Messaggi del 25/08/2011

Senza Orecchie

Post n°525 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Re che avea una bimba. La Regina era morta di parto, e il Re avea preso una balia che gli allattasse la piccina.

Un giorno la balia scese, insieme colla bimba, nel giardino reale. La bimba avea tre anni, e si divertiva a fare chiasso sull'erba, all'ombra dei grandi alberi. Sull'ora di mezzogiorno la balia s'addormentava; ma quando si svegliò, non trovò più la Reginotta. Cerca, chiama per tutto il giardino; nulla! La bimba era scomparsa. Come presentarsi al Re, che andava matto per quella figliuola? La povera balia si picchiava il petto, si strappava i capelli: "Dio! Dio!" Sua Maestà l'avrebbe fatta impiccare! Agli urli della balia erano accorse le guardie. Fruga e rifruga, tutto fu inutile. Venne l'ora del pranzo. "E la Reginotta?" domandò il Re. I ministri si guardarono in faccia, più bianchi di un panno lavato. "La Reginotta dov'è?" "Maestà," disse un ministro "è accaduta una disgrazia!" Il Re pareva fuori di sé dal gran dolore. Fece subito un bando: «Chi riporta la Reginotta, gli si concede qualunque grazia.» Ma eran già passati sei mesi, e al palazzo reale non s'era visto nessuno. I banditori andavano di regno in regno: "Sia cristiano, sia infedele, chi riporta la Reginotta, gli vien concessa qualunque grazia." Ma passò un anno, e al palazzo reale non si presentò nessuno. Il Re era inconsolabile: piangeva giorno e notte.

Nel giardino reale c'era un pozzo. La Reginotta, mentre la balia dormiva, s'era accostata all'orlo e vi si era affacciata. Vedendo, laggiù, nello specchio dell'acqua, un'altra bimba sua pari, l'avea chiamata: "Ehi! Ehi!", accennando colle manine. Allora era sorto dal fondo del pozzo un braccio lungo lungo, peloso peloso, che l'afferrò e la tirò giù. E così, da parecchi anni, lei viveva in fondo a quel pozzo, col Lupo Mannaro che l'aveva tirata giù. In fondo al pozzo c'era una grotta grande dieci volte più del palazzo reale. Stanze tutte oro e diamanti, una più bella e più ricca dell'altra. È vero che non ci penetrava mai sole, ma ci si vedeva lo stesso. La bimba veniva servita da quella Reginotta che era. Una cameriera per spogliarla, una per vestirla, una per lavarla, una per pettinarla, una per recarle la colazione, una per servirla a pranzo, una per metterla a letto. S'era già abituata e non ci viveva di cattivo umore. Il Lupo Mannaro russava tutto il santo giorno e la notte andava via. Siccome la bimba, quando lo vedeva, strillava dalla paura, si facea veder di rado: non volea spaventarla.

Intanto la Reginotta s'era fatta una bella ragazza. Una sera, entrata in letto, non poteva dormire. Sentito che il Lupo Mannaro si preparava ad andar via, tese meglio l'orecchio. Il Lupo Mannaro con quella sua vociaccia ròca, urlava: "Chiamatemi il cuoco." Il cuoco venne. "Credo che siamo in punto," gli disse "mi pare una quaglia." "Bisogna vedere" rispose il cuoco. La Reginotta sentì che giravano adagino il pomo della serratura: Ahimè! Dunque si trattava di lei? Il Lupo Mannaro voleva mangiarsela. Le si accapponò la pelle, sfido io! Si fece piccina piccina, e finse di dormire. Il Lupo Mannaro s'accostava al letto, svoltava le coperte con cautela, e il cuoco cominciava a tastarla tutta, come gallina da tirargli il collo. "Ancora una settimana," disse il cuoco "e sarà un boccone reale." Come intese queste parole, la Reginotta si senti rinascere: Otto giorni! Oh, quella quaglia il Lupo Mannaro non l'avrebbe mangiata; no, no! Pensa e ripensa, le venne un'idea. La mattina, saltata giù dal letto, appostossi alla bocca della grotta, dentro il collo del pozzo, ed aspettò che venisse gente ad attinger acqua. La carrucola stride, la secchia fa un tonfo, ed ecco la Reginotta che s'afferra alla corda, puntando i piedini sull'orlo della secchia. La tiravano su lentamente; era un po' pesa. A un tratto la corda si rompe, e secchia e Reginotta, patatunfete, giù! Accorsero le cameriere e la ritirarono dall'acqua. "Ebbi un capogiro e cascai. Non ne fate motto, per carità; il Lupo Mannaro mi picchierebbe." E passò un giorno. Il secondo giorno, aspetta aspetta, la secchia non venne giù. Bisognava trovare un altro mezzo: ma non era come dirlo. Quale? La grotta non aveva che quell'unica uscita. E passò un altro giorno. La Reginotta non si perdette d'animo. Appena aggiornava, era al suo posto; ma la secchia non calava. E passarono altri due giorni.

Una mattina, mentre lei piangeva dirottamente, guardando fisso nell'acqua vide lì un pesciolino rosso, che parea d'oro, colla coda bianca come l'argento, e con tre macchie nere sulla schiena. "Ah! Pesciolino, tu sei felice! Tu sei libero in mezzo all'acqua, ed io qui sola, senza parenti né amici!" Il pesciolino montava a fior d'acqua, dimenando la coda, aprendo e chiudendo la bocca; pareva l'avesse sentita: "Ah! Pesciolino, tu sei felice! Tu sei libero in mezzo all'acqua, ed io qui sola, senza parenti né amici. Fra quattro giorni sarò mangiata!" Il pesciolino rosso, dalla coda bianca e dalle tre macchie nere sulla schiena, s'era accostato alla sponda: "Se tu fossi di sangue reale e volessi sposarmi, saremmo liberi tutti e due. Per vincere il mio incanto non ci vuol altro." "Son sangue reale, pesciolino d'oro, e son tua sposa fino da questo momento." "Cavalcami sulla schiena e tienti forte." La Reginotta si mise a cavalcioni del pesciolino e gli si afferrò alle branchie; e il pesciolino, nuota, nuota, la portò in fondo al pozzo. Di lì passava un fiume, sotto terra. Il pesciolino infilò diritto la corrente e la Reginotta gli si tenne sempre ben afferrata alle branchie. Ma ecco, in un punto, un pesce grossissimo, con tanto di bocca spalancata, che voleva ingoiarli: "Pagate il pedaggio, o di qui non si passa." La Reginotta si strappò un'orecchia e gliela buttò. Nuota, nuota, ecco un altro pesce più grosso del primo, con tanto di bocca spalancata e una foresta di denti: Pagate il pedaggio, o di qui non si passa. La Reginotta si strappava l'altra orecchia e gliela buttava. Quando la corrente sboccò all'aria aperta, il pesciolino depose la Reginotta sulla sponda e diè un salto fuor dell'acqua. Era diventato un bel giovane, con tre piccoli nèi sulla faccia. Lei disse: "Andiamo a presentarci al Re mio padre. Son tredici anni che non mi vede." Al portone del palazzo reale non volevano lasciarla passare. "Sono la Reginotta! Son la figliuola del Re!" Non ci credeva nessuno, nemmeno il Re. Pure ordinò di fargliela venire dinanzi: "Chi sa? Poteva anche darsi!" Il Re la guardò da capo a piedi: gli pareva e non gli pareva. Lei gli raccontò la sua storia; ma non disse nulla delle orecchie, per vergogna. Infatti nascondeva il suo difetto, tenendo basse le trecce. Ma un ministro se n'accorse: "E le orecchie, figliuola mia? Dove le perdeste le orecchie?" Il Re, indignato, la condannava a rigovernare i piatti e le stoviglie della cucina reale. Il principe Pesciolino (lo chiamarono subito così) fu dannato a spazzar le stalle: Imparassero in tal modo a farsi beffa del Re!

Un giorno Sua Maestà volea mangiare del pesce. Ma in tutto il mercato c'era due pesci soltanto, e nessuno sapeva che razza di pesci si fossero, neppure i pesciaioli. Ed erano lì dal giorno avanti, e cominciavano a passare. Ma il Re volea del pesce ad ogni costo, e il cuoco li comprò: "Maestà, non c'è che questi; nessuno sa che pesci siano, neppure i pesciaioli. Trovansi in mercato da due giorni e cominciano a passare." "Sta bene," disse il Re "portali in cucina." In cucina il cuoco fa per sventrarli, e che gli trova nelle budella? Due orecchie di creatura umana, ancor stillanti sangue! Chiamarono subito Senza-orecchie, come le aven messo il nomignolo: "Senza-orecchie, Senza-orecchie, ecco roba per te!" La Reginotta accorse: eran davvero le sue orecchie. Tremante dalla contentezza se le adattò al capo e le si appiccicarono; il sangue avea servito da colla. Colle orecchie, il Re suo padre raffigurolla ad un tratto: "È lei! È la mia figliuola!" E bandì feste reali per otto giorni. Poi, siccome era vecchio, volle lasciare il regno. E il re Pesciolino e la regina Senza-orecchie regnarono a lungo dopo di lui.

Stretta la foglia, e larga la via,
Dite la vostra, ché ho detto la mia.

 
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Trottolina

Post n°524 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un vecchio tornitore che faceva trottole d'ogni forma e d'ogni grandezza. Quand'era la stagione delle trottole, i ragazzi si affollavano nella sua bottega: "Tornitore, mi fate una trottola?" "Piccola o grande? Piatta o col cocuzzolo?" Secondo che la volevano piccola o grande, piatta o col cocuzzolo, egli adattava subito un pezzetto di legno al suo tornio, e con un piede sul pedale e in mano lo scalpello, si metteva a lavorare lesto lesto, brontolando:

"Trottolina, piatta piatta,
Gira gira e fa la matta!"

Oppure:

"Trottolone fatto a pera,
Gira gira fino a sera!"

E continuava a brontolare così, fino a che la trottola non era bell'e finita. Quel brontolìo era lo spasso dei ragazzi, che spesso gli facevano il verso:

"Trottolina, piatta piatta,
Gira gira e fa la matta!
Trottolone fatto a pera,
Gira gira fino a sera!"

"Ecco qua. Due soldi, tre soldi." E i ragazzi andavano via contenti come pasque. Un giorno passò davanti a quella bottega il Reuccio, e si fermò a guardare.
Il tornitore stava per terminare una bella trottola e brontolava, al suo solito, senza levar gli occhi dal lavoro. "Tornitore, fatemi una trottola anche per me." "Piccola o grande? Piatta o col cocuzzolo?" "Piccina piccina." "Sarà servito. Vedrà che trottolina. Parlerà." E subito con un piede sul pedale e in mano lo scalpello, si mise a lavorare lesto lesto, brontolando:

Trottolina piccinina,
Pel Reuccio gira gira.

