Messaggi del 27/08/2011

L'acqua della vita

Post n°546 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un re che era molto malato, così malato che i suoi tre figli ne provavano una gran pena. Per nascondere le loro lacrime si erano rifugiati nel parco del castello, allorquando videro venir loro incontro un vecchio al quale confidarono il loro tormento. "Conosco un rimedio" disse l'uomo "è l'Acqua dell'Eterna Giovinezza. Qualche sorso basterà a guarire il re, ma è molto difficile procurarsela." Il primo dei tre figli si precipitò al capezzale di suo padre e lo mise al corrente del suo desiderio di partire alla ricerca di questo miracoloso rimedio. "L'impresa è troppo pericolosa, è meglio che io muoia, figlio mio" rispose il re in fin di vita "non voglio che tu rischi la tua vita. Ma il figlio primogenito insistette e infine ottenne il consenso di suo padre, pensando che a missione compiuta avrebbe ereditato il suo regno. Il principe inforcò il suo robusto destriero e si mise in cammino. Cavalcò giorni e giorni, allorquando incontrò un nano che sembrava lo stesse aspettando. "Dove vai così in fretta bravo cavaliere?" gli chiese il nano. "Sei molto indiscreto, villano di un nano" gli rispose il principe correndo come un lampo. Il nano molto offeso, gli lanciò un sortilegio. Ben presto il cavaliere entrò nella gola di una montagna che si chiuse alle sue spalle impedendogli sia di andare avanti, che di retrocedere. Si trovò quindi prigioniero con il suo cavallo come in una fortezza. Durante questo tempo il re ammalato si disperava aspettando il suo ritorno. Il secondo dei figli chiese allora il permesso a suo padre di andare in cerca dell'Acqua dell'Eterna Giovinezza. Il re fece qualche difficoltà, ma finì per cedere. Il principe fece la stessa strada del fratello maggiore. Anch'egli incontrò il nano che gli fece la stessa domanda: "Questo non ti riguarda maleducato di un nano" rispose il principe proseguendo il cammino senza nemmeno degnarsi di voltarsi. Il nano, furioso, lanciò anche a lui un sortilegio. Il cavaliere entrò nella gola e fece la stessa fine di suo fratello e non ritornò. Ben presto il figlio minore pregò suo padre di lasciar partire anche lui alla ricerca dell'Acqua dell'Eterna Giovinezza. Il re acconsentì. Il giovane principe incontrò a sua volta il nano che gli chiese il motivo del suo viaggio.

Mio padre sta per morire ed io sto tentando di trovare l'Acqua dell'Eterna Giovinezza per poterlo salvare" rispose il principe gentilmente. "Sai almeno dove si trova?" gli chiese il nano. "Ahimè! No" rispose il principe con rimpianto. "Tu non sei orgoglioso come i tuoi fratelli, quindi t'indicherò dove trovarla. Quest'acqua miracolosa si trova nel cortile di un castello incantato, dove sgorga da una fontana. Ecco una bacchetta magica con la quale busserai tre volte alla porta del castello. Questa si aprirà e tu vedrai all'interno due leoni che fedelmente fanno la guardia. Getterai loro queste due forme di pane ed essi ti lasceranno passare. Vai dritto alla fontana e raccogli in una coppa l'Acqua dell'Eterna Giovinezza. Ma stai attento, bisogna che tu venga via prima che suonino i dodici colpi di mezzogiorno, in caso contrario rimarrai prigioniero nel castello."

Il principe ringraziò il nano e proseguì il cammino portando con se la bacchetta magica e le due pagnotte. Arrivò al castello e fece quello che gli aveva detto il nano. Mentre attraversava una magnifica sala incontrò una bella ragazza che l'abbracciò e gli diede una spada e un pane, poi l'accompagnò alla fontana. "Tu mi hai liberata dall'incantesimo che sovrasta questo castello" gli disse "tra un anno celebreremo le nostre nozze e questo regno ti apparterrà. Ma ora bisogna fare in fretta, poiché stanno per suonare i dodici colpi di mezzogiorno." Il principe riempì una coppa d'Acqua dell'Eterna Giovinezza, poi se ne andò prima che scoccasse l'ora prevista. Sulla via del ritorno incontrò il nano che l'aspettava. "La spada, che è magica, ti permetterà di combattere i tuoi nemici ed il pane non si esaurirà mai" gli disse. "Aiutami a trovare i miei fratelli" implorò il principe. "Quando ti avvicinerai alle montagne blu, saranno liberati. Io li ho tenuti prigionieri per punire il loro orgoglio. Diffida della loro perfidia" disse il nano.

