qualche salume e formaggio. E birra.
“Ti piace la birra?”, mi chiese.
“Sì, e anche le fragole”, dissi io.
“Ah sì - disse lei con la faccia furbetta -, e che cosa hanno in comune la birra e le fragole?”
Stavo per rispondere in tema ma lei mi bloccò: “Oggi spostiamo i mobili e basta. Non voglio lasciare tracce”.
Cara amica, quella donna così ambigua mi stava stremando. Si divertiva. Certo. Aveva lei il gioco in mano, come si dice. Ma la sua compagnia era già di per sé così dolce che mi accontentavo di guardarla come si muoveva, come preparava il cibo, come versava da bere, come teneva in bocca la sigaretta, come si piegava a buttare cose nella spazzatura. E come si lavava le mani per poi asciugarle sulla mia fronte e sulle mie guance: “Sei calduccio, lo so, ti chiedo scusa, ma da me hai già avuto molto, no?”.
“Molto sì, ma non tutto”.
“Tutto non lo avrai mai. Sono una moglie fedele io. E non dire più una parola”.
Più o meno è questo che ci dicemmo. A dire il vero io buttai lì qualche insistenza, ma lei mi rispondeva con sorrisi fra il sarcasmo e la compassione. E sempre a dire il vero, mentre era girata a lavare i due piatti su cui avevamo pranzato (“Poco perché poi c’è da faticare”), le ho pure accarezzato i fianchi e una natica.
“Bravo, palpami il culo così almeno un po’ ti tranquillizzi”.
Ma poi dal culo la mia mano scese fin dove finiva la gonna e poi ancora sotto la gonna per risalire sulla coscia, nel tentativo di sentire il calore della sua pelle. Ma lei si scostò e sì, mi diede uno schiaffo. Con la mano inguantata e piena di sapone. Che figura. Le ho chiesto scusa e mi sono rassegnato.
Seguì un quarto d’ora di silenzio. Io riuscivo solo a fumare. Una sigaretta. Due sigarette. Lei mise tutto a posto in cucina. Ogni tanto andava in un’altra stanza ma ritornava subito. Io ero come un cagnetto che aspetta un cenno dal padrone.
E il cenno arrivò. Con queste parole.
“E’ colpa mia Luc, è chiaro che tu sei venuto qui con quell’idea. Ed è chiaro che non mi sai dare ascolto quando ti dico che non si fa niente. Tu ci sei rimasto male, anche per lo schiaffo, e io mi sento una stronza”.
“Non dire così...”.
“Va bene. Niente. Dai, rimandiamo tutto. Fra una settimana Gerard deve andare via di nuovo per due giorni. Se ti va ti chiamo, oppure chiedo ad altri”.
“No, dai, vengo volentieri ad aiutarti. Ho capito”.
“Va bene, ti richiamo”.
“Ci conto. Starò buono e sarà il mio modo per chiederti scusa per aver...”.
“Basta, basta, basta. Le mie scuse sono queste”. Fu un bacio sulle labbra, ma con la punta della sua lingua appena dentro la bocca a toccare la mia.
Poi stop. E così me ne andai.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Helga 04. Mistura indiana, bosco e muschio