Trattandosi del Reuccio, il tornitore andò egli stesso dal fabbro ferraio per far mettere alla trottolina un picciuolo di ferro ben limato e lisciato, e il giorno appresso la portò al palazzo reale: si attendeva un grosso regalo. La trottolina gli era riuscita una bellezza. Prima di andare a consegnarla, l'aveva provata. Girando, faceva un brisìo lieve lieve; non che parlare, pareva cantasse. Dicendo al Reuccio: La trottolina parlerà, il povero tornitore intendeva dire appunto di quel brusìo. Il Reuccio però non l'aveva capita così. E visto che la trottola non parlava, si mise a strillare, a pestare i piedi: "Voglio la trottolina che parla! Voglio la trottolina che parla!" Accorsero il Re e la Regina. Il tornitore spiegando la cosa, tremava come una foglia. Intanto il Reuccio continuava a strillare, a pestare i piedi: "Voglio la trottolina che parla!" Disse il Re al tornitore: "Tu hai promesso di fare al Reuccio una trottolina che parla, e bisogna che parli. Se domani non gli porti la trottolina parlante, guai a te!" Il tornitore andò via più morto che vivo. "Ah! Poverino a me! Come fare una trottolina che parli davvero?" Quella notte non chiuse occhio, piangendo e lamentandosi: Poverino a me! La mattina venne un servo del palazzo reale: "Sua Maestà vuole la trottolina che parla." A un tratto il tornitore ebbe un'idea; e tutto allegro andò dal Re: "Maestà, la trottolina l'ho fatta io; ma la lingua gliel'ha fatta il fabbro ferraio; se la trottolina non parla, è colpa sua." Il Re si capacitò. "Aspetta lì; mandiamo a chiamare il fabbro ferraio." E il fabbro ferraio venne: "Maestà, che comanda?" "La trottolina del Reuccio dovrebbe parlare; il tornitore l'ha fatta e tu gli hai messo la lingua di ferro; gliel'hai messa male. Se domani non mi riporti la trottolina parlante, guai a te!" Quel furbo rispose: "È vero, Maestà; io le ho messo la lingua, ma la bocca gliel'ha fatta lui; se la trottolina non parla, è colpa di chi non ha saputo farle bene la bocca." "Ah! Ve la mandate dall'uno all'altro?... O domani riporterete qui la trottolina parlante, o guai a voi." Andarono via tutti e due più morti che vivi. "Ah, poverini noi! Come fare una trottolina che parli davvero?" "Andiamo da un Mago" disse il fabbro ferralo. "Chi sa? Potrà farcela lui."

E andarono subito dal Mago.

Giusto egli aveva per le mani una bambolinuccia che parlava. "Date qua la trottolina." V'incollò la bambola sopra, avvolse attorno al picciuolo il laccetto, e fece girare la trottola per prova. La trottola girava e la bambola parlava: "Buon giorno, Reuccio! Buona sera, Reuccio!" Il Reuccio, com'ebbe quella trottolina, si mise a saltare dalla gioia. Il Re fece al tornitore e al fabbro ferraio un magnifico regalo, ed essi ne portarono una buona parte al Mago. "Tenete tutto per voi; io non voglio nulla." Il Reuccio passava le giornate facendo girare la trottola. E la trottola: "Buon giorno, Reuccio! Buona sera, Reuccio!" Alla bambola egli aveva messo nome Trottolina, e non voleva fare il chiasso altro che con lei. Crebbe, e intanto non cessava mai di giocare a trottola; il Re n'era seccato. "Non sei più un ragazzo. Ora devi prender moglie." "Sposerò Trottolina." Il Re montò sulle furie; prese la trottola e la sbatacchiò sul pavimento. La bambola schizzò da una parte e la trottolina, spaccata in due pezzi, dall'altra. "Ecco come sposerai Trottolina!" Il Reuccio stette zitto e andò a chiudersi in camera sua. Non voleva più uscirne. Quand'era solo piangeva: "Ah, Trottolina mia! Non puoi dirmi più: Buon giorno, Reuccio! Buona sera Reuccio!" Si ammalò. Aveva una febbre lenta, dimagrava dimagrava; e i medici non sapevano dire che male fosse. Il Re e la Regina erano disperati: si vedevano morire lentamente il Reuccio sotto gli occhi, senza potergli dare nessuno aiuto. Uno dei medici domandò: "Ha avuto qualche grave dispiacere il Reuccio?" "No." Il Re e la Regina non potevano mica immaginare che il Reuccio morisse di languore per Trottolina. Ma il dottore insistette: "Reuccio, vi hanno dato qualche gran dispiacere?" "Mi hanno rotto Trottolina." Allora il Re mandò a chiamare il tornitore e il fabbro ferraio: "Fatemi pel Reuccio un'altra trottola parlante." "Maestà non sappiamo più farla." "O domani l'avrò qui, o guai a voi!" Quei due andarono via più morti che vivi. "Ah, poverini a noi! Chi sa se il Mago cene farà un'altra?" E corsero da lui. "Voi, tornitore, fate la trottola; voi, fabbro ferraio, appiccicatele il picciuolo di ferro ben limato e lisciato, e poi tornate da me." Il Reuccio così riebbe la trottolina parlante e si mise a farla girare. La trottola girava, e la bambola parlava: "Buon giorno, Reuccio! Buona sera, Reuccio!" Ed ora aggiungeva: "Quando ci sposeremo, Reuccio? Quando ci sposeremo?" Con meraviglia di tutti, trottola e bambola crescevano di giorno in giorno, quasi fossero vivi. Ma Trottolina parlava soltanto quando la trottola girava. Che potevano fare il Re e la Regina? Visto questo prodigio di Trottolina che cresceva, e purché il Reuccio non tornasse ad ammalarsi, acconsentirono che la sposasse. Tanto era un matrimonio per chiasso.

Pei primi giorni passò. Il Reuccio faceva girare la trottola, e Trottolina parlava. La trottola girava per dei quarti d'ora, senza fermarsi; correva di qua e di là, e il Reuccio le correva dietro: "Fermati, Trottolina!" Trottolina si fermava, ma allora non parlava più. Girando girando, sembrava proprio viva. Fermata, era una bambola di legno e niente altro. Gli venne a noia. La buttò in un angolo della camera e non la cercò più. La notte, sentiva un lamento: "Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata!" Saltava da letto, credendo che Trottolina fosse già diventata persona viva: andava a guardarla; niente. Trottolina era tuttora di legno e stava appoggiata contro il muro in quell'angolo dove l'aveva buttata. Ogni notte però quel lamento: "Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata!" Il Reuccio non poteva più dormire. Ordinò che gliela levassero di camera e la portassero in cantina. Non valse. Tutte le notti, dalla cantina sentiva fino in camera sua quel lamentio. "Non vuoi chetarti? Aspetta: ti concio io!" Scese in cantina con un'accetta, per fare in pezzi trottola e Trottolina; ma alla vista di lei, che era così bella e graziosa, sentì intenerirsi il cuore. Era cresciuta tanto che pareva una bella ragazza di diciotto anni; e ora, per far girare la trottola ci voleva molta forza. Non si trattava più d'una trottolina, ma d'un trottolone, e invece d'un laccetto, occorreva proprio una fune. I genitori del Reuccio erano morti; il Re era lui. Mancava la Regina; e i Ministri gli dissero: "Maestà, il matrimonio con Trottolina non regge: sposate una donna vera." Il Re si lasciò persuadere e risolvette di sposare la Reginotta di Spagna. Il giorno delle nozze, la Reginotta di Spagna si sentì male tutt'a un tratto e in poco d'ora morì. Il Re se n'accorò. La notte, il solito lamentìo: "Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata!" "Non sono più Reuccio. Aspetta: ti concio io!" Scese in cantina, prese delle fascine, le messe torno torno alla trottola e a Trottolina e vi appiccò il fuoco. Una vampata; ma la trottola in fiamme cominciò a girare a girare, mettendo fuoco a ogni cosa. Saliva le scale, correva per tutte le stanze del palazzo reale, e dove passava attaccava il fuoco. In un attimo il palazzo fu in fiamme. La trottola girava e Trottolina parlava: "Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà!" Il Re le correva dietro, tentando di spegnere le fiamme: "Fermati, Trottolina!" Ma si  bruciacchiava le mani inutilmente: Trottolina non si fermava; e sembrava lo canzonasse col suo: "Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà!"

Attorno al palazzo c'era una gran folla, accorsa per spegnere l'incendio. Chi attingeva acqua, chi portava le secchie, chi le vuotava; fatica sprecata: più acqua buttavano e più le fiamme prendevano forza; salivano fino al cielo. Dal gran fumo non ci si vedeva. E tutti piangevano il Re che doveva essere carbonizzato a quell'ora, insieme coi Ministri e le persone di corte. Quando fu giorno, invece che si vide? Nel luogo del palazzo reale c'era un magnifico giardino, e più in là un altro palazzo reale, al cui confronto quello bruciato sarebbe parso una bicocca. E pei viali del giardino il Re e Trottolina, diventata persona viva, di carne e d'ossa, che presi per mano passeggiavano come se nulla fosse stato. Trottolina diceva scherzando al Re: "Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà!" Ma non girava più; non aveva più la trottola sotto i piedi. Ora che Trottolina non era di legno, il Re la sposò per davvero.

E furono marito e moglie;
A loro il frutto, e a noi le foglie.

 
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La favola d'Ohimè

Post n°523 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta due ragazze che stavano in campagna in due casette vicine. Una si chiamava Maria ed era buona, e quell'altra si chiamava Lisa ed era cattiva; ma siccome da quelle parti non c'era nessun altro per avere un po' di compagnia, andavano in giro insieme e insieme si ritrovavano a lavorare. Erano povera gente e campavano raccogliendo un pò d'erba lungo i fossi e raccogliendo legna nei boschi. Maria aveva solo il babbo, un omo buono, un povero vecchio che non riusciva più a combinare nulla di buono, e Lisa aveva solo la mamma, cattiva come lei. Un giorno le due ragazze andarono nel bosco a cercare un po' di radicchio, e a un certo punto si separarono, accordandosi di ritrovarsi lì prima dell'avemmaria. E così s'avviarono, per cercare i radicchi. Maria non riusciva a trovarne nemmeno l'ombra, ma cerca e cerca a un certo punto ne vide uno tanto grande che non sapeva come fare a strapparlo dalla terra. Tira e tira, finalmente ci riuscì, ma siccome tirava tanto forte cascò in terra col radicchio fra le mani. Proprio mentre cascava sentì una voce che diceva: "Ohimè!" e vide un rospo grosso, ma così grosso che le mise una gran paura. "Non aver paura Maria" le disse il rospo: "raccattami, portami a casa, e se mi terrai bene, farò la tua fortuna." Maria non ce la faceva a pigliarlo, e lui le disse: "Raccattami aiutandoti con il tuo grembiule e mettimi nel paniere, poi comprimi col radicchio e và a casa. Quando incontrerai la tua compagna non devi dirle nulla.". Allora Maria lo coprì col grembiule e lo mise nel paniere, rabbrividendo dal ribrezzo. e poi lo coprì con quel gran radicchio che riempiva tutto il paniere, anche perché sotto c'era quel rospaccione. . Quando incontrò Lisa vide che era tutta stizzita perché lei aveva trovato solo due o tre cesti di radicchio e con sgarbo le disse: "O dove tu l'hai trovato tutto questo radicchio?" "Là nel bosco" rispose Maria, e le due ragazze fecero la via del ritorno senza dire una parola, perché Lisa era tutta immusonita. Il babbo di Maria era accanto al focolare ma non c'era nemmeno uno steccolino di legna, e allora Maria gli disse: "Babbo, ora vo a pigliare un pò di legna per caccendere i foco." "O se un ce n'è nemmeno uno steccolo?" "Vedrete babbo, abbiate fiducia" gli rispose Maria, e corse fuori. Appena fu sortita, mise il suo Ohimè! in una bella cassetta, gli diede da mangiare e poi salì in soffitta per cercare qualche legnetto da portare al suo babbo. Come rimase quando vide che la soffitta era piena di legna e  di ceppi ben accatastati e di fascine legate per benino! Ne prese una bella bracciata e la portò al suo babbo perché si potesse riscaldare.

Lui le disse: "O dove tu l'hai presa questa legna?" "Ve l'ho preparata io, babbino. perché non volevo vederti così infreddolito." Il babbo seppe solo fare: "Oh!" perché non capiva come avesse fattoo.

Ma ora torniamo a quando Maria aveva messo Ohimè nella cassetta, per sapere che lui le aveva detto: "Sta' attenta Maria, non ti scordar mai di me, perché se mi dimentichi ti capiteranno delle disgrazie."

