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... sono fortunata (dicono)

Post n°541 pubblicato il 15 Aprile 2010 da quotidiana_mente






“Vlan, splash”. Era questo il rumore che ho sempre pensato. Sì, un giorno sarebbe successo, avrei preso male un curva oppure avrei frenatoin modo repentino e “vlan, splash”. Anche se il “vlan” prevedeva magari unurto, ma non ci  ho mai veramente pensato. Il “vlan” era riferito alla bici che scivolava ed lo “splash” alrumore del contatto di me con l’asfalto. Invece no, non c’è stato nessun rumore particolare, anzi, non c’è stato proprio niente. Il buio. Ero sulla bici intenta a pedalare visto che il semaforo era diventato verde, e un attimo dopo ero distesa sull’asfalto. No, non c’è stato nessun rumore, niente, il buio più totale tra il momento in cui ero sulla bici e il momento in cui ero distesa sull’asfalto. Non ho nemmeno pensato, in quel momento, a cosa fosse successo, a com’era successo. No. Ho semplicemente sentito un sapore strano in bocca. Eroancora distesa e ho guardato davanti. Ho visto gli occhiali da sole qualche metro più avanti, lo zainetto ancora nel cestino e sempre quel sapore strano in bocca. Poi ho capito. Ero caduta, quello era sicuro. Accanto, ho visto un uomo fermo sullo scooter con il cellulare in mano, stava telefonando. Mi si è avvicinato un altro uomo, che mi ha guardato e ha detto: “hai frenato”, ma non sembrava convinto. Mi sono rialzata e ho risposto che non avevo frenato visto che il semaforo era diventato verde. La zingara, quella che solitamente pulisce i vetri all’incrocio, si è avvicinata e mi ha dato un fazzoletto. L’ho passato sulle labbra e ho visto il sangue. Ecco spiegato cos’era il sapore strano in bocca. Ho capito in quel momento che avevo un dente rotto. L’uomo continuava a fissarmi chiedendomi scusa, poi ha sollevato la bicicletta e l’ha poggiata al muro, sul marciapiede. Piangevo, quello ricordo. Lui mi ha guardato di nuovo e mi ha detto che aveva fretta, che lo stavano aspettando in tribunale e che non poteva rimanere lì. L’altra persona, quella ferma sullo scooter, ha detto:“l’hai appena tamponata, dove vai?”,  ha aggiunto che stava cercando di mettersi in contatto con i vigili urbani ma che era sempre occupato, ci ha dato il numero, ha chiesto se c’era ancora bisogno di aiuto e se ne andato. A turno abbiamo provato a chiamare i vigili, ma quando ci hanno risposto e hanno sentito l’accaduto, hanno chiuso il telefono, così.
Lui continuava a dire che era dispiaciuto, io continuavo a piangere sommessamente dicendo: il mio dente, il mio dente. Lui ha sostenuto che anche lui se l’ero rotto e che era stato ricostruito, a me non importava, perché quello era il MIO dente. Poi mi ha dato il suo biglietto da visita perché doveva andare via, lo stavano aspettando. Mi ha fatto vedere un documento per dimostrare che era lui, che non dava un biglietto fasullo, che mi potevo fidare. Ho preso il biglietto da visita, ma confesso che ho dato un’occhiata molto distratta al documento, presa com’era dal tamponare le labbra con il fazzoletto notando che diventava sempre più rosso.
Se si sente meglio, potrei andare via. Ha detto. Mi sono guardata intorno, ho guardato la bici: “almeno lei non si è fatto niente”, ho bisbigliato. “Non direi, il cerchione dietro è completamento storto”, solo in quel momento ho notato che sì, tutta la parte posteriore della bici era storta. Ci siamo salutati e lui se ne andato. Ho avvertito l’ufficio di quanto accaduto,dicendo che stavo andando a casa e che poi avrei fatto sapere altro. Sono riuscita ad avvicinare la bici il più possibile a casa, l’ho legata e… mi sono guardata intorno. Volevo solo rinfrescarmi il viso, pulire le ginocchia che sentivo bruciare sotto ai pantaloni, integri. Volevo cose così, volevo dell’acqua. Sul portone di casa, ho incontrato una vicina, la quale saputo dell’accaduto ha iniziato a maledire tutti i motocicli dimenticando che anche lei usa abitualmente lo scooter per spostarsi. “Di sicuro quel mascalzone non si è fermato”. “No, no, si è fermato”. E’ rimasta di stucco. A me sembrava del tutto normale che si fosse fermato. Mi saluta velocemente e se ne va. Squilla il cellulare, era puzzola che saputo dal Gran Capo quanto accaduto, si offriva per accompagnarmi al pronto soccorso. Solitamente sono ritrosa, non mi piace averlo tra i piedi, ma questa mi sembrava la volta giusta per accettare la sua offerta.
In macchina inizia a parlarmi delle elezioni alle porte, di previsioni di vittoria e ancora oggi l’ho ringrazio perché mi ha distratta. Difronte al pronto soccorso, e se ne va, aggiungendo a mo’ di saluto che: “èstata fortunata, poteva andare peggio”. Sì, poteva piovere, ho pensato. Lo so èuna battuta scontata, ma a quella ho pensato.
