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Post n°174 pubblicato il 29 Marzo 2007 da languageisavirus001
Quell’estate l’avevo passata più che altro leggendo e facendo il cameriere in una caffetteria, concedendomi un unico lusso: andare a vedere qualche concerto. Solo roba anni ottanta e non molto impegnata, tipo The Cars o Stray Cats. Alla domenica invece ero entrato in questo giro di pakistani, indiani e cingalesi che si trovavano per giocare a cricket al parco. Il fatto è che un giorno stavo prendendo il sole ai bordi di quello che consideravano il campo da gioco quando mi arrivò tra i piedi questa pallina di pelle, che educatamente gli tirai indietro e subito mi invitarono a gran voce ad unirmi a giocare visto che, a parer loro, ero un lanciatore nato. Nelle settimane passate in loro compagnia più che delle regole del cricket, che mi appassionavano relativamente, mi ero lasciato sedurre dal cibo. Sì perché se è vero che quelle partite erano senza fine, duravano giorni interi e ci si dava appuntamento alla settimana seguente per poterle finire, c’erano delle vere e proprie pause, regolamentate, per il pranzo ed il tè in cui i giocatori, me compreso, si rifocillavano con tutto quel ben di Dio che portavano e offrivano dimostrando una grande ospitalità. Tra riso briany con carne di montone, curry, kebab, zuppe, pollo e agnello, contorni di verdure mai viste prima e spezie multicolore, c’era da perdersi in un mare di sapori ed odori. Si mangiava a gambe incrociate su delle coperte stese per terra, quasi sempre senza posate o con la sola mano destra, visto che la sinistra era considerata impura e se qualcuno ti chiedeva se ne volevi ancora, ti conveniva solo dire di sì. Gli unici inconvenienti erano due: quando scoppiavano le liti tra le diverse etnie (più che altro pakistani e indiani) dove io, unico bianco, mi vedevo costretto a fare da paciere, tra insulti che volavano in chissà quali lingue e quando si toccava l’argomento religione. Erano rappresentate le più diverse confessioni e così capitava che mi venisse chiesto di andare ad assistere ad una cerimonia presso il tempio hindu piuttosto che in una moschea. In quel caso io sorridevo e basta senza dire nulla, con questa sensazione di pudore e timidezza, ma anche con la certezza che, se avessi iniziato a parlare, sarei andato avanti per sempre con tutti i miei dubbi ed il mio risentimento. Con settembre e le prime pioggie le partite di cricket furono sospese sino alla primavera successiva e le mie frequentazioni con i miei nuovi amici si diradarono sempre più. L’unico che vedevo con una certa regolarità era Kumar, indiano titolare di un ristorantino dove mi faceva mangiare a metà prezzo. A metà settembre invece abbandonai la caffetteria per andare a lavorare in un’agenzia pubblicitaria. Il mio stile ridondante e il mio linguaggio apocalittico non erano però particolarmente ben visti, soprattutto quando scrivevo annunci che invece di essere concentrati in due righe si prolungavano per tre pagine intere. La sintesi non è sempre qualità, dicevo io, ma i titolari la pensavano diversamente ed è così che dopo nove settimane mi ritrovai senza un lavoro.
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