Il giorno dopo venne un gran temporale, con acqua fulmini e tempesta che pareva la fine del mondo. Il babbo di Maria era vicino al fuoco al calduccio, quando d'un tratto sentì bussare alla porta. "Chi è?" Era un bel giovane tutto mezzo, col fucile a tracolla. "Sono il figlio del re," gli disse, "ero a caccia a quando mi ha sorpreso il temporale: potreste usarmi la cortesia di ospitarmi fino a che non sia passata questa burrasca?" "Oh, ma s'accomodi maestà, e ci compatisca, questa è una casa di povera gente... si metta a sedere qui accanto al fuoco, così si asciuga un po', non vede come è tutto molle?" Dopo poco il principe disse: "Vivete solo in questa casa?" "No, ho una figliola." "E dov'è?" "Mah! Sarà su per le scale... Maria! O Maria! scendi, che ci fai su in soffitta?" Allora Maria si chinò sulla cassetta d'Ohimè, e lui gli diede una raspatina al viso e sul capo e le disse: "Scendi tranquilla, vai giù ora." Allora Maria rispose: "Babbino, son qui che mi pettino." Si deve sapere che per salire in soffitta c'era una scala di legno a pioli di quelle che adoprano i contadini, e arrivava fino al piano di sopra.

Il figlio del re a quel punto si avvicinò alla scala e guardò in su, e cosa vide? La Maria era in cima alla scala, con i piedi poggiati su un candido telo di lino, si pettinava con un pettine d'oro e aveva i capelli biondi come l'oro, lunghissimi, tanto che le coprivano tutto il corpo. E mentre si pettinava cadevano dai suoi capelli mucchi di diamanti: "O che è quella la vostra figliola?" domandò il principe al babbo di Maria. "Sì, perchè?" Ma quella è tanto bella che sembra una Madonna!" Il vecchio si mise a ridere e gli disse: "Maestà, non mi sembran discorsi da fare questi!" Il figlio del re era lì incantato a guardare in cima alla glio disse: "Ditemi signor contadino, che mi fareste sposare la vostra figliola?" "Ma che gli pare, maestà, sarà mai possibile che lei prenda una ragazza povera come lei?" "Di questo voi non dovete preoccuparvi, a me piace a a me mi torna bene di sposarla" E dai e dai e picchia e mena, al vecchio gli toccò promettere la figliola al principe. Dopo otto giorno il principe aveva preparato tutto quello che ci voleva per la cerimonia, e in quel mentre Ohimè aveva preparato un corredo così bello e grande che nessuno si ricordava di averne mai visto uno come quello. Si può immaginare la rabbia della Lisa, ma stava attenta a non farla trasparire perché voleva essere presente allo sposalizio, e di fatti fu invitata. Il giorno del matrimonio Ohimè diede una raspatina sul viso di Maria e la fece diventare bella come il sole. La sua amica, ma sarebbe meglio che si dicesse la sua nemica, non sapeva come fare a non scoppiare dalla rabbia, e stava zitta zitta. partirono da casa con due carrozze, in quella davanti c'era il principe con i suoi parenti, nell'altra Maria con un meraviglioso vestito di seta e d'oro, tutta coperta di veli, accompagnata da Lisa e dalla mamma della Lisa. A un certo punto Lisa disse che si sentiva tanto male e che aveva bisogno di scendere un pochino dalla carrozza, così fecero fermare la carrozza e scesero tutte e tre avviandosi per un viottolino di campagna. La carrozza andava avanti piano piano, e quando si furono un po' allontanate Lisa e la sua mamma spogliarono la povera Maria, la legarono a un albero e Lisa si mise i vestiti da sposa e si coprì con i veli. Poi la sua mamma richiamò la carrozza che si era fermata poco lontano e quando il cocchiere domandò: "O dov'è quella ragazza che si sentiva male?" gli rispose: "E' tornata a casa a piedi perché non si sentiva tanto bene. Potete andare avanti." E il cocchiere riprese la strada, mentre la povera Maria legata all'albero piangeva come una fontana, e piangendo diceva: "Ohimè!" La povera ragazza mentre era tanto felice si era dimenticata d'Ohimè. "Ohimè! Ohimè! Ohimè!" chiamava, e a un certo punto sentì che gli diceva: "Eccomi!" e saltando vicino a lei fece: "Ti avevo detto di non dimenticarti di me" "Oh, Ohimè mio, perdonami, per pietà, ero così felice che non pensavo più a te. Liberami, te ne prego, scioglimi." E lui le disse: "Io ti posso anche sciogliere, ma te mi devi promettere che non mi scorderai mai più, solo così tornerò a portarti fortuna." Maria promise e Ohimè la slegò, poi le fece indossare una veste da contadina e le regalò un bell'orto. "Ora cura quest'orto" le disse "e se lo coltivi per bene ti darà tutti i frutti che non si trovano in questa stagione. Li coglierai e li andrai a vendere sotto le finestre del palazzo reale." Maria ringraziò Ohimè e gli promise che non l'avrebbe mai più dimenticato. E così la slegò, le fece un vestito da contadina e le regalò un bell'orto: "Tu devi coltivare quest'orto, che ti darà tutti i frutti che non ci sono in questa stagione. Poi li andrai a vendere tutti i giorni sotto le finestre del palazzo del re." Lei lo ringraziò, promettendo di non dimenticarsi mai più di lui.

Mentre Maria cominciava a coltivare il suo orto, a palazzo era venuta l'ora di andare a letto, e quando la sposa si levò il velo nella camera c'era poca luce, però il principe pensò che gli sembrava che fosse parecchio imbruttita. In ogni modo spense i lumi e si mise a dormire, ma la mattina dopo, alla luce del giorno, la vide proprio bene, e anche se non se la sentì di dirglielo, gli parve parecchio brutta, e così il principe era proprio malcontento del suo matrimonio.

Passarono due o tre giorni e Maria riempì un bel paniere pieno della frutta più fresca e succosa che si possa immaginare, chiaò il suo Ohimè, l'abbracciò e andò sotto il palazzo reale. Ohimè le aveva detto che la regina era golosa e che avrebbe voluto comprare la sua frutta. E così, quando fu sotto le finestre e cominciò a gridare: "Pesche, fragole, uva regina, chi ne vuole?" la regina sentì e mandò i servi a vedere se era proprio vero e a comprare quelle squisitezze.

La stessa storia si ripetè per altre due mattine, finché la regina disse che voleva conoscere questa ortolana, e i servitori fecero salire Maria, che aveva il viso tutto trasformato, in modo che nessuno potesse riconoscerla. Quando fu nelle stanze reali c'era anche il principe, che la invitò a desinare con sé, perché voleva onorarla per la bellezza della sua frutta. Lei gli rispose: "Maestà, vi ringrazio e accetto il gentile invito." Appena fu tornata a casa chiamò il suo Ohimè e gli raccontò tutto. Lui le disse: "Vai pure, Maria. e quando serviranno l'arrosto, lascia cadere una delle tue forcine, ma bada che nessuno la raccolga: chinati lesta sotto la tavola e là mi troverai". Lei fece come gli diceva il suo rospo e andò a palazzo reale. la fecero sedere proprio di fronte al principe che aveva al suo fianco la regina, ma guardava sempre lei, forse perché nonostante il travestimento ravvisava in lei qualcosa della sua Maria.

Quando portarono l'arrosto Maria fece cadere una forcina, e i servitori e i signori che erano a tavola si precipitarono a raccoglierla, ma lei fu più svelta e si chinò sotto la tavola. Ohimè era là sotto, le diede una raspatina nel viso e nelle vesti, e qunadò tornò a sedere era bella come una Madonna e vestita come il giorno dello sposalizio. Il principe balzò in piedi e si mise a gridare: "Eccola! Ecco la mia Maria; e tu, brutta scorfana, devi sparire!"

La gente rimase a bocca aperta, e il principe fece legare Lisa e la sua mamma e le condannò al rogo. Poi sposò la sua Maria e potete immaginare com'era felice. Dopo un anno le nacque un bel bambino e tutto il palazzo scoppiava dalla gioia. Una notte, quando il bambino aveva compiuto i tre mesi, Maria si svegliò con un tuffo al cuore: il bambino rantolava. Subito accese uno zolfanello e vide che nella culla c'era un gran serpente che aveva circondato il collo del suo bambino. Disperata cominciò a urlare e a chiamare aiuto, e intanto diceva: "Oh! Ohimè mio!" E il suo Ohimè l'aveva dimenticato nella gioia di avere quel bambino. Ohimè le apparve all'improvviso e le disse: "Ho voluto mettere alla prova la tua fedeltà! Non devi scordarti mai di chi ti fa del bene; io sono vecchio orami, tanto vecchio che non ne posso più: tu ormai non hai più bisogno di me: mi sono trasformato in serpente e per farti paura mi sono messo al collo del tuo bambino. Ma ora morirò, e tu devi farmi cremare, poi raccoglierai le mie ceneri e le terrai di conto."

Maria lo abbracciò piangendo, lo baciò, gli promise che avrebbe fatto quello che lui le aveva chiesto e lui allora morì. Lo fece cremare e mise le sue ceneri in un'urna tutta tempestata di pietre preziose. E da allora non si scordò mai del suo Ohimè e visse per sempre felice e contenta.

 
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Testa di rospo

Post n°522 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Re e una Regina. La Regina partorì e fece una bambina più bella del sole. Insuperbita di questa figliolina così bella, spesso diceva: "Neppur le Fate potrebbero farne un'altra come questa." Ma una mattina, va per levarla di culla e la trova contraffatta, con una testa di rospo. "Oh Dio, che orrore!" Benché fosse figlia unica e le volesse un gran bene, quella testa di rospo le facea schifo, e non volle più allattarla. Il Re, angustiato, disse a un servitore: "Prendila e portala giù; mettila fra i cagnolini figliati dalla cagna. Però se morisse, sarebbe meglio per lei!" Non morì. La cagna, tre, quattro volte il giorno tralasciava di dar latte ai cagnolini, e porgeva le poppe a Testa-di-rospo. La leccava, la ripuliva, la scalducciava tenendosela accosto, e non permetteva che alcuno stendesse la mano a toccarla. Quando il Re e la Regina scendevano giù per vedere, la cagna ringhiava, mostrava i denti; e un giorno che la Regina fece atto di voler riprendere la figliuola, le saltò addosso e le morse mani e gambe.

 

Testa-di-rospo nel canile prosperava. Quando crebbe, non volle più lasciarlo. Durante la giornata abitava su nelle stanze reali; pranzava a tavola col Re, colla Regina, con tutta la corte, e prima di toccar le pietanze, metteva da parte i meglio bocconi; poi ne riempiva il grembiule e scendeva giù, nel canile. "Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi!" La notte dormiva lì, con mamma cagna. Non c'era mai stato verso di indurla a dormire nel suo letto. La Regina, sentendole ripetere ogni giorno: "Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi!", cominciò a odiarla terribilmente, come se non fosse stata sua figliuola. E una volta disse al Re: "Maestà, no, costei non è la nostra figliuola. Ce la scambiarono quand'era in culla. Che ne facciamo di questo mostro? Io direi di farla ammazzare." Il Re non ebbe animo di commettere questa crudeltà: "Mostro o non mostro, è una creatura di Dio." Talché la Regina giurò di disfarsene in segreto. E che pensò? Pensò di dar ad intendere al Re che era nuovamente gravida e, quando fu l'ora, gli fece presentare una bambina nata di fresco, che lei aveva fatto comprare a peso d'oro in un altro paese. Il Re fu molto contento; e alla bambina mise nome Gigliolina; perché era bianca come un giglio. Allora la Regina gli disse: "Ora che abbiamo quest'altra figliuola, che ne facciamo di quel mostro? Io direi di farla ammazzare." Per amore di quest'altra figliuola, il Re, benché a malincuore acconsentì. Ma come andarono per prendere Testa-di-rospo e farla ammazzare, sulla soglia del canile trovarono mamma cagna, che abbaiava e ringhiava mostrando i denti. E Testa-di-rospo non voleva uscir fuori. "Perché non vieni fuori?" "Perché mi farete ammazzare." "E chi ti ha detto questo?" "Me l'ha detto mamma cagna." La Regina, maliziosa, voleva indurla colle buone: "Non è vero, sciocchina. Vieni su, vieni a vedere che bella sorellina ti è nata."