Post n°4 pubblicato il 18 Aprile 2008 da schoening

Ora non ricordo quanti giorni passarono, più d’una settimana, più di dieci. So e ricordo che Helga mi telefonò poco dopo le sette del mattino, tanto che il mio coabitante tedesco si arrabbiò.
Mi disse che il marito era appena andato via per altri due giorni, e che quindi si poteva fare quello spostamento di mobili. E mi pregò di essere lì da lei presto, già verso le dieci.
Non potevo che dirle di sì. Avevo dormito solo quattro ore quella notte, ma non volevo rompere del tutto quella stramba relazione. Anche la semplice amicizia mi stava bene.
Però pensai anche che era un po’ stronza.
Alle dieci e qualche minuto ero lì.
“Grazie per la puntualità”, mi disse facendomi entrare.
Sorpresa: Helga era vestita con una tuta da ginnastica leggera un po’ vecchiotta. Aveva scarpe di pezza. Per la prima volta non la vedevo truccata. Forse non voleva svegliare i miei sensi. Forse era semplicemente in tenuta da lavoro. I miei sensi erano comunque svegli, o meglio si svegliarono subito quando solo le osservai le labbra mentre mi parlava. Non potevo non pensare che quelle labbra e quella bocca qualche settimana prima mi avevano dato uno dei più intensi godimenti fino allora provati.
Va bene, va bene. Ora ero lì come maschio per aiutarla a spostare un po’ di mobili.
“Ma perché vuoi spostarli? Penso che tuo marito abbia ragione, stanno bene così”.
“Non stanno bene. E lo so io perché”.
Così mi disse di aiutarla a spostare prima la scrivania, poi delle piante, poi un pezzo di libreria e qui la cosa durò di più perché Helga mi ha fatto togliere e mettere in ordine tutti i libri e tutte le carte che c’erano in quella libreria. E c’erano pure i tappeti da spostare e un sacco di altre cose.
Poi finalmente quello che doveva essere il mobile che a spostarlo cambiava tutto, secondo lei: un grande divano.
Mi disse di mettermi da un lato. E poi: “Prendi lì, sposta di qua, alza ancora, ora sposta dall’altra parte, sì sì alza, così, ora abbassa questo lato...”.
Tac, il divano si era aperto come un librone e ora sembrava un grande letto.
“E questo che cos’è?”, chiesi io.
“Beh, è un divano che diventa un letto. Voilà! E’ il letto per gli ospiti”.
E così dicendo mi venne incontro, mi prese per un braccio e mi portò fuori dalla stanza. Mi portò davanti alla porta di un bagno. Mi fece entrare.
“E questo è il bagno per gli ospiti”.
Andò verso un armadietto e tirò fuori un grande asciugamano.
“E questo è uno degli asciugamani per gli ospiti”.
“Ma è grande, è enorme...”.
“Sì, come lo vuoi, microscopico? Ti sto invitando a farti una doccia. Lì. Sciampo e sapone li trovi dentro il box, che è grande e comodo”.
Ero un po’ disorientato.
“Vai. Io ripasso fra qualche minuto per vedere se hai bisogno di qualcosa”.
Uscì. Io mi spogliai e iniziai a lavarmi.
Dopo quasi cinque minuti sento che si apre la porta del bagno. E poi sento e devo aprire la porta del box della doccia. Helga era lì, nuda, davanti a me, nuovamente sorridente come il sole, era la prima volta che le vedevo i seni, piccoli ma ben disegnati. In mano aveva una spugna marina e una boccetta con dentro un sapone liquido.
“Senti che profumo. E’ una mistura indiana”.
Entrò e iniziò a lavarsi con me.
Inzuppò la spugna del sapone e iniziò a strofinarmi a partire dalla schiena. Mi insaponò e massaggiò tutto, con la spugna e con le mani, sempre stando in piedi, un po’ per lavarmi bene come un bambino, un po’ per il suo e mio piacere. Insaponò anche il mio pene, ritto come una torre e pronto a schizzare come un limone spremuto. E lei stava attenta a mantenerlo così teso e gonfio.
Quando finì mi passò la spugna e chiese a me di fare la stessa cosa, precisando, come le altre volte, di non provare a penetrarla. E allora anche io la strofinai e massaggiai per il suo e per il mio piacere, lungo tutto il corpo, dal fondo dei piedi al collo, soffermandomi proprio dove lei sentiva più piacere.
Ma non era solo quello lo scopo della sua visita. Quando riprese lei la spugna, vi mise dentro il liquido di un’altra boccetta che non avevo visto. Me la fece odorare. Un profumo di bosco e muschio, ricordo. Con la spugna così inzuppata andò dritta nel mio ano, e pulì e lavò con grande cura. E prendendo la tanta schiuma che aveva prodotto, infilò in quel mio buco poco esplorato il dito, e lo dimenò e girò dentro ripetutamente, come a cercare ogni suo angolo.
“Ti fa male o ti piace?”, chiese. Non sapevo che rispondere, feci un qualche mugugno.
“Non lo faccio né per farti piacere né per sodomizzarti. Solo perchè voi uomini lì non vi lavate mai bene”.
Quando finì, si pulì con cura il dito. E passandomi la spugna mi chiese di fare a lei la stessa cosa: “Così saremo tutti e due candidi...”.
Le chiesi se voleva piegare la schiena. Lei capì e lo fece. In quella posizione il suo culo risultava più tondo e armonico, e il mio lavaggio era di fatto una piccola sodomia. Anche esplicita, dentro e fuori, e quando era dentro a girare per ogni angolo, come aveva fatto lei con me, solo che io in quel modo mimavo e sfogavo una penetrazione che era ormai una tortura trattenere. Mi trattenni. Però fu lei a pregarmi di continuare ancora a lavarla, o meglio a massaggiarle l’ano.
C’era elettricità in quel box doccia. Ma anche nel bagno, quando uscimmo ad asciugarci, in fretta e soprattutto i capelli, perchè il divano diventato letto ci aspettava.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Helga 05. Sirena e anguilla

