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Disdetta (Pirandello)

Post n°659 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Perbacco!
E rimettendomi in capo il cappello mi volto a guardar la bella sposina tra il fidanzato e la vecchia madre.
Dri dri dri... ah come strillavano di felicità sul lastrico della piazza assolata le scarpe nuove del mio amico! E la fidanzata, con l’anima tutta lucente e ridente negli occhi, nelle guance infocate, nei denti bianchissimi, sotto l’ombrellino di seta rossa si faceva vento vento vento, quasi per smorzar le vampe del suo pudor di fanciulla, la prima volta che si mostrava così per via alla gente con a fianco il promesso sposo. Dri dri dri...
Rimettendosi in capo il cappello (piano, che la pettinatura non si guastasse) si voltò anche lui, l’amico mio, a guardar me. O che c’entrava? Mi vide fermo in mezzo alla piazza, e chinò il capo con un sorriso impacciato. Risposi con un altro sorriso che voleva dire: - Mi rallegro! Mi rallegro!
Fatti pochi passi, mi volto di nuovo. Non m’aveva colpito tanto la figura simpatica ed elegante della fidanzata, quanto l’aria, dell’amico mio, che non vedevo più da circa tre anni. O non si volta anche lui a guardarmi per la seconda volta?
Che sia geloso? - pensai, incamminandomi subito a capo chino. - Ne avrebbe ragione: è proprio carina... Ma lui lui!
Non so, mi era sembrato anche più alto di statura, Prodigi dell’amore! E poi tutto ringiovanito, negli occhi specialmente, nella persona quasi carezzata da certe cure affettuose di cui non l’avrei mai stimato capace, conoscendolo nemico di quegli intrattenimenti che ogni giovanotto suole avere con la propria immagine per ore e ore innanzi a uno specchio. Prodigi dell’amore! Bravo Tito Bindi!
Dov’era stato egli in questi ultimi tre anni? Qui a Roma, prima, abitava in casa di Renzi suo cognato, ch’era poi il vero amico mio. Infatti egli, per me, propriamente, si chiama più «il cognato di Renzi», che Bindi di casa sua. Era partito per Forlì due anni avanti che Renzi lasciasse Roma, e non l’avevo più riveduto. Ora, eccolo a Roma di nuovo, e fidanzato.

Ah, caro mio, - seguitai a pensare tu non fai più certamente il pittore! Dri dri dri... le tue scarpe strillano troppo. Di’ che ti sei voltato ad altro mestiere, il quale ti deve fruttar bene. Come pittore, abbi pazienza, amico mio, eri somaro; bel giovine, ma somaro. Hai cambiato strada? Bravo Bindi! Vai lodato anche di questo.