Il giovane ritrovò i suoi fratelli e raccontò loro tutto quello che gli era capitato. Tutti e tre i fratelli fecero insieme il viaggio di ritorno verso il castello del loro padre, ma durante il cammino attraversarono tre paesi dove imperversava la guerra e la carestia. Il principe prestò la sua spada a ciascuno dei tre sovrani ed inoltre il pane magico. Li aiutò fino a quando non tornò la pace. Dopo un lungo viaggio e molte peripezie, i principi arrivarono finalmente al capezzale del loro padre. L'ultimo dei tre fratelli tese la sua coppa al re che ne bevve il contenuto. Sfortunatamente la sua malattia si aggravò. Allora gli altri due fratelli presentarono al loro padre la coppa che avevano portato e che conteneva l'acqua che avevano sottratto al suo fratello sostituendola con quella salata. Il sovrano, non solo guarì subito, ma si trovò anche ringiovanito. I due fratelli intriganti accusarono il più giovane di aver voluto avvelenare il loro padre allo scopo di ereditare il regno. Poi lo presero anche in giro: "Tu sei coraggioso, ma molto ingenuo, caro fratello. Noi abbiamo scambiato le coppe. Tra un anno uno di noi sposerà la principessa di cui tu ci hai parlato. Ma non parlare se non vuoi morire."

Nel frattempo il re era molto irritato. Poiché credeva che il suo giovane figlio avesse voluto attentare alla sua vita, lo fece condannare a morte dalla corte ed incaricò uno dei suoi cacciatori di eseguire la sentenza. Costui non ebbe il coraggio, poiché conosceva il principe sin dalla più tenera infanzia. Gli confessò l'incarico che aveva ricevuto, poi l'aiutò a fuggire nella foresta. Qualche tempo dopo arrivarono al castello tre carri pieni d'oro e di pietre preziose. Erano regalati dai tre re che aveva aiutato. Il vecchio re allora subodorò la verità e poco dopo venne a conoscenza dal cacciatore che suo figlio era ancora vivo.

Passò un anno. La principessa nel frattempo aveva fatto costruire un viale pavimentato d'oro sino al cancello del suo castello e ordinò ai suoi servitori di lasciar entrare soltanto quel cavaliere che l'avesse attraversato senza esitazione, poiché sarebbe stato quello che lei aspettava. Ben presto i principi più anziani si presentarono al castello, ma nessuno dei due osò calpestare il pavimento d'oro con il suo cavallo. Al contrario il giovane principe che aveva finalmente lasciato la foresta, non ci fece nemmeno caso: cieco d'amore, galoppo dritto verso il castello fin davanti alla porta della principessa che l'accolse teneramente. Le nozze furono celebrate tra la gioia di tutti.

Un giorno il principe venne a sapere che suo padre desiderava rivederlo. Andò quindi a trovarlo e gli raccontò la perfidia dei suoi fratelli. Allora il re volle castigarli, ma essi se n'erano fuggiti per sempre.

 
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Enrichetto dal ciuffo

Post n°545 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una Regina, la quale partorì un figliuolo così brutto e così male imbastito, da far dubitare per un pezzo se avesse fattezze di bestia o di cristiano. Una fata, che si trovò presente al parto, dette per sicuro che egli avrebbe avuto molto spirito: e aggiunse di più, che in grazia di un certo dono particolare, fattogli da lei, avrebbe potuto trasfondere altrettanta dose di spirito e d'intelligenza in quella persona, chiunque si fosse, che egli avesse amato sopra tutte le altre. Questa cosa consolò un poco la povera Regina, la quale non poteva darsi pace di aver messo al mondo un brutto marmocchio a quel modo! Il fatto egli è, che appena il fanciullo cominciò a spiccicar parola, disse delle cose molto aggiustate: e in tutto quello che faceva, mostrava un so che di così aggraziato, che piaceva e dava nel genio a tutti. Mi dimenticava di dire che egli nacque con un ciuffettino di capelli sulla testa: e per questo lo chiamarono Enrichetto dal ciuffo: perché Enrichetto era il suo nome di battesimo.