Post n°5 pubblicato il 18 Aprile 2008 da schoening

Se la prima volta Helga era stata come una cagnetta che si avventa su un osso pieno di polpa, e la seconda un fiore carnoso che si apriva e offriva davanti alla bocca, ora sul quel divano, ancora umida di doccia, su quel lenzuolo azzurro che vi aveva steso sopra e sui cuscini grandi che vi aveva appoggiato, ora Helga era una sirena, un pesce che guizza, un’anguilla che passa sinuosa fra le rocce. Mi disse solo: “Tutto con la bocca e con le nostre lingue, dappertutto, dappertutto”.
Si muoveva a cercare una parte del mio corpo da baciare-leccare-succhiare-e-mordere, e si muoveva rapida, obbligandomi a rincorrerla. Ma tutto si svolgeva con dolce lentezza e le nostre mani, quasi sempre, erano a frugare fra i nostri sessi. Più d’una volta capitò che lei si fermava a masturbarsi, quasi a farmi vedere come si fa, come piaceva farlo a lei, aprendo le piccole e grandi labbra e mostrando in quella luce di mezzogiorno la profondità del suo fiore. Poi senza che me lo chiedesse lei, ero io a sostituirmi con la lingua e le labbra alla sua mano, offrendole in bocca il mio pene rosso.
Ma tutto durava poco, il momento del pompino conclusivo era sempre rimandato. A Helga interessava che ognuno di noi gustasse il corpo pulito e candido dell’altro, come il gusto del mangiare e del bere, tanto che pensavo che nuovamente portasse fragole e birra, o chissà cosa altro.
Ma così non fu. Fu invece che si stese sulla pancia e con le mani aprì le sue natiche. “Qui dentro, la tua lingua qui dentro”. Non era in gioco ciò che i latini chiamavano anilictus, lei voleva che la mia lingua vi sprofondasse dentro, per questo aveva preparato quel meticoloso lavaggio reciproco. Così rimasi con bocca e lingua a gustare quel magnifico buco rosa, e avrei voluto condirlo ancora con fragole e ciliege, con miele e burro, con jogurt all’albicocca, anche. Ma quella volta Helga voleva il sapore della carne nuda e pura. E quel sapore esisteva davvero. Non avrei mai pensato che “leccare il culo” fosse una pratica così potentemente bella.
Durò tanto quella mia leccata, il mio anilictus con variazioni. Helga nemmeno si masturbava, con le mani teneva il suo segreto buco il più aperto possibile, voleva che tutto il piacere arrivasse da lì. E però sbatteva le gambe, per esprimere il piacere che io - forse per la prima volta - le stavo procurando.
Poi disse che toccava a me. Mi misi nella sua posizione e anch’io tenni aperte le natiche con le mani. Ma lei, che curava ogni particolare, come appunto le persone eleganti, prima prese un piccolo rasoio e iniziò a depilare qua e là. Già la fredda lametta passata con dolcezza ma anche con precisione dava i primi effetti. E soprattutto quando lei ci calò dentro la lingua, sfiorando con la punta tutto l’arco della fessura e girandola a mulinello, e umettandomi con la saliva, e leccando in modo compulsivo e ossessivo - soprattutto i quel momento e negli infiniti minuti che seguirono compresi che il nostro corpo nasconde sensazioni inimmaginabili. Io non le stavo immaginando, le stavo vivendo.
Ma era un piacere che non esplodeva. Sentì Helga concludere il suo lavoro allentando piano piano, fino a che non posò il suo capo sul mio sedere, come fosse un cuscino.
Ma non dormiva. La sentivo ansimare. Le chiesi come stava. “Come Dio in Francia”, mi disse, che è una espressione tedesca per dire che meglio di così non si può.
Meglio invece si poteva, almeno per me. Perché così schiacciato sul divano, con la sua testa irrequieta, eppure serena, e poi con le sue mani che ricominciavano ad accarezzare le cosce, e poi e poi, e poi lei che ricomincia ad annusarmi dietro, stavolta senza leccare ma buttandoci dentro il muso come appunto fanno i cani e le cagne - vero Mia amica? -, e poi non so che cosa altro fece, non lo ricordo, perché il tempo ti lascia forti nella memoria le sensazioni, i toni, ciò che ti vibra, e meno i modi con cui tutto ciò ti viene procurato... Insomma lei si sedette con il suo sedere ancora umido sul mio e iniziò a spingere, a dimenarlo, non so che cosa cercasse, era un gioco, era un gesto pensato all’improvviso, ma era bello il suo morbido culo sul mio più duro, il suo massaggio che stranamente stimolava il mio ano che in tal modo si sentiva ancora stimolato - e fu quella una volta, la prima, che desiderai anche di essere penetrato, mi sentii femmina anch’io, femmina e maschio insieme, un grande buio, una voglia finalmente di ricevere e non più solo di dare... Finché mordendo un cuscino volli trattenere il mio urlo, non volevo, e non so spiegare perché, non volevo che si accorgesse del mio orgasmo. Che non fu - lo ricordo bene - come uno sbotto o schizzo, ma come un defluire lento dello sperma sul lenzuolo.