Lo rividi due giorni appresso, quasi alla stess’ora, di nuovo insieme con la promessa sposa e con la futura suocera. Altro scambio di saluti accompagnati da sorrisi. Inchinando lieve e pur con tanta grazia il capo, mi sorrise anche la sposina.
Evidentemente Tito - pensai - le ha narrato la mia famosa avventura con sua sorella, la moglie di Renzi. E figuriamoci come e quanto avrà riso a le mie spade la cara sposina, e come sarà stato felice lui di averla fatta ridere così.
Per le due famiglie Renzi e Bindi e loro affini e amici e conoscenti io son condannato a essere argomento di riso chi sa fino a quando! Sarò morto, e Renzi vecchione, nel canto del fuoco, conversando con la moglie Secchissima (auguro come si vede a entrambi di campar più di me), le dirà: - Pitagora, ricordi? - E tutti e due, senza denti, rideranno ancora di me... È una bella sodisfazione!
Renzi mi chiama Pitagora perchè non mangio fagioli. Mi chiamerà pure Pitagora la cara sposina, suppongo... Cose che fan tanto piacere!
Ma che poi ci sia molto, proprio molto da ridere nell’avventura mia, dico la verità, non so vederlo. Si tratta semplicemente di questo. Sei anni fa (mica un giorno!) la mia disgrazia volle che per tanti e tanti giorni di seguito dovessi inconttar sola per via una bellissima signora, dada quale, fin dal primo vederla, tah! - ero rimasto straordinariamente colpito. È chiaro però che dell’impressione fattami si era accorta anche lei, in prima, e che anche lei anzi aveva dovuto rimanerne colpita così che, due o tre giorni dopo, scorgermi improvvisamente e lasciarsi cader di mano il porta fazzoletti fu tutt’uno. Io, naturalmente, interpretai a modo mio quel turbamento; supposi che l’oggetto le fosse caduto ad arte, e mi precipitai a raccoglierlo e glielo porsi con l’accompagnamento immancabile d’un inchino sorridente e d’una frase graziosa.
Chi non avrebbe fatto così? E fin qui, mi pare, non c’è nulla da ridere. È vero tuttavia, e non lo nego, che ella, a le mie parole, impallidì in un modo che mi parve anche allora eccessivo, e che mi ringraziò del piccolissimo servigio resole con un: - Insolente! - ma pensai: - Insolente! dunque ti seguo!

La seguii; ella si sentì inseguita: tanto che, più volte, inquieta, volse rapidamente il capo indietro a guardare e alla fine, non potendone più, salì in una vettura e via. Io, cocciuto, salto in un’altra dico al vetturino: - Dietro a quella, a qualche distanza! - Si va su pe’ quartieri Ludovisi, poi, in Via delle Finanze, la vettura della signora s’arresta; la vedo smontare, pagare, vedo la casa in cui entra. Ma abita davvero colà? o vi abita qualche sua amica? Se è così penso - tra poco discenderà. Aspettiamo. E poi può darsi che or ora s’affacci a qualche finestra. Aspettiamo.
Licenzio la vettura e mi metto a passeggiare innanzi alla casa alzando di tanto in tanto gli occhi alle finestre. Passa un quarto d’ora: niente! Invece bel bello mi vedo venire incontro per la stessa via Quirino Renzi, che conoscevo da poco tempo.
Ah ci vuol poco, lo so, a darmi dell’imbecille adesso, dopo il fatto - bella forza! Che ragione avevo io allora di supporre che quella signora poteva essere la moglie di Renzi, se non sapevo neppure ch’egli fosse ammogliato?

- Che fai qui? mi domanda lui.

Rispondo ridendo:

- Aspetto...

Lui strizza un occhio:

- Qualche avventura?

- No, ti giuro, un amico coi calzoni.

Lo vidi entrare, è vero, nello stesso portone dov’era entrata lei, ma quella, perdio, era una torre, una casa a sei piani. Ammesso che Renzi fosse ammogliato (ripeto non lo sapevo); ammesso che la signora fosse una legittima moglie (e stavo nell’idea che non fosse), in quella casa dovevano abitare per lo meno venti mariti: giusto il Renzi doveva essere?
Ma la probabilità che lui potesse entrarci in qualche modo non mi passò allora per il capo, nè anche lontanamente. Seguitai ad attendere ancora un pezzo, poi me ne andai senz’alcun sospetto della commedia che marito e moglie avevano architettata per punirmi innocente!
Eravamo insieme il giorno dopo io, Renzi e l’amico Barbarelli, anche lui ora scomparso. Fino, il Renzi! S’era procurato in persona del Barbarelli il prologo della commedia sapendo che questo ottimo giovane aveva, e non so se ha ancora, il vezzo di sospirar comicamente: - Ahimè! - dietro ogni bella donnina. Infatti, ne passa una, ed ecco Barbarelli emettere il suo sospiro. Allora, subito Renzi:

- Vedi? - gli dice - io, al posto di quella signora, parola d’onore, t’avrei lasciato andare un solennissimo schiaffo a edificazione di tutto un popolo.

