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Rosa Vercesi

Post n°1531 pubblicato il 04 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

orte, nudità, femminilità: un silenzio — un silenzio — un silenzio. Il Male. Già ne La carta è stanca c’è un grumo di scrittura con cui Ceronetti ci cala nel gorgo raggelante del caso di una setta d’invasati che uccise una bambina. Pagine indimenticabili e mortificanti. Una lanterna dostoevskijana avventurata a contaminarsi sul luogo nero d’un omicidio non può che spegnere ogni superbia della ragione e ogni pretesa di sapienza. Poiché sapere davvero vorrebbe dire poter curare e guarire, impedendo che l’omicidio ritorni.

Ma il Male riaffiora intatto, latenza che coagula una dismisura, mistero schiacciante già per l’anima cieca che l’ha commesso. Rimane muta la domanda di Seferis su chi «dietro di noi, ordina di uccidere»: da Hitler al fanciullino che ti lapida a caso dal cavalcavia. Mai qualcuno che, come Jago, possa rispondere semplicemente: io.

Quante volte l’abbiamo visto? Dopo il crimine, l’assassino si rintana nel suo nulla. L’omicidio ha desertificato, posto che prima ve ne fosse una, l’anima: come se l’incomprensione del gesto restasse a preservare l’ultimo residuo di quel trucco sociale che chiamiamo persona dal precipitare a sua volta nel buco nero in cui s’ingorgò ogni luce.Un raggio di pietas pura e contemplante, il cauto riordino in racconto delle schegge rimaste: potrà almeno questo dare, se non catarsi, lenimenti e placebo per il male commesso? E, in realtà, che vorrebbe poi dire? o dov’è il carnevale che almeno per un giorno possa scambiare le vittime con gli assassini?Il male, ovvero «l’uovo delle circostanze». Uova di pura ferocia, astratta e completa, come spore di tarassaco galleggiano innumerevoli sulla Terra: legioni di latenze criminogene che si può solo sperare e pregare che la vita dispensi dall’impulso di deflagrare. Le circostanze s’ingorgano per liberare ciò che è già qua da sempre a covarsi. Così Rosa Vercesi («a trentanni era già un groviglio di vissuto»), che s’arrangiava tra piccole truffe e usura, si ritrova nella «strepitosa preterintenzionalità» di un gesto. Uccide l’amica Vittoria, ed è un caso da prima pagina. Illuminata dalla fama delle cronache, per un’idea intransigente di se stessa preferisce velarsi dietro un movente banale (il furto) e pagare con l’ergastolo, piuttosto di ammettere l’infamia di un letto saffico, forse non troppo voluto: «crimine erotico, chiodato di passione sadomasochistica, sfiorante l’abisso del consenso della vittima».Fin nella follia di una vecchiaia «sudicia e inavvicinabile», l’omicida non smetterà di cancellare il gesto, «disfacendo con furore la trama del fatto», raccontando, a se stessa e a tutti, altre storie rispetto a quanto accadde: «furore di rimozione», al punto «da rendersi ai propri occhi veridica».Da acrobata lieve e accurato, Ceronetti può permettersi anche di giocare sul filo che stende sul buco nero dell’omicidio, e ci ridà un tempo (gli anni '30) e una città (Torino). Rianima parole e pensieri stinti, nobilitati dall’oblìo e dall’ironia. Si contamina di simpatia per l’assassina, per il suo senso animalesco del teatro («mentiva da grande attrice, con fasto, con convinzione»), per la sua dissennata ostinatezza — «gelida, stupefatta dal sospetto» — a negare. Scrive così un controcanto mirabile al rosario delle frasi fatte dei giornali e degli avvocati, delle memorie dei testimoni e della stessa omicida, scavando fino al Nero che l’autismo dei mille bla bla velava. Chiama a convegno voci morte, oggetti svaniti, medium, pendolini radiestetici…Ne La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, Guido Ceronetti può permettersi di giocare sul filo steso sul buco nero dell’omicidio (un fatto di cronaca realmente accaduto) e ci ridà un tempo (gli anni '30) e una città (Torino). Rianima parole e pensieri stinti, nobilitati dall’oblìo e dall’ironia. Si contamina di simpatia per l’assassina, per il suo senso animalesco del teatro («mentiva da grande attrice, con fasto, con convinzione»), per la sua dissennata ostinatezza «gelida, stupefatta dal sospetto» a negare.A cura della Redazione VirtualeMilano, 22 maggio 2003
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«Un clàcson, dalla camionale: e il vuoto delle cose. Tutto taceva, finalmente. I gatti, all'ora consueta, certo, ecco erano penetrati nella casa, per dove solo loro entrano: vellutate presenze l'affissavano dalla metà delle scale, con occhi nella oscurità come topazi, ma fenduti d'un taglio, lineate pupille della lor fame: e le rivolsero, miaulando, un saluto timido e un appello: � é l'ora�»

(Carlo Emilio Gadda, "La cognizione del dolore")

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