"Sorellina non me n'è nata,
A peso d'oro fu comprata.
Mamma cagna, mamma cagna,
Siete voi la vera mamma."

"Che significa?" domandò il Re. "O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia." Ma il Re disse: "Chi tocca Testa-di-rospo l'ha da fare con me. Mostro o non mostro, è una creatura di Dio. Lei è la vera Reginotta, perché nata la prima." La Regina, arrabbiata per lo smacco, che pensò? Pensò di ricorrere ad una Strega: "Fammi due vestiti compagni, tutti oro e diamanti; ma uno dev'essere incantato: deve bruciare addosso a chi se lo mette." "Fra un anno li avrete." In questo mentre la Regina fingeva di voler bene egualmente alle due figliuole; anzi, se comprava un balocco, un ninnolo per la Gigliolina, ne comprava uno più bello per Testa-di-rospo. La Gigliolina, vedendo il regalo più bello, si metteva a strillare: "Quello lì lo voglio io!" E Testa-di-rospo glielo dava.

Passato l'anno, la Regina tornò alla Strega. "Maestà, i vestiti sono pronti; ma badate di non scambiarli. Per non sbagliare in questo incantato ci ho messo un diamante di più. "Ho capito." Chiamò le due figliuole e disse: "Ecco due bei vestiti; provateveli subito, per vedere se vanno bene. Questo è il tuo, Testa-di-rospo." Ma la Gigliolina, contati i diamanti e visto che in quello di Testa-di-rospo ce n'era uno di più, comincia a strillare: "Quello lì lo voglio io!" La Regina non permise che lo toccasse. Intanto la Gigliolina continuava a strillare, e pestare coi piedi: "Quello lì lo voglio io! Quello lì lo voglio io!" Accorse il Re e disse: "Non ti persuadi che quello è un pò più grande? Provalo, e vedrai." E stava per infilarglielo. "No, Maestà" disse Testa-di-rospo.

Vestito bello, fatto da poco,
Vestito nuovo fatto di fuoco,
Mamma cagna, mamma cagna,
Siete voi la vera mamma.

"Che significa?" domandò il Re. "O che gli date retta. Testa-di-rospo parla da bestia." Ma il Re disse: "Chi fa danno a Testa-di-rospo, fa il proprio danno. Lei è la vera Reginotta, perché nata la prima." La Regina, arrabbiata per quest'altro smacco, non sapeva più che inventare. E la sua rabbia si accrebbe quando vide arrivare a corte il Reuccio del Portogallo, che andava cercando una principessa reale per moglie. La Regina disse al Re: "Almeno facciamogli vedere tutte e due le figliuole; così sceglierà." Il Re, per contentarla, rispose: "Sia pure." Il Reuccio voleva visitare le principesse negli appartamenti ov'esse abitavano; e la Regina lo condusse prima nel magnifico appartamento della Gigliolina. La Gigliolina, vestita cogli abiti più sfarzosi, sfolgorava come una stella. Il Reuccio disse: "È mai possibile che l'altra principessa sia bella quanto questa? Andiamo a vederla. Ma dove andiamo?" "Nel canile. L'altra abita nel canile." Il Reuccio, stupito, scese giù insieme col Re e con la Regina, e trovò Testa-di-rospo nel canile: "Reuccio, entrate voi solo; c'è posto soltanto per uno." Il Reuccio entrò, e Testa-di-rospo chiuse lo sportello. Mamma cagna si accovacciò lì dietro, ringhiando. Aspetta un'ora, aspetta due, il Reuccio non compariva. La Regina, sopra tutti, era impaziente pel ritardo: Chi sa che brutto scherzo Testa-di-rospo stava per farle! Il brutto scherzo fu che il Reuccio, uscito dal canile, disse al Re: "Maestà, vi chieggo la mano di Testa-di-rospo." La Regina non rinveniva dallo sbalordimento: "Ma che cosa avete fatto tante ore lì dentro?" "Ho visitato tutto il palazzo. Di fronte al palazzo di Testa-di-rospo, il palazzo reale sembrerebbe una stalla." Il Re e la Regina si guardarono, meravigliati. "Reuccio, dite davvero?" "Dico davvero." La Regina dovette inghiottire quest'altra pillola amara, e che pensò? Pensò di accertarsi coi suoi occhi di quello che il Reuccio aveva detto: "Testa-di-rospo, vorrei vedere il tuo palazzo." "Maestà, quel canile lo chiamate palazzo?" "Testa-di-rospo, una notte vorrei dormire con te." "Chiedetene il permesso a mamma cagna: è lei la padrona." La Regina andò a trovare mamma cagna: "Mamma cagna, vorrei visitare il vostro palazzo." "Bau! Bau!" "Che cosa dice?" "Dice di sì. "Mamma cagna, una notte vorrei dormire con Testa-di-rospo." "Bau! Bau! "Che cosa dice? "Dice di sì." La Regina, per entrare nel canile, dovette quasi piegarsi in due. "Ed è questo il tuo gran palazzo?" "Questo: non ve lo dicevo?" La Regina, indispettita, uscì fuori brontolando contro il Reuccio, che le avea dato ad intendere tante sciocchezze; e appena fuori, cominciò a sentire per tutto il corpo un brulichio e un brucìo insoffribile. Era, da capo a piedi, ripiena di pulci; e, siccome montava a corsa le scale e scoteva le vesti, ne seminava per terra cataste che annerivano il pavimento. Così per le stanze del palazzo; ma più scoteva e più gliene brulicavano addosso e se la rodevano viva viva. In un momento, Re, ministri, dame di corte, gente di palazzo, tutti si videro assaliti da quelle bestiole affamate, che davano morsi da portar via la pelle; e tutti urlavano: "Accidempoli alla Regina che volle entrare nel canile!" Il Re corse subito da Testa-di-rospo: "Figliuola mia, dàcci aiuto!" "Mamma cagna, dategli aiuto!" Mamma cagna si mise a girellare per le stanze: "Bau, bau! Bau, bau!" E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei. La Regina non si stimò castigata abbastanza e insistette: "Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te." "Maestà, in un giaciglio!" "Per una volta, potrò provare." Si acconciò alla meglio, e finse di dormire. In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo.

Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata. Avea davanti una fila di stanze, così ricche e così splendide, che quelle del palazzo reale, in confronto, sarebbero parse vere stalle; e Testa-di-rospo che dormiva, in fondo, sopra un letto lavorato d'oro e di pietre preziose, con cortinaggi di seta e lenzuola bianche più della spuma. E non aveva più quella schifosa testa di rospo; ma era così bella, che, al paragone, la Gigliolina, bella e bianca come un giglio, sarebbe parsa proprio una megera. Accecata dal furore, la Regina pensò: ' Ora entro, e mentre dorme, la strozzo colle mie mani. ' Ma il muro si richiuse a un tratto, e lei vi batté la faccia e si ammaccò il naso. Senza aspettare che facesse giorno, tornò su in camera. Sentiva nelle carni un brucìo, un gonfiore!... Stende una mano, e si scorge che, da capo a piedi, era piena di zecche. Si sveglia il Re: è pieno di zecche anche lui. Si svegliano i ministri, le dame di corte, insomma tutte le persone del palazzo reale; son tutti, da capo a piedi, pieni di zecche; e, dal prurito e dal dolore, non possono reggere: "Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!" Il Re corse di nuovo da Testa-di-rospo. "Figliuola mia, dàcci aiuto!" "Mamma cagna, dategli aiuto!" "Mamma cagna, Bau, bau! No, no! Non ne vuol sapere." "Figliuola mia, dàcci aiuto!" Che aiuto poteva dargli? Mamma cagna rispondeva sempre: "Bau, bau! No, no!" Intanto tornava il Reuccio per sposare Testa-di-rospo. Tutti erano occupati a tagliar le zecche, colle forbici, perché strappare non si potevano; facevano più male. E più ne tagliavano e più ne rimaneva da tagliare: "Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!" Allora il Re montò in furore. Afferrò la Regina pel collo, e disse: "Trista femmina, che cosa hai tu fatto, da attirarci addosso tanti guai?" La Regina non ne poteva più e confessò ogni cosa: che avea detto come le Fate non potrebbero farne una pari; che avea comprato quella bambina a peso di oro; che avea fatto fare il vestito incantato per bruciare viva Testa-di-rospo. "Ora son proprio pentita, e domando perdono alla Fata!" Disse appena così, che alla Reginotta cadde giù quella schifosa testa di rospo, e la Gigliolina si trovò vestita come una figliuola di contadini, qual era.

principessa testa di rospo

La Reginotta splendeva come il sole, sicché, per guardarla, bisognava mettersi una mano agli occhi. Le zecche erano sparite, e non se ne vedeva neppure il segno. Il Reuccio di Portogallo e la Reginotta si sposarono; e se ne stettero e se la godettero e a noialtri nulla dettero.