Barbarelli sorride:

- Ma io sospiro per conto mio... Non è più permesso neanche di sospirare vedendo una bella signora?

Lascia andare! - incalza Renzi. - A Roma siamo ridotti al punto che una povera donna non può più uscir sola per via. È una vergogna! Giusto jersera una signora, amica di mia moglie, che abita su, al piano superiore, nella stessa casa dove abito io, ci narrava, vi assicuro proprio con le lagrime agli occhi, di un affronto patito nella stessa giornata. Schiaffeggiare, schiaffeggiare! - le ho detto io. - Lei, signora mia, doveva voltarsi e, al cospetto di tutta la gente, appioppare un sonoro schiaffo a quel mascalzone: - Le ho detto insolente... - m’ha risposto lei. Ah sì, ci vuol altro per voi, caro Barbarelli! Pitagora, tu che ne dici?

Io? Figuratevi come ero rimasto io. Aspettai che Barbarelli ci lasciasse, e poco dopo domandai al Renzi:

- Di’ un po’, come si chiama quella signora, amica di tua moglie?

- Perchè?

- Vorrei saperlo...

- Un’elettissima signora! - esclama Renzi. - È francese, ma da parecchi anni in Italia, si chiama Eulalia Dupuis...

E mi sciorina lì per lì una storia complicatissima e dolorosa, certamente combinata avanti (non stimo Renzi capace d’una improvvisazione di quel genere): il marito della signora morto per stravizi, dopo averla fatta soffrire crudelmente per sei anni; liti per l’eredità d’uno zio straricco con un cugino dissoluto aspirante alla mano di lei; persecuzioni, disperazione; fuga in Italia, dove la disgraziata signora, in attesa che la lite ancora pendente si risolva, è costretta a vivacchiare impartendo lezioni di lingua francese.
Confesso (trionfa, o Renzi!) che questa storia mi commosse tanto, che provai rimorso di quel che avevo fatto il giorno avanti. E poiché Renzi stimò opportuno di ripeter l’affronto di quel mascalzone ch’ero io, aggiungendo tra gli altri particolari che la signora, al suo consiglio di schiaffeggiare, gli aveva risposto che di gran gusto l’avrebbe fatto, se ne avesse avuto il coraggio.

- Davvero? Ci avrebbe gusto? - proruppi. - Ebbene se lo passi! Senti Renzi: quel mascalzone sono io.

- Tu? - E sgranò tanto d’occhi dalla meraviglia, il commediante!

- Io, io, sì: vedi che mi accuso... Ieri ti ricordi? tu mi hai visto...

- Ah, l’hai finanche inseguita?

- Sì, sì, confesso che ho scambiato quella signora per... tu m’intendi.

Renzi si fermò di botto a guardarmi; ma seppe contenersi; ingoiò la pillola e sghignò:
Perdio, che occhio fino e che fiuto!

- Hai ragione... Sono stato uno sciocco, anzi peggio... Ma tu sai, Renzi mio, ch’io piglio fuoco come uno fascio di paglia. Che penseresti, se ti dicessi che son mezzo innamorato, sul serio, di quella signora? È francese, hai detto? sarà donna di spirito... Ebbene, senti: voglio farmi dare lo schiaffo che tu le hai consigliato. Trova tu il modo; io poi troverò il modo di farmi perdonare.

