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Mariù Pascoli

Post n°1446 pubblicato il 22 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Due donne e un uomo: una azzardata combinazione. Ma che siano anche fratelli è davvero una bizzarria. Ida, Maria e Giovanni: sappiamo molto di loro perché si chiamavano Pascoli, perché si scrivevano in continuazione con spudorata amorevolezza, perché Giovanni è stato uno dei poeti italiani più musicali e struggenti, con un tale senso della leggerezza e della felicità del gioco linguistico da risultare unico e meraviglioso nel panorama della letteratura italiana. Cercando notizie sui fratelli innamorati, mi sono imbattuta nel recente bellissimo libro di Cesare Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli (Einaudi), in cui l' autore si sofferma sul trio Pascoli con piglio psicanalitico e un poco di ripugnanza, da moralista laico. Inseguendo altri particolari, ho messo gli occhi sul Giovanni Pascoli, scritto da Gian Luigi Ruggio (Simonelli editore) in cui si scandaglia con pazienza e pignoleria all' interno dei particolari che riguardano il trio e poi il duo Pascoli. Ma tutti e due gli autori non possono fare a meno di pescare nel lunghissimo diario-confessione-cronaca, timorato ed esegetico, di Mariù Pascoli, che ho faticato a trovare perfino in biblioteca: Lungo la vita di Pascoli, pubblicato da Mondadori, curato da Augusto Vicinelli. Perché colpisce questa storia incestuosa, questo rapporto a tre così limpido ed esposto, privo di quelle ipocrisie che accompagnano di solito i rapporti famigliari «eterodossi» in una società cattolica e pettegola come la nostra? Il fatto è che in questa vicenda circola un' aria europea che ricorda gli infiammati e crudeli rapporti dei fratelli Mann fra di loro e col padre scrittore; ricorda le appassionate e dolorose avventure di Virginia Woolf che, pur amando il marito, teneva relazioni d' affetto e di desiderio con innamorati e innamorate che mano mano attraversavano la sua vita disinibita e sperimentale. Per non dire degli sberleffi di Oscar Wilde nei confronti della morale famigliare. Ci si chiede, leggendo le tante lettere amorose alle sorelle, se Pascoli avesse consapevolezza di quanto fosse anomalo e inquietante il legame con le due giovani donne. Le lettere testimoniano una completa naturalezza: mai un sospetto di difformità, mai una autocensura epistolare o la premura di nascondere ciò che a volte appariva, se non proprio indecente, per lo meno eccentrico agli occhi dei suoi contemporanei. La platonicità del legame sembra averli tenuti in bilico sul filo dello scandalo. Anche perché le analisi di Freud sulle strade serpentine del desiderio sessuale fra consanguinei non erano ancora molto conosciute e certamente Pascoli le ignorava. L' unica cosa che manca al trio in effetti, rispetto ai legami di cui parlavo prima, è proprio la consapevolezza della sessualità che pure è presente in ogni relazione d' amore, lecito o illecito che sia. Il cattolicesimo profondo della nostra cultura ha inibito sul nascere un amore che aveva tutto dell' incesto, salvo appunto la sessualità. Ma sappiamo che i sensi possono sublimarsi con complesse strategie sostitutive e Pascoli, che era un uomo rispettoso della decenza, ha saputo sublimare il suo amore senza vivere fino in fondo la trasgressione di un antico e temuto tabù. Ma fino a che punto sono state libere di scegliere le due ragazze? Fino a che punto sono state sacrificate all' egoismo del giovane fratello che si rifiuta di crescere? C' era gelosia fra le due sorelle? Da alcune lettere si direbbe di sì. Ida e Maria sono state rivali nell' attenzione del fratello, ma quanto questa rivalità le ha rese nemiche? In realtà le lettere rivelano anche molta solidarietà fra le due e un mutuo soccorrersi e sostenersi nei momenti difficili. Giovanni comunque, per quanto si facesse servire e accudire, non mancava di trattarle con tutto il rispetto che si deve alle spose che si amano. Lo dimostrano le lettere che spediva, anche due, tre al giorno, quando era costretto alla lontananza. «Il mio cuore è pieno di Ida e Maria. Se a Livorno non guardo le donne, quando sono a Roma o a Firenze le guardo con orrore. Oh le mie due piccine! O Ida! O Maria!». È un atteggiamento contraddittorio quello di Giovanni: un poco padre, «io ho il dovere d' essere il vostro babbo e voglio seguire il mio dovere ed esigere i miei diritti»; un poco fidanzato, «vi mando una delle foglioline mandate da voi, alla quale ho dato un bacio. Baciatele e le nostre labbra si incontreranno»; un poco marito, «io terrò la tua testolina bionda, o Ida sul mio cuore che non trema. Oh mio