 
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Huang e il genio del tuono

Post n°521 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Il giovane Huang era buono e generoso, tanto generoso che tutti, nel villaggio, tessevano le sue lodi. Questo a Huang non faceva molto piacere, perché, oltre a tutte le altre virtù, aveva anche quella della modestia, perciò cercava di beneficare il prossimo di nascosto, ma la cosa veniva a risapersi lo stesso.
Un giorno il suo amico Sia morì, lasciando sei piccoli fratelli e la vecchia madre. I poveretti non avevano più nessuno al mondo che si prendesse cura di loro, perché i ragazzi erano ancora troppo piccoli per lavorare, e la madre troppo vecchia.
Senza pensarci due volte, Huang decise di provvedere all'infelice famiglia e comprò cibo e vestiti per tutti, provvedendo anche alle altre necessità della casa. Ma sette bocche costano molto, e in poco tempo il giovane vide sfumare tutte le sue ricchezze e si trovò ridotto in miseria.
- Non posso andare avanti così - pensò un giorno. - Sono sempre stato uno studioso, e non so far altro che scartabellare dei libri. Nessuno mi prenderebbe a lavorare, perché non so far niente; non mi resta che dedicarmi al commercio.
Allora ripose libri, pennelli, carta di seta, e sebbene il cuore gli dolesse nel rinunciare così a tutto ciò che lo aveva appassionato fino a quel giorno, si dette d'attorno per negoziare in mercanzie.
Tutti cercarono di aiutarlo nel villaggio, perché avevano capito quando fosse stato un grande il suo sacrificio; e ben presto il giovane Huang incominciò a far fortuna e, da povero letterato che era divenne un ricco mercante.
Un giorno, tornando da Nanchino, si fermò in una locanda per riposare. Ordinò una tazza di tè e stava sorbendola, quando vide entrare nella locanda un uomo altissimo e magro, tanto magro che sembrava proprio uno scheletro rivestito di pelle.
L'uomo sedette in disparte e rimase silenzioso stringendosi la testa fra le mani. Pieno di compassione, Huang si alzò e gli si avvicinò. - Vi sentite male signore? - chiese. Ma l'atro scosse la testa e non rispose.
Allora il giovane mercante si guardò intorno, e visto sopra un tavolinetto un piatto pieno di riso e di altre vivande, lo prese e lo posò davanti allo sconosciuto. L'altro si gettò sul cibo con incredibile avidità, e in un baleno aveva divorato ogni cosa.
- Ancora, amico mio? - domandò Huang.
E senza aspettare risposta ordinò un pranzo completo per due persone. Lo sconosciuto non si fece pregare e spolverò tutto in un batter d'occhio. Quando ebbe vuotato tutti i piatti, si alzò e si inchinò profondamente davanti a Huang.
- Erano tre anni che non saziavo il mio appetito in questo modo! - esclamò.
Huang lo guardò con stupore.
- Vorreste dirmi come vi chiamate e dove abitate? - domandò.
- Non posso rivelarvi il mio nome - rispose lo strano viaggiatore. - e in quando alla mia abitazione, sappiate che non ne ho.
Huang non fece altre domande, poiché comprese che lo sconosciuto non gli avrebbe detto di più; ma essendosi ormai riposato ordinò ai servi di preparare i bagagli per il viaggio. Quando fu sul punto di ripartire, vide con sorpresa che l'uomo magro si preparava a partire insieme con lui.
- Signore, - gli disse con gentilezza - voi non potete venire con me.
- Amico mio, voi siete in grave pericolo, - rispose lo sconosciuto - e io non posso dimenticare il bene che mi avete fatto.
Huang lo tempestò di domande, ma lo straniero non aprì più bocca; allora si rimise in viaggio rassegnato ad avere l'altro come compagno. Si fermarono una seconda volta per mangiare, e Huang ordinò un pranzo abbondantissimo ma lo straniero scosse la testa.
- Io mangio soltanto una volta all'anno - dichiarò - Non vi preoccupate per me.
Sempre più meravigliato, Huang fu persuaso che l'uomo non poteva essere che un genio, e lo trattò con gentilezza anche maggiore. Infine venne il momento di percorrere un lungo tratto di fiume sopra una giunca, ma erano appena imbarcati, che si scatenò una violenta tempesta, con un vento così forte e onde tanto alte che la giunca si capovolse e tutti i passerei furono scaraventati nell'acqua.
Molti di essi affogarono, e sarebbe forse annegato anche Huang, se lo straniero non se lo fosse caricato sopra le spalle, nuotando poi fino a una giunca che, miracolosamente, non si era rovesciata.
Nel frattempo il vento si calmò, e anche le acque ritornarono tranquille; ma tutte le mercanzie erano cadute nel fiume durante il naufragio, e Huang, sebbene fosse salvo, ormai era ridotto povero in canna. Salì a bordo angosciato, pensando con rammarico a tutte le sue mercanzie perdute, quando vide lo sconosciuto salire sul bordo dell'imbarcazione e gettarsi nel fiume a testa in giù.
Scomparve fra le acque, e riemerse poco dopo reggendo fra le braccia una parte dei bagagli di Huang. Li lasciò sul ponte e si tuffò di nuovo. Così a poco a poco Huang si trovò in possesso di tutti i suoi beni. Infine lo straniero risalì a bordo.
- Non so proprio come ringraziarvi - esclamò Huang commosso e ancora stupefatto.
- Ho soltanto saldato il mio debito, -rispose lo straniero - e adesso posso lasciarvi. - Oh, no! - supplicò Huang. - Rimanete con me e termineremo insieme il viaggio! Sembrava che l'uomo non chiedesse di meglio; subito aiutò Huang a contare e riordinare i bagagli e domandò: - Manca nulla? - Soltanto uno spillone d'oro - rispose il giovane mercante.
L'uomo si tuffò subito e poco dopo riapparve stringendo in mano lo spillone. Huang, più che mai sbalordito, non sapeva come dimostrare la propria riconoscenza allo straniero. Infine pregò: - Se non sapete dove andare, venite a casa mia e vivete con me. L'uomo accetto e, giunti al termine del viaggio, si sistemarono insieme nella casa di Huang.
Quando furono passati dodici mesi dal giorno del loro incontro, Huang fece preparare un banchetto abbondantissimo e prelibato, poiché ricordava che lo straniero mangiava soltanto una volta all'anno. Ordinò per cento persone, ma l'uomo divorò tutto in un baleno. Quando ebbe finito, si inchinò ancora profondamente davanti a Huang, e lo ringraziò con affetto.
- Non ho mai conosciuto un uomo come voi - gli disse. - Voi pensate sempre al bene degli altri, e mai al vostro!
Huang si sentì tutto confuso, perché non gli sembrava di meritare quegli elogi, ma l'uomo proseguì:
- Tra poco dovrò lasciarvi, e questa volta per sempre. Sappiate che io sono il Genio del Tuono, e fui condannato a errare per cinque anni sulla terra.
Udendo questo Huang si sentì tutto confuso, perché non gli sembrava di meritare quegli elogi, ma l'uomo proseguì: - Esprimete qualsiasi desiderio, e io lo esaudirò. In quel momento il cielo si coperse di nubi, e si sentì il rombo del tuono. Allora Huang ebbe un idea. - Vorrei fare una passeggiata fra le nuvole.
Il Genio del Tuono si mise a ridere, e rideva ancora quando Huang si trovò seduto sopra una nuvola che viaggiava dolcemente nello spazio infinito. Sulle prime ebbe una gran paura, ma poi alzò gli occhi e vide nella volta celeste una miriade di stelle splendenti come gemme in un diadema.
Protese la mano, e la stella più vicina gli cadde nella manica. Poi, guardandosi intorno, vide venire un carro dorato, chiuso da cortine di seta grigia e trascinato da due draghi che galoppavano sollevando e abbassando il dorso. Le loro code ondeggianti facevano il rumore che produce una frusta sopra un piatto di bronzo.
Attraverso le cortine si scorgeva dentro il carro una fata bellissima che aveva vicino un grosso tino pieno d'acqua. Dietro il carro venivano molte persone, e fra esse, c'era il Genio del Tuono. Questi si avvicinò a Huang e lo prese per mano sorridendo; poi lo condusse verso il carro.
- Questa è la Fata della Pioggia - disse. - In questo momento è molto adirata con gli uomini e ha deciso di non lasciare più cadere sulla terra una goccia d'acqua, condannando così le campagne a una tremenda siccità.
Poi il Genio del Tuono si inchinò alla fata e disse, indicando Huang: - Questo giovane è un mio amico.
La Fata abbassò la testa sorridendo graziosamente, e indicò a Huang alcune secchie di rame che stavano appese intorno al carro. Il giovane ne prese una, poi si rivolse al Genio per avere spiegazioni.
L'uomo fece un gesto, e improvvisa mente le nuvole si squarciarono; Huang poté vedere il suo villaggio e le campagne intorno, arse per la siccità. Allora capì ciò che doveva fare: immerse la secchia nel tino, senza che la Fata si opponesse, lasciò cadere l'acqua nello squarcio delle nuvole e ripeté quel gesto alcune volte. Alla fine il Genio disse: - Adesso dovete ritornare sulla terra. Dietro il carro pende una corda; afferratevi a quella e non abbiate paura.
Veramente Huang aveva moltissima paura; ma quando si accorse che tutti ridevano intorno a lui, si fece coraggio, afferrò la corda con le due mani e si lasciò scivolare, un attimo dopo si trovò nella sua stanza, come se nulla fosse accaduto. Ma il suo amico non c'era più. Allora uscì di casa, e vide che nel villaggio tutti erano allegri e festosi!
- Finalmente! - gli gridò un amico ridendo felice. - La campagna moriva di sete, ma oggi è venuta la pioggia e il nostro raccolto è salvo.
Nessuno, naturalmente, sospettava che quella pioggia era dovuta a Huang, e il giovane si guardò bene dal raccontare a chicchessia la sua straordinaria avventura.
Alla sera, mentre si spogliava per andare a letto, vide una pietra scura scivolargli fuori dalla manica. Allora si ricordò della piccola stella che aveva staccata dalla volta celeste. Era spenta e fredda, ma decise di tenerla come ricordo; perciò la posò sul tavolino e andò a dormire. Ma durante la notte qualche cosa lo risvegliò. La stella, sul tavolo, brillava di una luce vivissima, e tutta la casa ne era illuminata. Stupefatto, Huang si avvicinò,ma accadde un altro prodigio: la stella parve ingrandire e trasformarsi, e infine divenne una giovane e bellissima fanciulla che gli sorrideva dolcemente.
- Mio signore - disse con voce che sembrava una musica, - io mi chiamo Ferma-Nuvole, e il Genio del Tuono mi ha mandata da voi perché io sia la vostra sposa.
Huang non riusciva a riaversi, tanta era la commozione e la gioia; ma infime ritrovò la voce, e chiamati i servi, comandò che fosse preparato quando occorreva per la cerimonia delle nozze.
Il giorno dopo amici e parenti accorsero a festeggiare la giovane coppia, e fu imbandito un sontuoso banchetto. Mentre gli sposi si scambiavano la promessa, si sentì un forte rombo di tuono e cadde una pioggia leggera, fresca come la rugiada, lucente come diamanti. Erano i Geni delle Nuvole che mandavano i loro doni agli sposi.

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Ceneraccio e i suoi bravi aiutanti

Post n°520 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un re, il quale aveva sentito parlare di una certa nave che era in grado di navigare veloce sia per terra che per mare, perciò ne desiderava una anche lui; così, proclamò per tutte le chiese del paese che all'uomo che fosse stato capace di fabbricargliene una identica, avrebbe concesso sua figlia in isposa, e metà del regno. Naturalmente, la metà del regno e la bella principessa per moglie facevano gola parecchio, com'è facile intuire, e quindi, ci provarono in tanti, ma nessuno ci riuscì.

Ora, c'erano tre fratelli che vivevano in una capanna nei boschi vicini; il maggiore si chiamava Per, il fratello mezzano Pål, e poi c'era il minore, che si chiamava Espen, detto Ceneraccio, poiché se ne stava tutto il giorno a scavare la cenere. Ma una domenica, quando il proclama del re fu pubblicato, il caso volle che si trovasse lì anche lui. Quando tornò a casa e raccontò tutto ai fratelli, Per, il maggiore, andò dalla mamma a chiedere provviste, perché aveva deciso di partire per vedere di costruire la nave, e conquistare così la principessa e la metà del regno. Partì con il suo sacco di viveri sulle spalle, e a metà strada incontrò un vecchio tutto curvo e rugoso che gli chiese: "Dove stai andando?" "Sto andando nel bosco per fare una ciotola di legno per mio padre, a lui non piace mangiare con noi." rispose. "E ciotola sia!" disse il vecchio, e chiese poi: "Che cos'hai nello zaino?" "Letame." rispose Per. "E letame sia!" replicò il vecchio. Poi Per se ne andò nel bosco a tagliar querce, ma per quanti alberi abbattesse e tagliasse, non riuscì a fabbricare che ciotole e ciotole, una dopo l'altra. Quando fu ora di pranzo aprì lo zaino per tirar fuori il cibo che si era portato, ma al posto delle pietanze ci trovò i sassi, e dal momento che non aveva più nulla da mangiare e la nave non era riuscito a costruirla, si stancò presto di lavorare, così, rimise l'ascia nello zaino e se ne tornò a casa.