E così il topolino andò a porsi da sè tra le granfie del gatto appostato. Il giorno dopo Renzi venne a dirmi ch’egli aveva ottenuto dalla signora la grazia di ricevermi quella sera stessa e che l’avrei trovata ben disposta a perdonarmi. Il brigante s’era messo d’accordo con una vecchia signora che abitava al piano di sopra la quale si era acconciata a rappresentar la parte di zia deva finta signora Eulalia Dupuis.
E la sera stessa, verso le otto, eccomi innanzi alla porta di lei, con la carta da visita in mano, già pentito, ma troppo tardi, dell’impiccio in cui m’ero messo. Le mie intenzioni? i miei progetti? Visto che la mia parte nella commedia era quella de l’imbecille, e che il Renzi e la sua signora avevano lavorato un bel po’ di fantasia per procurarsi vita natural durante quest’argomento di riso, ho voluto finanche dichiarar loro in seguito quali fossero le mie intenzioni nel recarmi a chieder perdono alla signora Dupuis. Ci avevo pensato nella notte e avevo finito per concludere: - Se tutto andrà bene e sarà sì, butto via quell’aula che non mi piace per niente e la chiamerò Lia, Lia! Lietta! bel nome... E me l’ero vista lì, accanto, nel letto: moglie, Dio ne liberi e scampi!
Ah come parla bene il francese la moglie di Quirino Renzi! E come fu amabile quella sera la signora Eulalia Dupuis! Tanto amabile, che, a un certo punto - figuratevi - non volendo ella darmi lo schiaffo che insistentemente io, già mezzo ebro, le chiedevo (eravamo soli nell’umile salottino della vecchia signora), le chiesi invece un bacio. Una donna che a tal richiesta si mette a ridere, non vi sembra una donna che vi dica: baciatemi? Ebbene, così feci io; ma ahimè, senza sentire nell’eccitazione, che mentre la baciavo ella divincolandosi strillava:

- Quirino! Quirino!

E Quirino irruppe nella stanza ridendo:

- Ah questo è un pò troppo, perbacco!

La mia faccia, in quel punto, s’immagina: non si descrive. Ma ora io dico, sì, ci sarà da ridere non lo nego: è un fatto però, caro Renzi, che tua moglie io l’ho baciata.

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NOVELLE PER UN ANNO - 1938 - "APPENDICE" - TESTI ESTRAVAGANTI

33. Disdetta (Continuazione e fine) (1898)

 

 

«Ariel», anno I, numero 13, 14 marzo 1898. Fernando [pseudonimo di Luigi Pirandello]

 


 

L’ho scontato, quel bacio, è vero; lo sconto tuttavia: ma l’ho baciata, ripeto.
Gli anni che Renzi passò a Roma, dopo il mio sciagurato equivoco, furono per me tanti anni di tortura. Marito e moglie vollero che frequentassi assiduamente la casa, e s’intende! Potevano rinunziare al divertimento che offrivo loro? Mi avevano, per così dire, vestito di ridicolo; dovevano rifarsi delle spese dell’abito, e del bacio.
E la signora Renzi fu chiamata Tupì, cara Tupì, dal marito, perchè pare che io pronunciassi così il cognome Dupuis, assunto da lei nella commedia. Il francese (non me ne vanto) lo conosco discretamente, ma forse lo pronunzio male: il naso non mi suona bene, un po’ intasato, come l’ho sempre. E Pitagora e Tupì fu il grazioso titolo d’un brutto scherzo comico in versi martelliani perpetrato da Quirino per render famosa negli annali della famiglia la memoria dell’avventura. Versi ZOppl ce n’erano parecchi, quaranta su cento per lo meno, ma che importa? Anche la gobba del figlietto sembra carina al padre; e Renzi ci teneva tanto a quella sua birbonata e la leggeva a tutti e la comentava in mia presenza; e tutti ridevano e ridevo anch’io, come una lumaca al fuoco.
V’immaginate poi l’imbarazzo mio, specialmente nei primi tempi di fronte alla signora? Quella donna sapeva bene, perdio, quanto mi piacesse le avevo fatto la mia brava dichiarazione d’amore (imbecille!), ero anche arrivato più in là, e avevo per giunta vagheggiato un’intera notte l’idea di farne la compagna della mia vita. E gli occhi, nel guardarla (o tentazione!) mi andavano sempre lì, nel posto in cui, tra lo schermirsi di lei, era caduto il mio bacio: su la guancia destra, presso l’occhio. E impallidivo.
Non è vero, domando io ora che non c’è poi tanto da ridere, in tutta questa storia? Eppure, ecco lì Tito Bindi e la sposina: saluti e sorrisi espressivi quasi ogni giorno. E anche la madre, la futura suocera, bruttò; arcigna vecchia, mi sorrideva ora.
Avrei voluto imbattermi qualche giorno da solo a solo nel Bindi, per domandargli se la presente felicità non gli offrisse alcun’altra cagione di riso, e in questo caso compatirlo ma non mi venne mai fatto. Desideravo inoltre da lui qualche notizia di Renzi e della signora.