Helga se ne accorse quasi subito, però, quando mi cercò il pene, presumo, per succhiarlo. Si mise a ridere.
“Ho sporcato il lenzuolo... Forse anche il divano...”.
“No preoccuparti, sotto ce ne sono altri due, e sotto questi in mezzo una trapuntina impermeabile”. E però il pene finì di pulirmelo con la lingua.
Poi mi mise la testa su due o tre cuscini, mi disse di tenere la bocca aperta e la lingua fuori. Venne con le gambe aperte a cavalcioni sulla mia testa. Abbassò il bacino finché la fica non fosse proprio sopra la mia bocca e iniziò a strusciarla con ogni tipo di movimento. Voleva la mia lingua dura infilata finché era possibile nella vagina. A me faceva male tutto, bocca, lingua, mento, naso, collo. Mi guardò per dirmi di sopportare. E io sopportavo, volevo sentirla urlare di gioia e di piacere, di goduria, lei che chissà quanto aveva desiderato far giostrare la fica a quel modo su un uomo.
E forse per allietare la mia sofferenza, forse perché la natura quando la lasci fluire ti incanta di stranezze, Helga iniziò, sempre schiacciando la fica che ormai era schiumosa sulla mia bocca, Helga iniziò una specie di canto, un suono onduloso su una volale sola: uhuuhuuuuhuuuuu... Un po’ un lamento, un po’ una meraviglia, un po’ stupore, un po’ l’espressione di un godimento della carne a lungo cercato.
Quando venne del tutto, quando finì quel movimento di pesce d’acqua dolce, Helga si stese tutta su di me e, come le altre volte, mi riempì la bocca di un bacio lungo, acquoso, dolce, amoroso.
Poi su quel lenzuolo stropicciato, macchiato e umido ci abbracciammo e cercammo riposo l’uno sull’altro.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Halga 06. Entrata