studio dove troverò l' odorino de' miei angioli ambrosi». Le due sorelle furono consenzienti, per lo meno nei dieci anni che vissero con lui come due spose premurose e fidate. Poi Ida si ribellò, cercò un uomo da amare e sposare, rompendo brutalmente il sortilegio di quel trio. Pascoli ne fu più che addolorato, sconvolto e in fondo non le perdonò mai la diserzione. Purtroppo il matrimonio di Ida non fu felice, il marito a un certo punto la piantò coi figli per andarsene in America da solo e lei dovette arrabattarsi per sopravvivere, mantenendo se stessa e i figli, con pochissimo denaro, regalatole in gran parte proprio dal fratello. «Il pensare che tu avrai ogni mese quattrini del tuo Giovanni che t' adora, e che penserai un poco a me è la cosa più bella che ci sia per me nel tuo matrimonio... col cuore tutto pesto e stretto, con le lagrime agli occhi, chiedo ai miei morti: datemi la forza di vincere questo pensiero che mi assedia e mi strazia: che io lavoro per far sì che Ida ami un altro più di me». Si faceva forte, Giovanni, cercava di mostrarsi magnanimo e sereno, ma non lo era. Il suo cuore bolliva e gli impediva di lavorare. La notte non dormiva più, di giorno non mangiava. «Ma se non lavoro io, la casa va a rotoli. Bisogna dunque ritornare al più presto», cercava di convincersi. Intanto c' è Maria che lo aspetta a Sogliano e a cui scrive: «Nonostante qualche ribellione di nervi io vedo, prevedo la mia felicità. La mia felicità sta in te. Tu mi ami, io ti amo. Si tratta forse per noi di un affetto che possa cedere a un altro maggiore più vivo e più caldo? Io so che da parte tua non è possibile; tu devi credere che da parte mia non è possibile (...). Ho lavorato e vissuto solo per te. Tu hai voluto e io che amavo ho voluto con te, tutto. Non ricordi? è così: tutto. L' Ida mi lascia (...). Io credevo la novità nuziale dell' Ida come una specie di sfacelo della mia famigliola... O stolto! per chi avevo fatta la mia casina? Per te Mariù... Oh mio angiolino bello e pallido e tremante e amoroso, con te vivere con te morire! La mamma non mi ha fatto invano, perché mi ha destinato il più piccolo dei frutti del suo ventre... Hai capito? angiolino mio bello! Una cordina al tuo ditino, una camerina vicina a me, e sempre assieme!». Il linguaggio rivela qui un manierismo autovezzeggiativo, un che di lacrimoso e affettato che costituirà la parte debole di molti suoi scritti. Cesare Garboli interpreta questo chiudersi a due come una rinuncia alla vita: «È diventato il poeta del lutto, del sacrificio e del dolore», scrive, «rassegnato a riempire di pietà e di significati simbolici una spenta vita a due». Ma, a prescindere dal carattere scontento e brontolone di Giovanni, non direi che la sua fosse una vita spenta. Era innamorato, forse della persona sbagliata, ma il suo amore era vivo e presente, anche se qualche volta lo portava a interrogarsi dolorosamente sul trio fatale: «Il mio torto è d' avervi considerato come figlie, mentre non ero un padre. Il padre ora invidia le figlie. Povero padre, povero padre! Ma credi, ora maritar te sarebbe una medicina all' altro maritaggio». Parla spesso di possibili mariti per la giovane sorella e, perché no?, non meriterebbe una sposa anche lui... ma chi? «Vedi che sarebbe ben necessario che io mi facessi un' altra famigliola», scrive a Mariù in una enfasi di indipendenza. «Ma poi non faccio nulla, ... mi alzo trovando subito la disperazione al capezzale, vado a letto piangendo quasi sempre con la testa piena di cognac. Oh! io sì che amo! (...) Se solo potessi vincere lo sviscerato affetto che mi lega a voi, sin da quando eravate bambine, ma non posso». In realtà due volte Pascoli prova a fidanzarsi, una volta perfino con una cugina, ma si ritira spaventato all' ultimo momento. «Mia povera Mariù, hai male? Perdona tutto il dolore che ti ho dato. Io ti amo infinitamente». E ancora, sempre rimuginando sul tradimento di Ida: «Se fa all' amore lei, vorrei farlo anch' io. È una necessità del mio spirito. Oh! io vorrei davvero essere il vostro babbo e la vostra mamma, ma non ci riesco. Tu mi dici che sono libero di prendere moglie e magari ti adopereresti perché la prendessi, ma a patto di morirne. Così io: facilito e faciliterò la vita all' Ida, come la faciliterei a te, ma a patto, ahimè (temo o spero? non lo so) di morirne». Ogni sentimento all' infuori del trio era interdetto, inaccessibile. Ma il trio si era azzoppato per la «perfidia» di Ida e non restava che chiudersi in una vita a due, forse non «spenta» come dice Garboli, ma certamente mutilata nella sua perfetta trinità sensuale.

 
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