Ma ecco, un bel giorno, arrivarmi da Forlì questo telegramma: «Brutti guaj, Pitagora! Sarò a Roma domattina. Pregoti accogliermi stazione, ore 8.20.» Firmato Renzi.
O come! pensai - ci ha qui il cognato, e vuol essere accolto da me? Feci su quel «brutti guaj » un mondo di supposizioni, tra le quali la più ragionevole mi parve questa: che Tito stesse per contrarre un pessimo matrimonio, e che Renzi venisse a Roma per tentare di mandarlo a monte.
Dopo circa tre mesi di saluti e di sorrisi confesso che per quella sposina nutrivo già un’antipatia irresistibile e qualcosa di peggio per la vecchia, arcigna madre.
Il domani, alle otto, ero alla stazione. E ora giudicate voi, se io non son davvero perseguitato da un destino buffone. Arriva il treno, ed ecco Renzi al finestrino d’una vettura: mi precipito... ah, maledizione! le gambe mi si piegano, mi cascano le braccia, come se qualcuno a un tratto mi avesse dato un gran pugno su gli occhi...

- Ho con me il povero Tito... - mi fa Renzi additandomi pietosamente il cognato!

Tito Bindi, quello lì? Come? E chi avevo io dunque salutato tre mesi per le vie di Roma? Eccolo là, Tito! Ah, Dio mio, in quale stato ridotto!

- Tito, Tito... ma come!... tu... - balbetto.

Egli mi butta le braccia al collo e scoppia in pianto dirotto... Perchè? Guardo a bocca aperta Renzi. Mi sento impazzire. Ma Renzi mi accenna con una mano alla fronte e sospira, chiudendo gli occhi, come per dirmi: «È leso di mente... ». Chi? lui, io o Tito? Chi è leso di mente?

- Su, via, Tito, sii buono! - fa Renzi al cognato. - Aspetta un po’ qui tieni d’occhio queste valige... Io vo con Pitagora a ritirare il tuo baule.

E, andando, mi narra sommariamente la storia miseranda del povero cognato, che da circa due anni e mezzo aveva preso moglie a Forlì: gli eran nati due bambini uno dei quali dopo quattro mesi era accecato; questa disgrazia, l’impotenza di provvedere adeguatamente con l’arte sua ai bisogni della famiglia, le continue liti con la moglie sciocca ed egoista gli avevano sconcertato il cervello. Ora Renzi lo conduceva a Roma per farlo visitare dai medici e divagarlo un po’.
Se non avessi visto con gli occhi miei Tito ridotto in quello stato, avrei senza dubbio creduto che Renzi volesse giocarmi qualche altro tiro. Tra lo stordimento e la pena gli confesso allora il nuovo equivoco in cui ero caduto, come io cioè, fino al giorno avanti, avessi salutato Tito promesso sposo per le vie di Roma. Renzi si mette a ridere.

- T’assicuro! - gli faccio io. - Tal quale! Tito purus et putus! Da tre mesi ci salutiamo e ci sorridiamo: siamo divenuti amiconi... Ora sì, ora noto la differenza! Ma perchè Tito, poveretto, s’è ridotto in quello stato... Quello che saluto io quasi ogni giorno è invece Tito com’era prima che partisse per Forlì, tre anni or sono... Figurati l’impressione che mi ha fatto vederlo così, ora, dopo averlo veduto jeri, verso le quattro, felice e raggiante con la sposina accanto...