Post n°6 pubblicato il 18 Aprile 2008 da schoening

Dopo quell’incontro sul divano, passarono diverse settimane.
Verso la fine di agosto Helga mi chiede in quale giorno poteva venirmi a trovare. C’eravamo sentiti e visti altre volte, ma mai incontrati in quel modo clandestino.
A dire il vero, quella telefonata, quella richiesta, un po’ quasi mi irritava. Non eravamo né amici, né fidanzati e nemmeno amanti. Lei era una che aveva voluto sperimentare il sesso orale in forme estreme, sempre sublimi, alla fine, però quasi da regista di un film erotico che non da donna che si coinvolge nell’unico atto di unione davvero sublime con un uomo: la penetrazione.
Perciò le dissi quando, il giorno e l’orario, come fossi il suo dentista. Senza più quei sussulti che le volte precedenti mi prendevano. Anzi, da qualche giorno avevo conosciuto Sabeth, una ragazza di vent’anni, due occhioni verdi che non mi abbandonavano. Incontrare Helga sarebbe stato sì bello (Sabeth era ancora solo un desiderio), ma un bello non più sopportabile.
Questi i miei pensieri, più o meno, mentre mettevo giù la cornetta.
Ma Helga era Helga. E io non ero il suo dentista, per lei. Infatti era già lì. Lì a suonare alla mia porta.
“Già qui?”
“Sì, ti ho telefonato dal metro. Questo è il giorno giusto. Tu ci sei, io ci sono”.
Non aveva il sorriso come il sole, anche perché la giornata era piovosa e buia. Mi chiese se dovevo andare in bagno. “No”, risposi. “Nemmeno io”.
Iniziò a spogliarsi come fosse una prostituta venuta a farmi visita. Piegava bene tutto e riponeva in ordine ogni cosa su una sedia. Iniziai anch’io a spogliarmi, ma lasciando i vestiti per terra.
Una volta svestiti - il suo volto era sempre intensamente serio - ci avvicinammo e iniziammo ad abbracciarci. Stavolta il bacio lungo e amoroso arrivò subito, come una conseguenza necessaria.
Poi le si staccò da me e si inginocchiò sul letto. Abbassò la schiena e inarcò il sedere, che ancora una volta mostrava in tutta la sua ampia bellezza.
“Vieni qui”, e mi fece segno di avvicinarle il pene alla bocca. Lo imboccò e inumidì con abbondante saliva.
“Ti va questa posizione?”.
“Che cosa vuoi fare?”.
“Solo quello che ci fa capire che io sono una donna e tu un uomo. Maschile e femminile”.
“Helga, che cosa vuoi fare?”.
Un poco si indispettì alla mia domanda. Però comprese che io avevo qualche ragione. Allora si sedette un poco, ma tenendo una mano sul mio pene per mantenerlo teso.
“Sono tre settimane che mio marito mi cerca, spesso anche in piena notte. Vuole essere mio marito. Penetrarmi come facciamo da dodici anni. Ma io ho voluto mantenere la fica in attesa per te. Ora la sento quasi un po’ vergine. È ora il momento giusto”. Fece una pausa. Cambiò posizione per imboccare ancora un poco il mio pene, ma non voleva iniziare una fellatio.
“Tu sei solo il mio terzo uno”. Mi guardò intensamente. “Il primo a diciannove anni mi ha tolto la verginità. Era un mio compagno di studi. Pensa, glielo avevo promesso quando avevo dodici anni, che il mio primo rapporto l’avrei donato a lui. Io volevo ancora aspettare, ma lui stava per fidanzarsi. Così anticipammo. L’abbiamo fatto il 21 marzo, primo giorno di primavera. Ogni 21 marzo, da allora, lo rifacciamo. Nessuno sa niente. Solo quel giorno. Solo una penetrazione casta”.
Non si accorse, ma raccontando mi stringeva con la mano quel mio cazzo ancora più irrobustito dal suo racconto.
“Il secondo uomo è mio marito, incontrato due anni dopo. Ma di lui non ti dico altro”.
Di nuovo mi guardò. “Ora ci sei tu. Ora tu entrerai nella mia fica così come questi due mai hanno fatto. E così come tu mai hai fatto. Penso che la posizione di prima sia la più indicata. All’inizio ti muoverai secondo le mie indicazioni. Poi sarai libero di muoverti come vuoi”.
Lasciò la presa del pene. Lo riempì di nuova saliva. Si rimise in ginocchio a offrirmi come un grande dono ciò che fino allora mi aveva negato.

Cara amica. Qualsiasi descrizione io ti dia, sarebbe non incompleta, ma inutile: ogni donna ama essere penetrata in modo diverso, così come ognuno possiede propri ed esclusivi gusti alimentari. La mia fortuna fu che Helga e io, forse perché abituati negli incontri precedenti ad allenare il gusto della bocca e della lingua, quel pomeriggio suonammo la stessa melodia e mangiammo lo stesso frutto.
Fu una penetrazione quasi solo vaginale. Cambiammo, ma poco, solo alcune posizioni, ma solo per dare al mio pene il modo migliore per esplorare quel lago biondo di fragole e schiuma. Solo una volta Helga mi chiese di entrarle anche dentro l’ano e fu la volta in cui rimanemmo attaccati e immobili per infiniti minuti.
Nemmeno ti dico, mia dolce amica, quanti orgasmi e quante parole ci furono. Non lo ricordo. Ricordo solo che Helga mi aveva fatto provare l’onnipotenza di una penetrazione compulsiva e che sembrava non dovesse concludersi mai.

Dopo due giorni. Helga mi spedì una lettera. “Sono in vacanza”, mi scriveva, “quando torno, mi raccomando, solo birra, fragole e the”. E aggiunse: “Ti sembrerà paradossale, ma io voglio rimanere fedele a mio marito. Lui è il mio unico uomo. Tu sei stato l’unico uomo che me lo ha fatto dimenticare”.
Fino alla fine dell’anno non sono stato capace di invitare una donna nel mio letto. Sabeth non seppe mai perché la feci tanto aspettare. Era perché volevo scongiurare che Helga diventasse l’unica donna da rimpiangere.

FINE

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963