Poi fu la volta di Pål; volle anche lui tentare la fortuna, così, chiese alla mamma un pò di cibo e s'incamminò verso la foresta, quando, a un certo punto, incontrò il vecchietto rugoso che gli chiese dove andasse, ed egli rispose: "Vado nel bosco per fabbricare una tinozza di legno per il nostro maialino." "E tinozza sia!" rispose quello. Poi gli chiese cosa portava nello zaino, e Pål rispose: "Letame." "E allora letame sia!" disse il vecchio. Così, Pål andò nella foresta, e cominciò ad abbattere a tagliare alberi facendo del suo meglio, ma tutto quel che gli riuscì di cavare furono solo tinozze e tinozze all'infinito. Tuttavia non rinunciò là per là, e continuò finché all'improvviso gli venne fame, e allora prese il suo zaino, ma non c'era ombra di cibo. Si arrabbiò tanto che sbatté lo zaino contro un tronco, prese sottomano la sua ascia e se ne filò dritto a casa.

Tornato anche Pål, anche l'ultimo fratello, Ceneraccio, volle tentare la sorte; andò dalla mamma a chiedere un pò di cibo per partire anche lui alla volta del bosco. "Forse riuscirò a costruire la nave e a ottenere la ricompensa", disse. "Sì, proprio tu pensi di riuscire in tale impresa! Tu, che non sai far altro che scavare nella cenere tutto il giorno! No, niente provviste per te!" replicò la donna. Ma il ragazzo non si arrese, e insistette così tanto che alla fine ottenne il permesso di andare; di cibarie la madre non gliene concesse, ma egli prese di nascosto del pane d'avena e della birra scadente, e si avviò per il bosco. Aveva fatto poca strada, quando si imbatté nel solito vecchio, tutto decrepito. "Dove stai andando?" gli chiese quello, e Ceneraccio rispose: "Sto andando nella foresta a far legna in abbondanza, per poter costruire una grande nave per il re, che vada veloce sia per terra che per mare, poiché egli ha promesso la principessa in sposa e metà del regno a colui che riuscirà a portargliene una uguale." "Che cos'hai nello zaino?" chiese allora il vecchio. "Niente di particolare, solo qualche cosa da mangiare." rispose Ceneraccio. "Se mi dai un pò delle tue provviste, in cambio ti aiuterò a costruire la tua nave." disse il vecchio. "Volentieri," rispose Ceneraccio, "ma non sarà un gran pasto, sai. Ho solo un paio di pagnotte d'avena e una bottiglia di birra rancida." Ma al vecchio questo non importava, gli bastava averne un pò, e in cambio avrebbe aiutato Ceneraccio. Quando arrivarono alla grande quercia della foresta, il vecchio disse: "Ora devi solo tagliare una scheggia del tronco e poi rimetterla a posto, e fatto questo, potrai anche coricarti e dormire." Ceneraccio fece come gli aveva detto il vecchio, si mise a dormire, e nel sonno gli sembrava di udire in sottofondo, rumori di taglio, martellamento e segatura, ma non riuscì a svegliarsi fino a quando lo chiamò il vecchio. E al risveglio trovò la sua nave completata. "Sali a bordo, adesso, e carica con te tutte le persone che incontrerai da qui al palazzo reale." disse il vecchio. Espen Ceneraccio non finì più di ringraziare il vecchio per quel che aveva fatto per lui, e salpò con la sua nave, come gli aveva indicato il vecchio.

Poco dopo la partenza, incontrò uno spillungone pelle e ossa, seduto su una roccia, mentre mangiava sassi. "Chi sei tu, che te ne stai qui a mangiarti i sassi?" chiese Ceneraccio. Quello gli rispose che non riusciva mai a saziarsi abbastanza, cosicché da essere costretto ad alimentarsi di sassi, e poi chiese il permesso di salire a bordo con lui; Ceneraccio disse di sì, e l'uomo portò dietro qualche scorta di sassi. Dopo un pò, incontrarono un ragazzo disteso su un pendio, intento a succhiare tappi. "Chi sei, tu, che te ne stai lì a succhiare tappi?" chiese Ceneraccio. "Oh bhè, quando non si ha una botte, bisogna accontentarsi dei tappi." rispose quello. "Ho sempre così sete, che non mi basta mai la birra e il vino che bevo." rispose, e poi chiese a Ceneraccio il permesso di seguirli, e Ceneraccio disse di salire. Il ragazzo salì a bordo e si portò dietro i suoi tappi. Dopo un pò, incontrarono un uomo con un orecchio solo, disteso con la testa per terra, ad ascoltare. "Chi sei tu che te ne stai sdraiato ad ascoltare la terra? A cosa ti serve?" chiese Ceneraccio. "Sai, ho un udito talmente fino che riesco a sentire il rumore dell'erba che spunta." rispose, e chiese di potersi unire a loro. Ceneraccio lo invitò a salire e proseguirono il cammino. Dopo che ebbero navigato ancora, incontrarono un tizio che stava prendendo la mira con un fucile. "Che tipo strano sei, tu, che te ne stai lì a puntare quell'arma!" disse Ceneraccio, e quello: "Ho una vista acutissima, tanto che potrei vedere fin dove arriva l'orizzonte." e chiese di poter salire: Ceneraccio disse di sì e ripartirono. A forza di navigare, trovarono poi un uomo che saltava da una gamba sola, e attaccati all'altra aveva sette pesi. "Chi sei tu?" chiese Ceneraccio, "perché stai lì a saltare così?" "Sai, i miei piedi sono così ben allenati, che se mi mettessi a correre, potrei arrivare fino alla fine del mondo in meno di cinque minuti." Poi gli chiese se poteva salire anche lui sulla nave, e Ceneraccio lo face salire, e raggiunse in un battibaleno tutti i suoi nuovi compagni di viaggio. Dopo che ebbero navigato un pò, incontrarono un uomo che si teneva la mano davanti alla bocca. Ceneraccio volle sapere perché faceva così, e a che gli serviva, e quello rispose: "Oh, sai, io ho sette estati e quindici inverni dentro al mio corpo! Perciò devo tenerli bene stretti dentro, altrimenti distruggerebbero il mondo in un batter di ciglia." Poi chiese il permesso di andare con loro, e Ceneraccio gli disse di salire.

Finalmente, giunsero al palazzo del re. Ceneraccio si precipitò dal re, e gli disse subito che aveva costruito la nave che aveva richiesto, così, ora voleva, come promesso, sua figlia in sposa e la metà del suo regno. Ma il re non era certo molto lieto all'idea di dare in moglie sua figlia a quel cencioso tutto nero e fuligginoso, così rispose che voleva aspettare ancora un pò, e il patto fu che gli avrebbe concesso la mano della principessa solo se e quando egli gli avesse svuotato l'intera dispensa, che contava ben trecento barili stracolmi di carne. "Se ci riesci entro domani," disse il re, "ti darò in sposa mia figlia." "Bene, ci proverò, ma avrò bisogno dell'aiuto di uno dei miei compagni; mi concedete di portarlo con me?" Il re, sicuro che l'impresa fosse impossibile, gli disse che poteva portarseli anche tutti, e diede il permesso. Ma a Ceneraccio serviva soltanto lo smilzo che mangiava i sassi perché aveva sempre fame, e lo portò con sé nella dispensa del re, e quello divorò subito tutto, lasciando soltanto sei piccole spallette di montone affumicato, uno per ognuno dei suoi compagni. Poi Ceneraccio tornò dal re a comunicargli che la sua dispensa era stata svuotata, sicuro che avrebbe avuto la mano della principessa. Il re andò a controllare, e vide che era tutto vero, ma ancora non se la sentiva di concedere sua figlia a quel fuligginoso forestiero, e dettò una nuova condizione: per avere la principessa, Ceneraccio doveva prima bere tutto il vino e tutta la birra della sua cantina, ossia trecento barili dell'uno e dell'altra. "Ci proverò" rispose Ceneraccio, e chiese di potersi valere dell'aiuto di un altro dei suoi compagni. Il re, pensando che non ci fosse uomo al mondo in grado di ingerire tanto alcool, disse che se li poteva portare pure tutti, e accordò il permesso. Ma Ceneraccio portò con se soltanto uno dei suoi, il ragazzo che succhiava i tappi, e che aveva sempre sete. Il re li chiuse nella cantina, e il ragazzo si scolò, botte dopo botte, tutto il vino, lasciandone solo qualche goccia per i suoi compagni. Il mattino dopo, Ceneraccio andò a riferire al re che il compito era stato compiuto; il re constatò incredulo che era la verità, ma di concedere la sua bella figlia in sposa a quel mendicante proprio non se la sentiva, così, dettò una nuova condizione. Disse che se in dieci minuti fosse riuscito a riportare dell'acqua della fine del mondo per il thè della principessa, convinto che quella fosse davvero una missione impossibile, avrebbe mantenuto la promessa. "Ci proverò anche questa volta", rispose Ceneraccio. Così, portò con sé l'uomo che saltellava con una gamba sola e aveva i sette pesi dall'altra, e gli disse di depositare per un pò i sette pesi perché doveva mettersi a correre con entrambe le gambe, per riuscire a portare l'acqua dalla fine del mondo per la principessa in dieci minuti. Quello allora lasciò a terra i pesi, prese di corsa un secchio e volò via, alla velocità della luce. Passò diverso tempo, ma ancora non si vedeva tornare; quando mancavano appena tre minuti, il re, tutto soddisfatto, si sfregò le mani, sicuro di aver vinto. Ma Ceneraccio corse a chiamare quello che aveva l'udito fino che riusciva a sentire l'erba spuntare, e lo pregò di mettersi a sentire con le orecchie fino alla fine del mondo, per sapere che fine avesse fatto l'altro compagno. "Si è addormentato vicino al pozzo," disse, "lo sento russare mentre un troll gli spidocchia la testa." Allora, Ceneraccio chiese a quello che sapeva sparare fino alla fine del mondo, di prendere la mira e colpire con il suo fucile il troll. Quello fece proprio così, e sparò dritto all'occhio del troll, il quale ruggì e fuggì via, così, quello che era andato a raccogliere l'acqua per il the della principessa, si svegliò, attinse al pozzo e in un attimo fu di ritorno, proprio quando mancava ancora un minuto. Così, Ceneraccio si precipitò dal re con l'acqua richiesta, sicuro che questa volta avrebbe avuto la mano della principessa. Ma al re quello sporco e fuligginoso potenziale genero proprio non andava a genio, così, disse ancora che aveva trecento braccia di legname che servivano per seccare il grano nell'essiccatoio, e disse: "Se sarai in grado di star lì a bruciare tutta quella legna, avrai in sposa mia figlia, non c'è dubbio." promise, sicuro che anche questa volta si trattasse di un'impresa impossibile. Ceneraccio accettò anche questa sfida, e portò con sé quello che aveva le sette estati e i quindici inverni nel corpo, ma il re, per essere sicuro di non perdere, aveva dato ordine di dare un grande falò. Dentro sarebbero stati spacciati, ma fuori non potevano uscire, perché il re li aveva fatti chiudere dentro sprangando la porta con un paio di chiavistelli di riserva, così, Ceneraccio disse al compagno: "Tira fuori sei o sette inverni, così raffredderanno un pò l'aria e alla fine sarà tiepida." Così facendo, riuscirono a sopravvivere, ma siccome fuori era ormai notte, passarono dal caldo soffocante all'addiaccio, così, Ceneraccio chiese al compagno di tirar fuori un paio d'estati per riscaldare un pò l'aria, e resistettero fino a mattina. Il mattino dopo, sentendo il re che armeggiava lì fuori, disse al compagno: "Ora devi tirar fuori altri due inverni, ma fai in modo che l'ultimo gli vada a sbattere proprio in faccia." Così fecero, e quando il re aprì la porta dell'essiccatoio, convinto di trovarli carbonizzati, li vide che stavano seduti a battere i denti dal freddo, e il compagno di Ceneraccio buttò fuori l'ultimo inverno dritto in faccia al re, il quale si ritrovò con un gelone enorme in pieno volto. "Posso avere la principessa, adesso?" chiese Ceneraccio. "Sì, sì, per carità, prenditela subito, e anche il regno!", rispose il re, che a quel punto non osava più dire di no.