La mia disdetta vuole che di quello che sento io nessuno mai debba o voglia tener conto: l’impressione provata da me alla vista del povero Tito era dolorosa, è vero? ebbene Renzi il cognato stesso, innanzi al bagagliajo, si teneva i fianchi dai troppo ridere. E poco dopo, per distrarre il malato, gli volle raccontare quest’altra avventura mia. E ci ho gusto: ne nacque quel che ne nacque.
Il poveretto, alienato. rimase in prima stranamente colpito dal mio abbaglio; ci lavorò su un pezzo con la fantasia sbalestrata, durante il tragitto dalla stazione all’albergo, e alla fine, afferrandomi un braccio, con tanto d’occhi sbarrati, confitti nei miei, mi gridò:

- Pitagora, hai ragione!

Io mi spaventai; mi provai a sorridergli:

- Che cosa, caro Tito?

Hai ragione! - ripetè egli senza lasciarmi, ilarandosi in volto. - Non ti sei ingannato! Quello che tu saluti sono io, Pitagora, proprio io, che non ho mai lasciato Roma; io giovane, bello, libero e felice, come tu ogni giorno mi vedi e mi saluti... Ah sì sì, abbiamo fatto un brutto sonno, Quirino mio! Dammi un bacio! Io non ho moglie, non ho figliuoli... Qui c’è Pitagora che te lo può dire... È vero Pitagora? È vero che tu m’incontri ogni giorno per le vie di Roma? E che faccio io a Roma? Dillo a Quirino... Faccio il pittore, ad onta della gente cretina che non mi vuol mai comprare un quadro... Ma non importa! Viva la gioventù! Noi due siamo scapoli... ancora scapoli...

- E la sposina? - mi lasciai scappare disgraziatamente, senza avvertire che Renzi, per prudenza, poco fa, nel raccontargli l’equivoco, aveva tralasciato questo particolare.

Il volto di Tito s’abbujò a un tratto. Mi riafferrò, questa volta per tutt’e due le braccia:

- Come! Prendo moglie un’altra volta?

- Ma che! - gli faccio io, subito, a un cenno di Renzi. - Ma che, caro Tito! So bene che tu scherzi con quella fanciulla...

- Scherzo? e faccio male! malissimo! - incalzò Tito. - Non bisogna scherzare... Si comincia sempre così, Pitagora mio! E poi... e poi...

Scoppiò di nuovo in pianto, coprendosi il volto con le mani. Invano io e Renzi cercammo di quietarlo, di consolarlo: - No, no! - ci rispondeva egli. - Se prendo moglie anche qui a Roma, che sarà di me? Vedi come mi sono ridotto a Forlì, caro Pitagora? A ogni costo a ogni costo bisogna impedirlo, subito! Anche lì ho cominciato scherzando...

- Ma noi siamo qui per pochi giorni, - gli disse Renzi. - Il tempo di contrattare con due o tre signori per l’acquisto dei tuoi quadri, come s’era rimasti. Ce ne torneremo subito a Forlì...

- E non giova a nulla! - rispose Tito con un gesto disperato delle braccia. - Ce ne torneremo a Forlì, e Pitagora continuerà pur sempre a vedermi qui a Roma... Né può essere altrimenti! Perchè standomene lì, io vivo sempre a Roma, Quirino mio, sempre. Negli anni miei belli, scapolo, libero, felice... come Pitagora appunto m’ha visto, jeri stesso, è vero?... Eppure jeri noi eravamo a Forlì: vedi che non dico bugie...

