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Post N° 464

Post n°464 pubblicato il 17 Novembre 2008 da quotidiana_mente
 








Andare per lande straniere, ormai non è più un problema. Tranne, forse, per l’aspetto linguistico, ma con un po’ di inglese e un pot-pourri di altre lingue, mi credevo al riparo di ogni problema. Non consideravo, però, che qualcosa può sfuggire. Sempre.

Parafrasando Paolo Conte, potrei scrivere che “…io non parlo il tedesco, scusami, pardon…”, nemmeno una parola. Ho imparato, a Vienna, a dire buongiorno, grazie, arrivederci, per il resto andavo a “braccia” oppure mi affidavo all’inglese. Quel giorno ero intenta a guardare la bellezza del caffè, il pranzo era stato buono, il locale era molto gradevole, la cameriera gentile: tutto perfetto. Avevo individuato il percorso per la toilette; molto semplice. Arrivata nella toilette, ero rimasta stupita non solo dalla pulizia ma della gradevolezza del luogo: lindo, profumato e persino con fiori freschi. Mentalmente, cercavo di ricordarmi come si diceva “che meraviglia!”, mentre pensavo, ho sentito uno strattone alla maniglia della porta. Non ho reagito, intenta com’era a guardare le maioliche bianche e nere con un filo granato a dividerle. Lo strattone si fa risentire e allora decido di abbandonare la mia contemplazione per cedere il posto a chi ne aveva bisogno. E succede il “fattaccio”. Per quanto io strattonassi la maniglia, la porta non si apriva. Ero chiusa in una toilette a Vienna non sapendo come chiedere aiuto in tedesco. Faccio affidamento sulla persona che aspetta dietro la porta, faccio affidamento sul fatto che prima o poi qualcuno si accorgerà dalla mia assenza oppure che il bagno è occupato oltre ogni tempo ragionevole e resto in silenzio. Per quanto mi sforzassi di pensare a “help” che mi sembrava, in fondo, abbastanza internazionale da essere capito, nessun suono usciva dalla mia bocca. Continuavo a cercare, con dolcezza, di aprire la porta ma niente. Una voce femminile, dall’esterno, diceva qualcosa ma, ovviamente, non capivo. Volevo dire, semplicemente: “non capisco”, ma niente. Torno ad immergermi nella contemplazione delle maioliche, fiduciosa com’era sulla voce esterna. Sì, prima o poi qualcosa doveva succedere. Dopo un tempo che è sembrato interminabile, ho sentito una voce maschile che, fermamente, parlava ma io continuavo a non capire. Quando la porta si è aperta, grazie ad un cacciavite, ho stampato sul viso il mio sorriso migliore e ho ringraziato… in portoghese! Eppure avevo imparato a dire grazie, ma nulla, il vuoto si era impossessato del mio unico neurone.

Tornare al proprio tavolo, facendo finta di niente, quella sì che è stata un’impresa ardua.

Pensavo che essere rimasta chiusa in un ascensore, l’aver provato l’ebbrezza di rimanere chiusa in un bagno in terra straniera, più niente di grave potesse più capitarmi. Non avevo preso in considerazione gli oggetti, che secondo me, sono animati da volontà proprie e per dispetto, ogni tanto, danno segno della loro presenza.

Tornata nell’appartamento e avendo già dimenticato l’esperienza del bagno, mi distraggo e l’attaccapanni dove avevo poggiato un cappello cade e la sua caduta viene fermata dal mio mento. Non do peso a questi piccoli episodi e il soggiorno prosegue meravigliosamente. Perché l’aggettivo da me più usato durante il soggiorno viennese è stato “meraviglioso”. Tutto mi sembrava una meraviglia, il pane dai fornai, le paste da forno, i tram, i palazzi, la metropolitana, i viali, le vetrine, tutto mi sembrava semplicemente meraviglioso. Ma non mi voglio dilungare che per quello ci sarà tempo.

Alla stazione prendo l’autobus per andare a casa. Come sempre quando rientro in questa città dopo un’assenza più o meno lunga noto quanto sia trascurata e trasandata, eppure questa città continua a piacermi e mi chiedo il motivo di cotanta negligenza. Dal finestrino vedo le solite foglie coprire il manto stradale e i marciapiedi, noto i soliti graffiti ovunque, le solite pubblicità invadere ogni spazio disponibile, poi non ci penso più perché devo scendere. Scendo alla fermata e subito dopo mi accorgo di aver dimenticato il beauty-case dentro l’autobus. Con uno scatto degno del migliore Carl Lewis, mi precipito verso il bus che ormai è già in movimento. Niente, non si accorge di me, ma l’autobus dietro sì e salgo subito, dicendo all’autista che ho dimenticato un bagaglio nel bus precedente. Lui sorride, come si fa con le persone sbadate, e alla fermata successiva mi apre le porte, con un altro scatto felino salgo sul bus e i passeggeri in coro iniziano ad urlare nella direzione dell’autista: “eccola, eccola, è arrivata”. L’autista mi consegna il bagaglio e si sente in obbligo di dire qualcosa: “mannaggia Signo’, ma dove ce l’ha la testa?”. Volevo rispondere che l’avevo lasciata altrove, che avrei voluto vederlo dopo un viaggio in treno lungo tredici ore. Mi limito a ringraziare e torno sui i miei passi. Mannaggia!

Ammetto che mi piace tornare a casa dopo un viaggio. Mi piace viaggiare ma mi piace anche il rientrare nei “ranghi”, cioè ritrovare i miei gesti quotidiani, quelli legati alla casa. Dopo poche ore, decido di scaricare le fotografie. Prendo la scheda di memoria, l’inserisco nell’apposita fessura per la sua lettura. Questo è quanto avrei dovuto fare. Invece ho inserito la scheda a casaccio, nella prima fessura disponibile. Ovviamente, era quella sbagliata. La scheda decide di andare a spasso all’interno del computer. Non era difficile recuperarla, sarebbe bastato aprire la “scatola” che forma il computer e il gioco era fatto,ma sarebbe stato anche perdere la garanzia.

Al negozio, ogni volta che combino qualche guaio, chissà perché trovo il solito tecnico, quello che, ormai, conosce tutte le mie marachelle e che si diverte a ricordarmele. Lui sostiene che non sono sbadata ma che semplicemente ho un cervello troppo carico per poter fare una sola cosa alla volta, che secondo lui, la mia è una forma di intelligenza superiore e per questa aliena a qualsiasi normalità e che quando vado nel suo negozio è meglio che io stia lontana dai computer perché la mia sovrastruttura energetico-cerebrale potrebbe mandare in tilt tutti i componenti elettronici. Faccio finta di crederci, ovviamente. Ovviamente, non me la prendo, perché seppure lui abbia torto, so che la fretta, la mia, è sempre cattiva consigliera e che sarebbe ora che io impari a fare una cosa alla volta perché farne tante assieme è come non farne nemmeno una, e di sicuro aumentano le probabilità di pasticciare.

Queste sono le papere salienti, ma ne dimentico qualcuna, quelle che il mio pudore (o la mia autostima) ha voluto buttare direttamente nel dimenticatoio.

Vienna è una bellissima città, ma è un’altra storia.


P.S.: il bagno in questione non è quello della fotografia.




 
 
 
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