Così, festeggiarono le nozze e si diedero alla pazza gioia, e spararono i fuochi artificiali. Mentre andavano in giro a cercare dinamite per spararne ancora, caricarono me, mi diedero un piatto di fiocchi d'avena e del latte in un cestino, e mi spararono fino a qui, così ho potuto raccontarvi com'è andata.
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Nel dubbio (PIrandello)

Post n°519 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Nella sala terrena del grazioso villino in cima al poggio, gaja di luce e del tenero verde dei bambù sorgenti da un antico sarcofago, gaja dello sprillo d’una fontanella di marmo, la vecchia minuscola marchesa donna Angeletta Dinelli, seduta presso una piccola lucida scrivania di ghisa nichelata, sonò per la terza volta il campanello, tenendo tuttavia sul naso gli occhiali e in mano la lettera della figliuola, che scriveva da Roma.
La testolina incuffiata della marchesa tremolava quella mattina più del solito con tutti i riccioli argentei che le pendevano intorno alla fronte, e anche le piccole mani deformate miseramente dall’artritide e riparate da mezzi guanti di lana.

– Ma il commendatore? – domandò con vocetta agra di stizza alla cameriera che si presentò su la soglia.

– Avvertito, signora marchesa. Finiva di vestirsi. Ha detto che sarebbe venuto giù subito.

– Subito? Come i vecchi, doveva dire.

– Se crede...

– No, lascia, verrà.

E donna Angeletta tornò a rileggere per la quarta volta la lettera, mentre una voce cornea dietro la tenda della finestra ripeteva:

Verrà... Federico, Federico... Povero Cocò... verrà... Com–men–da–to–re...

La stupidissima bestia sul trespolo pareva volesse canzonare la marchesa, imitandone i tre toni di voce, con cui ella soleva chiamare il commendator Morozzi: quello frettoloso, confidenziale (Federico, Federico), quello di commiserazione un po’ derisoria (Povero Cocò) e l’ultimo, grave, e per così dire, di parata (Com–menda–to–re).
Pareva; perché il pappagallo poi aveva questo di buono, che non capiva nulla; e non si sognava dunque neppure di canzonar la padrona. Che sugo, del resto, ci sarebbe stato, anche per un pappagallo, a canzonare una vecchina già presso ai sessant’anni, che se un tempo aveva dato pretesto a ciarle non al tutto maligne in società, da tanti anni ormai viveva ritirata e tranquilla come una tartarughina in quella sua amena e solitaria villetta umbra?
Veramente donna Angeletta Dinelli, da tanto tempo vedova, avrebbe potuto sposare il commendator Federico Morozzi. Non l’aveva fatto, perché in realtà viveva con lui senza troppo scandalo quasi maritalmente anche quando era in vita il marchese, il quale, dopo la nascita dell’unica figliuola, se n’era scappato a prender aria a Parigi: tant’aria che n’era scoppiato quattr’anni dopo; e non ci sarebbe stato niente, proprio niente di male, se in questi quattr’anni non avesse dato fondo alle sue rendite e a buona parte di quelle di lei.
Donna Angeletta era come una bambola, allora: e se non avesse avuto accanto il Morozzi, senza dubbio si sarebbe ridotta all’elemosina, con la figliuola. L’affetto, lo zelo, la protezione del commendatore per la minuscola marchesa erano stati molto apprezzati in Roma; e quasi quasi, era sembrato non solamente scusabile, ma logico e inevitabile che qualcuno lì, in quella casa, si fosse messo a far da uomo sul serio, perché tanto lei, la marchesa, quanto lui, il marchesino, nel presentarsi la prima volta in società, avevano fatto la figura d’una coppia di ragazzetti parati per ischerzo a far da sposini, per una graziosa mascherata carnevalesca.
Senza l’intervento del commendatore, uomo serio, chi sa come sarebbero andati a finire quei due bambocci! Già s’era veduto: il marchesino, quando a un certo punto aveva voluto far l’uomo, era andato a rompersi il collo a Parigi.
Ammirabile era adesso per tutti l’esempio che quei due vecchi, il commendatore e la marchesa, offrivano d’una così lunga e perfetta fedeltà di amore, della compagnia piena di squisite attenzioni che entrambi a quell’età si tenevano ancora, in quel loro dolce ritiro.
Egli si dava tuttavia amorosissima cura della persona e voleva che anche lei se ne desse, in difesa, anzi a dispetto del tempo. Voleva che questo non gliela guastasse troppo, la sua povera bambola vecchierella, non approfittasse troppo dell’estrema gracilità di lei. Quelle povere manine! Se avesse potuto riparargliele, come già aveva fatto coi capelli! Perché non erano mica veri quei ricciolini argentei sotto la cuffia... Ma il cuore, il cuore sopra ogni altra cosa, avrebbe voluto ripararle, il cuore che le s’avvizziva troppo. Si offendeva tanto il commendator Morozzi, se donna Angeletta s’insaccava nelle spalle e, socchiudendo gli occhi, sospirava:

– Ormai, caro, ormai...

Che ormai! che ormai! Come un giovane innamorato, nelle tepide sere di primavera, egli voleva passeggiare a braccetto con lei, sotto la luna, pei viali inghiajati del giardino davanti la villa. Alto e robusto, doveva chinarsi un po’ da una parte per dar braccio a lei così piccina. Pareva che davvero credesse, che ancora la luna dal cielo facesse lume per loro e per loro odorassero le rose del giardino e scampanellassero i grilli lontani.
La vecchiaja a poco a poco rilascia tutto ciò che la giovinezza si era preso del mondo. Giovani, crediamo infatti che sia nostra ogni cosa, nostro o fatto per noi tutto il mondo. Vecchi, lasciamo che il mondo se lo prendano gli altri o credano di prenderselo; e ridiamo di questo inganno, d’un riso che non può non essere amaro, considerando che fu anche nostro e che ne fummo felici.
Così pensava ormai donna Angeletta che, se non questa, molte cose aveva già imparato dal suo vecchio amico, oltre a quelle altre che gli anni e i malanni le avevano fatto entrare a poco a poco nella testolina incuffiata, mentre negli ozii invernali si carezzava i mezzi guanti di lana protettori delle povere mani. E perciò spesso sospirava:

– Povero Cocò!

Tanto spesso, che il pappagallo aveva già imparato a ripeterlo così bene per conto suo.
Finalmente il Morozzi entrò nella sala, stropicciandosi le grosse mani pelose:

– Eccomi qua, eccomi qua...

Dopo il bagno, una passeggiatina svelta svelta in giardino... No? Perché no, quella mattina?
E il commendator Morozzi tese gl’indici e, con un gesto che gli era solito, li accostò pian pianino fino a toccarsi le punte insegate dei maschi baffoni grigi, come per accertarsi se stessero a posto.
Non poteva star fermo un minuto; a costringerlo, alzava una gamba, o spingeva un gomito, o stirava una spalla, o storceva la bocca, o contraeva una guancia e poi dàlli con gl’indici a toccarsi le punte dei baffi, facendo il bocchino.

– Nudo, nudo, nudo, cara mia; carissima mia, nudo! Potevo venir giù? – rispose frettolosamente al rimprovero di donna Angeletta.

Le si accostò, si chinò su lei, le tolse dal naso gli occhiali, come se volesse baciarla senza farglielo vedere, e:

– Che abbiamo? che è avvenuto?

– Nelda, – disse donna Angeletta, ponendogli una ma no sul petto per tenerlo discosto. – Guarda che letterona...

– A me? a te?

– A me, confidenziale. Da’, da’ gli occhiali... Dove li hai messi?

Il Morozzi glieli porse; donna Angeletta tornò a inforcarseli, e...

Mammina mia bella, – cominciò a leggere, – promettimi prima di tutto che non farai leggere questa lettera al commendatore...

– Brava! – esclamò questi, accigliandosi.

Scrivo a te solamente, – seguitò ella, – e voglio che tu laceri la lettera appena avrai finito di leggerla. Si tratta...

Donna Angeletta s’interruppe; guardò di su gli occhiali il Morozzi, e:

– Non te la leggo, per ubbidire, – disse. – Si tratta che io dovrei fingere di non aver ricevuto questa lettera e che, discorrendo così... tra noi, mi venisse a un tratto la curiosità di sapere se Giulio...

– Ah, – esclamò egli aggrondato, offeso, – si tratta di suo marito?

– Già... Ma non ci capisco nulla, – disse donna Angeletta.

– Brava! Nulla ci capisci tu; nulla voglio saperne io, – soggiunse il Morozzi, – me ne vado subito in giardino!

– Aspetta! – esclamò donna Angeletta, accennando di levarsi. – Nelda scrive a me, non perché non si voglia confidare con te, ma per non darti un dispiacere: me lo dice in fondo alla lettera espressamente. Sempre furie! sempre furie!

– Che dispiacere? – domandò il Morozzi, voltandosi, di nuovo con gl’indici tesi su le punte dei baffi. – Le solite sciocchezze!

– Già! Perché tu sempre hai protetto Giulio, – rispose la marchesa.

– Protetto? io? – esclamò il commendatore. – Perché se lo merita, se mai... Sta’ pur sicura, bella mia, che non ha fatto nulla di male, Giulio; perché, se qualcosa avesse fatto di male, Nelda, la signora baronessa, avrebbe scritto a me, a me, a me, non a te, per farmi un piacere!

– E se non fosse cosa d’ora? – disse donna Angeletta. – Se si trattasse d’un vecchio peccataccio, che tu sai ?

– La Zena? – domandò allora il Morozzi. – Si tratta di quella povera diavola?

– Ecco! – fece la Dinelli.

– Ma se è tutto finito, strafinito, arcifinito! Ancora? Perbacco! Se tutto era già finito due anni prima, due, due anni prima che Giulio sposasse la Nelda! A quella povera diavola avevo dato marito io...

– E il figlio? – domandò donna Angeletta, con un tono che lasciava intendere che qui lo aspettava.

– Il figlio? – disse il Morozzi, restando. – Che figlio? il figlio che Giulio ebbe da...?

– L’ebbe di sicuro? – tornò a domandare donna Angeletta. – Ecco il punto! Nelda vuol sapere proprio questo.

– Se Giulio ebbe un figlio? E perché?

– Perché... il perché non lo dice. Ma io temo che vogliano giocargli qualche tiro. Sapessi come insiste Nelda, perché tu prenda esattissime informazioni, fino ad acquistar la certezza assoluta che il figlio sia stato proprio di Giulio. Capirai che, avendo avuto da fare con una donna come...

– Che! ché! che! – proruppe a questo punto il commendator Morozzi. – La Zena? Ma fammi il piacere! Quella povera figliuola? Diciassette anni aveva... figlia d’onesti contadini! Incapace! E poi, se il bambino è morto...

– Morto?

– Morì dopo due mesi.

– E allora? – disse donna Angeletta, non sapendo più che pensare.

– Da’ qua la lettera, – riprese con fare sbrigativo il commendatore. – Andiamo per le spicce.

S’accostò alla finestra per legger meglio. Doveva leggere a distanza, a braccio teso, perché – prèsbite – s’ostinava a credere di non aver punto bisogno degli occhiali. S’impostò lì in un atteggiamento eroico; ma a un tratto diede un balzo. Il pappagallo, dietro la cortina, per fargli a suo modo una carezza, gli aveva pinzato la mano con cui reggeva la lettera.

– Brutta bestiaccia! – gridò. – Parola d’onore, le tiro il collo qualche volta...

Tutti e due, donna Angeletta e il pappagallo, gli risposero con lo stesso tono:

– Povero Cocò!

– Permetti? – disse allora il Morozzi su le furie. Vado a leggere in giardino.