Commosso, esasperato Quirino Renzi squassò il capo e strizzò gli occhi per frenar le lagrime: fin adora la pazzia del cognato non gli si era rivelata in così disperate proporzioni.
Lo conducemmo fuori per divagarlo; ma per via, man mano che egli si calmava riconoscendo i luoghi, un’inquietudine angosciosa s’impossessava di me. Se per disgrazia - pensavo - ci avvenisse d’imbatterci in quell’altro! E la mia inquietudine cresceva di punto in punto, nel vedere che Tito già in preda a un’affliggente gaiezza, girava gli occhi di qua e di là per ogni verso, instancabilmente. Lo riconoscerebbe senza dubbio, - dicevo tra me guardandolo: - La somiglianza è straordinaria! E poi con quelle scarpe che strinano a ogni passo quel bestione lì fa voltar tutta la gente... - E mi pareva di sentir da un momento all’altro dietro a me il dri dri dri di quelle scarpe.
Poteva il caso non avvenire? Manco a dirlo! Avvenne il domani, quando meno me l’aspettavo. Renzi era entrato in un negozio, e io e Tito lo aspettavamo innanzi al Caffè Aragno. Io guardavo impaziente il negozio donde Renzi doveva uscire, e ogni minuto d’attesa, lì fermi, mi sapeva un’ora: a un tratto mi sento tirar per la giacca e vedo Tito con la bocca aperta a un sorriso muto di beatitudine e con due grosse lagrime che gli gocciavano dagli occhi chiari e lucenti. Lo aveva scorto! e me l’additava lì, a due passi, solo, fermo su lo stesso marciapiedi.
Mettetevi un po’ una volta nei panni miei, senza ridere! Quel signore, nel vedersi guardato e additato a quel modo, si turbò; ma poi, accorgendosi di me, mi salutò al solito. Io mi provai a fargli un cenno, mentre coll’altra mano cercavo di portarmi via Tito. Non ci fu verso!
Per fortuna colui aveva compreso il mio cenno e sorrideva; aveva però compreso soltanto che il mio compagno era pazzo: non si era affatto riconosciuto nelle fattezze di Tito, mentre questi, sì, subito, in quelle di lui. E gli si era accostato e lo contemplava estatico e lo accarezzava nelle braccia e nel petto, pian piano, susurrandogli: - Come sei bello... come sei bello... Questo è il nostro caro Pitagora...
Quel signore mi guardava e sorrideva nell’imbarazzo; io per tranquillarlo gli sorrisi addolorato. Non l’avessi mai fatto! Tito notò quel nostro sorriso e, sospettando subito qualche inganno, si rivolse minaccioso a colui:

- Non prender moglie, imbecille: mi rovini! Vuoi ridurti come me? Lascia quella ragazza, non ci scherzare... Tu non hai esperienza...

E giù un diluvio di parole, tra gesti concitati... La gente cominciava a far siepe intorno quando Renzi accorse e a viva forza si trascinò via il cognato.
Vi risparmio le risa di quel signore, allorchè io, poco dopo, gli spiegai ogni cosa. Eppure, non so, mi parve ch’egli ridesse male, che non ridesse tanto di cuore... Quasi ferito nell’amor proprio, mi domandò:

- Ma mi somiglia proprio tanto?

- Ah ora no! - gli risposi. - Ma se Lei lo avesse visto prima, tre anni fa, scapolo, qui a Roma...

- Speriamo allora, che fra tre anni, - fece il signore - io non debba ridurmi come lui.

- Ah, no davvero! - gli augurai io. - Intanto guardi: finora io La ho salutata per Tito Bindi... vorrei aver l’onore, or che l’equivoco è chiarito, di salutarla col Suo vero nome. Eccole la mia carta da visita.

E sono stato sciocco una volta di più!
Prima almeno questo signore rideva di me senza sapere come mi chiamassi. Ora lo sa, e può dire: Rido proprio di te, Camillo Bandoni!
E meno male, alla fin fine, che non mi chiama Pitagora anche lui!

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