Post n°1970 pubblicato il
22 Febbraio 2012 da
odette.teresa1958
Primo marzo 1912. Un secolo e pochi giorni fa. Davanti a un ufficio del governo nel West End londinese si radunano centinaia di signore della media borghesia inglese vestite elegantemente. Cappelli a tesa larga, corpetti, giacche grigie, borse, un filo di trucco e cartelli che ribadiscono gli slogan gridati a voce alta: «Voto alle donne», «Il governo ci sta uccidendo», «Fermate le torture contro di noi». Sono suffragette, militanti dell’Unione Sociale e Politica delle Donne nata nove anni prima. In quel momento la primavera della loro protesta esplode platealmente, trasformando episodi di lotta quasi sempre isolati in un’onda talmente alta da travolgere le secolari abitudini britanniche. Rivendicano un diritto apparentemente banale: fare parte della vita democratica di un Paese in cui le «architette» - loro si definiscono così - sono sei, le veterinarie tre, le commercialiste due. E in cui le Università di Oxford e di Cambridge si rifiutano di laurearle.
L’ufficio del governo guarda direttamente sulla strada. A un segno convenuto le suffragette aprono le borse, estraggono pietre e martelli e devastano la vetrata alta tre metri con i simboli dell’esecutivo. Eroine o una gang fuori controllo? Gli uomini di Scotland Yard intervengono. Le donne li attaccano. Non hanno nessuna intenzione di ritirarsi. La mischia è furiosa, 124 di loro finiranno dietro le sbarre. I giornali, più spaventati che scandalizzati, parlano di «atto terroristico». E il ministro dell’Interno, Reginald McKenna, commenta in Parlamento: «Queste donne sono pazze e pericolose». Combatte, senza rendersene conto, una surreale battaglia di retroguardia, in difesa di norme ormai sgangherate e fuori dal tempo, confermando una volta di più che chi comanda è quasi sempre più indietro della storia. Sei anni dopo la Gran Bretagna concederà il diritto di voto alle donne sopra i 30 anni e nel 1928 lo estenderà a quelle sopra i 21.
Victoria Lidiard, una delle suffragette che partecipò alla rivolta del West End, poco prima di morire ha raccontato: «Ci picchiarono selvaggiamente. In quel momento di certo non eravamo donne. Solo dei bersagli. Non arretrammo di un centimetro. Non sono mai stata tanto fiera di me». Secondo la professoressa Krista Cowman, dell’Università di Lincoln, «chiamare le suffragette terroriste era un non senso. I terroristi vogliono distruggere un sistema, loro chiedevano solo di farne parte».
Le prime azioni di ribellione si registrarono nel 1905. In un appartamento del centro di Manchester, Christabel Pankhurst, studentessa di legge figlia della storica militante Emmeline, e la sua splendida amica Annie Kenney - classe operaia, carnagione pallida e meravigliosi occhi azzurri - organizzarono il loro clamoroso gesto di protesta. Venute a conoscenza di un incontro che si sarebbe tenuto di lì a poche ore alla Free Trade Hall decisero di mischiarsi al pubblico. Poco prima che il parlamentare Winston Churchill prendesse la parola cominciarono a urlare: «Voto alle donne». Un poliziotto cercò di fermarle. Loro gli sputarono addosso. Furono trascinate fuori a forza e arrestate da uomini armati e divertiti che si lasciarono alle spalle una scia bisbigliata di foia da caserma. L’episodio ebbe un’eco clamorosa. Una nuova era cominciava.
Nel 1913 l’episodio più noto di questo scontro epocale. Il 4 giugno 1913 la suffragetta Emily Davison si confonde tra la folla del Derby di Epsom e si butta in mezzo alla pista avvolta nella bandiera dell’Unione Sociale e Politica delle Donne mentre sta arrivando il cavallo di re Giorgio V lanciato a tutta velocità. Viene travolta. Rimane a terra con il cranio fracassato. Il giorno del suo funerale l’intero Paese si ferma. La Gran Bretagna è con lei. E con le suffragette. Il Professor June Purvis, autore di una biografia su Emmeline Pankhurst, sostiene che la Davison scelse il martirio consapevole dell’enorme effetto che avrebbe fatto il suo funerale. «Le suffragette rappresentavano quello che oggi sono le donne per la primavera araba. Oppure gli studenti dei movimenti Occupy. Qualcuno poteva anche chiamarle terroriste, ma erano loro a incarnare il senso del tempo». Secondo la baronessa Brenda Dean sarebbe necessario che ora, cent’anni dopo, il governo di Sua Maestà chiedesse scusa a quelle donne. «Io lo voglio fare. E lo faccio. Ora». E lo considera un gesto definitivo, come se avesse archiviato in una scatola preziosa una vecchia lettera d’amore.
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