E uscì a passi concitati.
Rideva ancora, rideva forte, quando, di lì a mezz’oretta, rientrò in sala, agitando la lettera.

– Ma non hai capito nulla? proprio nulla?

Donna Angeletta lo guardò un pezzetto, un po’ urtata da quel riso, perplessa, ma già inchinevole a sorridere anche lei della propria costernazione.

– Tu hai capito?

– Io? Ma perfettamente! – esclamò il commendatore. – È così chiara la ragione della lettera... Si capisce dal tono, scusa! Di’ un po’, quanti anni sono che Nelda è maritata?

– Quattro, a ottobre.

– E niente figliuoli! – soggiunse subito il Morozzi. – Nelda non somiglia mica a te! Nelda, dico... se non mi passa, è alta quanto me, e... dico, florida, robusta come me... Non si persuade, che possa mancare per lei. Capisci adesso?

– D’aver figliuoli?

Il Morozzi le rispose con un gesto espressivo delle mani, e aggiunse:

– Ma s’è ricordata, com’ella dice, che da ragazza «colse a volo» qualche discorso tra me e te, sul conto di Giulio, qualche accenno a quel trascorso giovanile di lui, alla nascita di quel bambino... Vedi che ne parla cosi, senza darci alcun peso, mentre insiste molto invece su le ricerche scrupolose da fare per venir bene in chiaro se il figlio fosse proprio di Giulio... Ne dubita, è evidente! E perché ne dubita?
Tornò a rider forte il commendator Morozzi e concluse:

– Sciocchezze! sciocchezze! sciocchezze!

– Risponderò allora... – prese a dire donna Angeletta.

E il commendatore:

– Risponderai così: Sciocchezze, dice Federico; dice che... già no! non dico nulla, io, poiché la signora baronessa s’è vergognata di rivolgersi a me: ma glielo puoi dire tu, da te, forte, che è una sciocchissima creatura! Non sono ancora quattr’anni! Godete finché siete giovani, senza pensieri! I figliuoli verranno... S’è dato il caso d’aver figliuoli anche dopo quindici anni. E quanto a Giulio dille che non mi faccia il torto di dubitare d’un marito che le ho scelto io! Il figliuolo era proprio suo e ci posso metter le mani sul fuoco, perché quella Zena, povera figliuola... ma figurarsi! So io quel che mi ci volle per rimediare... Suo, suo, suo; si metta il cuore in pace la signora Nelda e aspetti...

– Paziente e fiduciosa... – Ecco, benissimo, così! Paziente e fiduciosa.

Quattro giorni dopo, arrivò da Roma a donna Angeletta Dinelli, quest’altra letterina breve breve della figliuola:

Mammina mia bella,
Due paroline in fretta e furia per non tenerti in pensiero.
Che predicone m’hai fatto, tu mammina mia piccola e cara! E fuor di luogo, sai?
Non tenere più in alcun conto la mia lettera precedente, che tu avrai lacerata. Te l’ho scritta... non so più neanch’io bene perché. Fisime!
Sappi che già... non vorrei dirtelo ancora, ma temo, temo forte che, da due mesi, tu abbia cominciato a esser nonnina, ecco!
Aspetta ancora un po’ per annunziarlo al Commendatore.
Un bacio in fretta dalla tua

Nelda


– E allora? – domandò il commendator Morozzi, sgranando tanto d’occhi, appena donna Angeletta ebbe finito di leggere. – Tutto quell’impegno di sapere se Giulio aveva proprio avuto un figliuolo?

Donna Angeletta si portò alla fronte una di quelle sue povere mani; poi, sotto lo sguardo di lui ancor pieno di stupore, disse:

– Chi sa che storie, pazzerella...

E non disse altro.
Ma questa volta aveva capito lei, invece.
Che cosa? Non volle dirlo; se lo chiuse in cuore, per non amareggiare invano dopo tanti anni il suo povero Cocò.
Era sicurissimo infatti, il povero Cocò, che la Nelda fosse sua figlia; e lei non aveva mai detto una sillaba per toglierlo da questa sicurezza. Ma ne era ugualmente sicura lei?
Conviveva allora anche col marito, col marchesino...
Che senso di smanioso tormento, quali fitte di rimorso le aveva cagionato il non sapere, il non poter dire neanche a se stessa a chi appartenesse veramente il nuovo essere che cominciava a viverle in grembo; a chi dovesse lei stessa le ansie trepide, i dolori della maternità, da cui, pur caduta, quantunque in peccato,: si sentiva dinanzi a se stessa nobilitata; a chi avrebbe dovuto domani le gioje che dal frutto delle proprie viscere le sarebbero venute! E che strazio anche dipoi, nel vedere, nel sentire la propria creatura ignara tendere le manine e dir babbo a chi forse non era tale!
Ah, per perversa che sia una moglie, e quantunque nemica, a torto o a ragione, del proprio marito, vorrebbe aver sempre la certezza che appartiene a questo il frutto delle proprie viscere, non fosse altro per non sentir lo strazio della menzogna incosciente su le tenere e pure labbra della propria creaturina!

Ora Nelda...
Ma poteva confidar queste cose donna Angeletta Dinelli al commendator Federico Morozzi?

 

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Buon sangue non mente2

Post n°518 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Ricordate i miei foschi presagi su Lucio Cornelio Capricorni,lettori miei?Beh,ci avevo preso in pieno!
Benchè abbia solo 18 mesi il nostro ha di gran lunga superato le imprese del fratello Anselmo e si avvia a diventare in BernabòTrogoloni del ventunesimo secolo.
Non ci credete? Leggete un po'
LUNEDI'- Lucio Cornelio ha infiilato in lavatrice gli animali di casa (tre porcellini d'India e un coniglio nano)
Alla madre che è riuscita a salvarli a pelo da una morte atroce il bambino ha spiegato che voleva farli andare sulla giostra (a S.Tobia in questi giorni c'è il luna park)
MARTEDI'- Lucio Cornelio si è scoperto pittore astratto...a scapito delle lenzuola materne!
In preda ad estro creativo,il novello Picasso ci ha tirato su le uova,ci ha spalmato maionese,nutella e marmellata di more e infine ci ha appiccicato su il mangime del coniglio nano.La Carolina è svenuta
MERCOLEDI'- La macchina paterna era troppo nuova per i gusti di Lucio Cornelio,quindi l'ha ammaccata a martellate.Berengario ha avuto una crisi isterica.
GIOVEDI'- A casa della Taide Lucio Cornelio ha
Semiarrostito il gatto nel forno
Allagato la casa giocando all'oceano
Intasato il water con la preziosa pendola da tavola
Il tutto in mezz'ora.
La Carolina si sta ancora chiedendo come mai la madre ha cercato di ucciderla a seggiolate
VENERDI'- Lucio Cornelio ha trafugato Belva e lo ha usato come esca per i pesci rossi della fontana.
Il cagnazzo è vivo perchè Geppo lo ha salvato,rimediando un morso al polpaccio da Lucio Cornelio,che ha voluto così mostrare il suo disappunto per l'interferenza.
SABATO-Aiutato da Anselmo,Lucio Cornelio ha legato un porcellino d'India a un aquilone e poi lo ha lasciato andare.
Bestia e aquilone sono finiti addosso a Ireneo,che prendeva il sole.
Il pretone,che è terrorizzato dai porcellini d'India,alla vista del mostro si è tuffato nel pozzo (vuoto).
Per levarlo di lì ci sono voluti i pompieri di Pistoia,capitanati,manco a dirlo ,da Antistene Taripijo,uno dei 56 nipoti del vescovo Ildebrando.
Il malnato ha fatto la cronaca diretta del salvataggio via cellulare allo zio prelato,che dal gran ridere se l'è fatta addosso.
DOMENICA-I Capriconi hanno pensato bene di lasciare S.Tobia per un po',vista l'aria che tirava.
E' passato un mese.
La Taide ha ripudiato figlia e nipote.
Belva non può vedere l'acqua che ulula e se la fa addosso.
In occasione del compleanno,Ireneo ha ricevuto un regalo dall'Orapronobis:un porcellino d'India di peluche,accompagnato dal seguente bigliettino: "Un regalo azzeccato per un bischero patentato!"
Per la rabbia ha demolito l'altare.
Dopo una settimana in compagnia di Lucio Cornelio,gli orsi marsicani hanno chiesto asilo politico a S.Tobia.
Per ora è tutto,ma dubito finisca qua




 

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Lady Flora Hastings

Post n°517 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

ady Flora Elizabeth Rawdon-Hastings (11 February 1806 – 5 July 1839) was a British aristocrat and lady-in-waiting to Queen Victoria's mother, the Duchess of Kent. Her death caused a court scandal that gave the Queen a negative image.

Flora was also a poet; her work, Poems by the lady Flora Hastings, was published posthumously by her sister Sophia.

Contents[show]
[edit] Family

Lady Flora was born to Francis Rawdon-Hastings, 1st Marquess of Hastings (1754-1826) and his wife Flora Mure-Campbell, 6th Countess of Loudoun (1780-1840). Flora's siblings were:

Flora was "adored" by her siblings.[1]

[edit] Scandal
Wax seal on a letter written by Lady Flora Hastings.

The unmarried Lady Flora was allegedly having an affair with John Conroy, the "favourite" and also suspected lover of the Duchess of Kent. The Duchess's daughter, Queen Victoria, detested Conroy passionately. Flora and the Queen were probably hostile and unfriendly toward one another for this reason, and also because Flora disliked the Queen's adored friend and mentor, Baroness Louise Lehzen, as well as the Prime Minister, Lord Melbourne.[1]

Sometime in 1839, Flora began to experience pain and swelling in her lower abdomen. She visited the Queen's physician, Sir James Clark, Baronet, who could not diagnose her condition without an examination, which Flora refused. He assumed the abdominal growth was pregnancy. Sir James met with Flora twice a week from January 10 to February 16, 1839.[1] Because Flora was unmarried, his suspicions were hushed up. However, Flora's enemies, Baroness Lehzen and the Marchioness of Tavistock (better known as the inventor of afternoon tea) spread the rumor that she was "with child", and eventually Lehzen told Melbourne about her fears. On February 2, the Queen wrote in her journal that she suspected that Conroy, a man whom she loathed intensely, was the father.[1]

The accusations were proven false when Flora finally consented to the physical examination by the royal doctors, who confirmed that she was not pregnant. She did, however, have an advanced, cancerous liver tumor, and had only months left to live. She died in London on July 5.[2] Conroy and her brother, Lord Hastings, stirred up a press campaign against both the Queen and Doctor Clark which attacked them for insulting and disgracing Flora with false rumors and for plotting against her and the entire Hastings family. The campaign also defamed the Queen's "fellow conspirators", Baroness Lehzen and Lady Tavistock, as the guilty parties who had originated the false rumor of pregnancy.

 
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Libri dimenticati: La piccola regina

Post n°516 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

La piccola regina in questione è la regina Vittoria.
Bambina infelice, oppressa da una madre fatua e irresponsabile a dall'amante di lei,
Vittoria si trova prima erede al trono poi regina senza davvero rendersene conto e volerlo.
Solo più tardi rivelerà la sua leggendaria tempra.
Questo libro la analizza con la lente d'ingrandimento,nelle grandi cose,nelle piccole,nei lati oscuri del suo carattere,nel suo odio per la maternità e nell'amore ossessivo per il marito,nel suo comportamento durante il famoso scandalo Hastings,nel suo misterioso legame con lo stalliere John Brown,nel suo conflittualissimo rapporto col figlio primogenito,che incolpa della morte del padre...
E' un libro decisamente da non perdere

 
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Frase del giorno

Post n°515 pubblicato il 25 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Una certa continuità nella disperazione può generare la gioia (Camus)

 
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