Entro nel pronto soccorso, una signora mi fa accomodare, inizia a compilare una scheda prendendo i dati dalla mia tessera sanitaria e mi chiede di raccontarle quanto è avvenuto. Alza le spalle e dice: “ovviamente non si è fermato”. No, ho risposto, si è fermato. Tardi, ma si è fermato. Nel senso che si è fermato dopo avermi tamponata, si fosse fermato prima non sarebbe successo. Lei mi guarda e sostiene che sono “beata visto che ho ancora voglia di scherzare”. Scherzare, io? Se lo dice lei. Mi dà una garza da mettere sul viso e mi prega di aspettare nella stanza accanto, perché dovrò aspettare, mica che ci sono solo io. Aspetto. Dopo pochi minuti qualcuno pronuncia il mio cognome. Faccio sempre fatica a riconoscere il mio cognome. Di cognomi ne ho due (come tutti i portoghesi), solitamente uso il secondo, ma in casi come questi, la burocrazia (giustamente) usa il primo.
Seguo l’infermiera e mi accomodo su un lettino in un’altra stanza. Racconto per l’ennesima volta quant’è avvenuto e di nuovo viene fatta la stessa considerazione: “ovviamente il conducente del motociclo non si è fermato”. Non è mai una domanda. La mia risposta è, ovviamente, la stessa: sì,si è fermato.
La dottoressa chiede che le stringo le mani, rispondo che mi fa molto male il dito medio della mano destra ma che proverò. Stringa con tutte le forze, mi incita. Stringo. Mi chiede di allungarmi di nuovo sul lettino e inizia a piegarmi le gambe, mi fanno male le ginocchia, sostiene che sono stata fortunata ad avere gli scarponcini perché mi hanno protetto le caviglie. Dice che verrà un’infermiera a disinfettarmi il viso e le ginocchia, anzi mi prega di abbassare i pantaloni. Io non ci penso. Inizio a sbottonare e… ci ripenso.
Mia madre ha sempre sostenuto che si deve uscire di casa inperfetto “stato”, perché non si sa mai cosa può succedere lungo la giornata. Bene, mia madre ha sempre ragione e questo è, ormai, assodato.
Cavolo, ho delle mutandine di un colore improponibile. Ci avevo anche pensato al momento di indossarle. Ma avevo anche pensato che non dovevo mica farle vedere e che dunque andavano più che bene. Ora ci ripenso. Bene, un cavolo! Con un lavaggio sbagliato (forse il secondo in tutta la mia carriera di casalinga) le mutande sono diventate di un fucsia piuttosto pronunciato. Beh, penso, va di moda il viola, non è detto che il fucsia sia così démodé. Ma sì, avevo voglia di incoraggiamenti. Quando spunta l’infermiera, però, le chiedo scusa per la mise improponibile. Lei mi guarda e sorride dicendo: non immagina cosa vediamo, le sue mutande rosa shocking sono il minimo. Stavo quasi per specificare che erano fucsia, ma in fondo non mi sembrava il caso di fare la pignola. Mi disinfetta le ginocchia e sento lo stesso bruciore che provavo da bambina quando mia madre compieva gli stessi gesti. Mi tornano in mente tutte le volte che ho sentito quell’odore e quel fastidio. Quante volte mi sono sbucciate le ginocchia? La prima che ricordo era quando ho imparato aandare in bicicletta. Appunto. Ma era già successo tante altre volte. Ho persino delle foto con le ginocchia incerottate. Mi disinfetta anche il viso e lì non ho nessun ricordo. E’ stata fortunata, aggiunge, le poteva andare davvero peggio. Non dico niente, ormai…
Vado a fare una lastra alla mano e l’incaricata non parla. Poco tempo dopo la lastra conferma che non ho niente di rotto alla mano destra. La dottoressa che ha iniziato la visita mi richiama per chiudere la pratica. Ma come? Non ero quella fortunata e già si vogliono sbarazzare di me? Mondo ingrato. “ha fatto un antitetanica negli ultimi anni?". Rispondo di no. “La vuole?”. Rispondo di no. “E’ informata?”. Rispondo che se niente è cambiato, so che è un derivato del sangue, so anche che se nei prossimi venti giorni i miei membri non diventeranno rigidi, avrò scampato il pericolo. “E’ informata”, risponde il medico, “ma è mio dovere dirle che essendo finita sull’asfalto, l’antitetanica potrebbe esserle utile”. “La farebbe a sé stessa?” e sono io a chiederlo. Lei non risponde il che significa che faccio bene. Il pericolo, mi disse un altro medico in un altro pronto soccorso anni prima, non è l’AIDS, ormai quello è facile da individuare, ma è tutto quello che non si sa che potrebbe essere pericoloso, le varie epatite e altri virus. Quella volta mi ero tagliata la pianta di un piede con un vetro, entrando in un lago. Sono cose che capitano.
“Dovrebbe fare un salto al pronto soccorso odontoiatrico, non faranno niente di speciale, ma sarebbe bene che le venisse visitata anche da loro”. Grazie, saluto e me ne vado. Non ci avevo proprio pensato al prontosoccorso odontoiatrico e allora ci vado. Ci vado con gli occhi al suolo, perché ancora non mi sono vista, ma posso immaginare l’aspetto. Labbro superiore escoriato, mento escoriato e incisivo superiore rotto… potrei sembrare una che va in giro a fare a botte, anzi a prendere le botte. Una che gira nei peggiori bar di Caracas. Ah, quella era una pubblicità, però mi viene da sorridere lo stesso. E sorridere non mi fa bene per niente, per via del labbro. Che poi da sorridere non c’è proprio niente, o forse sì, perché sono stata fortunata. Che dovevo morire per avere un minimo di compassione?

… che poi ho sempre pensato che, prima o poi, avrei raccontato tutto questo ridendo, ma mi rendo conto che ancora non a farlo. Non per ora. E questa “storia” è ancora in itinere. Come? Troppe puntate ne potrei scrivere. Magari lo farò. Ma sì.









 
 
 
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