In capo a sette o otto anni, la Regina di uno Stato vicino partorì due bambine. La prima, che venne al mondo, era più bella del Sole; e la Regina ne sentì un'allegrezza così grande, da far temere per la sua salute. La stessa fata, che aveva assistito alla nascita di Enrichetto dal ciuffo, si trovò presente anche a quest'altra: e per moderare la gioia della Regina, le dichiarò che la piccola Principessa non avrebbe avuto neppur l'ombra dello spirito, per cui sarebbe stata tanto stupida, quanto era bella. La Regina rimase molto male di questa cosa: ma pochi momenti dopo ebbe un altro dispiacere anche più grosso, nel vedere che la seconda figlia, che aveva partorito, era talmente brutta da fare paura. "Non vi disperate, signora", le disse la fata, "la vostra figlia sarà ricompensata per un altro verso; essa avrà tanto spirito, da non avvedersi nemmeno della bellezza che non l'è toccata." "Dio voglia che sia così!", rispose la Regina, "ma non ci sarebbe modo di fare avere un po' di spirito anche alla maggiore che è tanto bella?" "Per quanto allo spirito, o signora, io non ci posso far nulla", disse la fata, "ma posso tutto per la parte della bellezza; e siccome non c'è cosa al mondo che non farei per vedervi contenta, così le concederò in dono la virtù di far diventare bella la persona che più sarà di suo genio."

A mano a mano che le due Principesse crescevano, crescevano con esse i loro pregi, fino al punto che non si parlava d'altro che della bellezza della più grande e dello spirito della minore. È vero però che anche i loro difetti si facevano più vistosi, coll'andare in là degli anni. La minore imbruttiva a occhiate, e la maggiore diventava stupida un giorno più dell'altro, e non sapeva rispondere alle domande che le venivano fatte, o rispondeva delle giuccherie. Oltre a questo ell'era così smanierata e senza garbo né grazia, che non era buona di posare quattro vasi di porcellana sul camminetto senza romperne qualcuno, né d'accostarsi alla bocca un bicchier d'acqua senza versarselo mezzo sul vestito. Sebbene la bellezza sia un gran vantaggio per una fanciulla, pure è un fatto che la sorella minore aveva sempre il disopra sull'altra, in società e in tutte le conversazioni. Sul primo, tutti si voltavano dalla parte della più bella per vederla e ammirarla; ma dopo pochi minuti la lasciavano per andare da quella che aveva più spirito, a sentire le cose graziose che diceva: e faceva maraviglia di vedere come in meno di un quarto d'ora la maggiore non avesse più nessuno dintorno a sé, mentre tutti erano a far corona intorno alla sorella minore. La maggiore, sebbene molto stupida, si avvide di questa cosa: e avrebbe dato volentieri tutta la sua bellezza, per avere la metà dello spirito della sorella. La Regina, quantunque fosse prudente, non seppe stare dallo sgridarla piu volte delle sue grullerie: e questa cosa fece tanta pena alla povera Principessa, che si sentì come morire.

Un giorno, che era andata nel bosco a piangere la sua disgrazia, vide venirsi incontro un omiciattolo brutto e spiacente quanto mai, ma vestito con grandissima eleganza. Era il giovane principe Enrichetto dal ciuffo, il quale innamoratosi di lei al solo vederne i ritratti che giravano per tutto il mondo, aveva abbandonato il regno di suo padre per avere il piacere di vederla e di parlarle. Contentissimo di trovarla sola, si avvicinò a lei con tutto il rispetto e la gentilezza immaginabile. E avendo udito che essa era molto afflitta, dopo i soliti complimenti d'uso le disse: "Io non so comprendere, o Regina, come essendo voi così bella come siete, possiate essere triste come apparite; perché, sebbene io possa vantarmi di aver veduto un'infinità di belle donne, posso dire di non averne vista una sola, la cui bellezza si avvicinasse alla vostra". "A voi piace dir così!", rispose la Principessa, e non disse altro. "La bellezza", riprese Enrichetto dal ciuffo, "è un dono così grande, che deve compensare di tutto il resto; e quando la si possiede, non vedo nessun'altra cosa che possa recarci afflizione." "Vorrei", rispose la Principessa, "essere brutta quanto voi e avere dello spirito; piuttosto che avere la bellezza che ho, ed essere una stupida come sono." "Non c'è nulla, o signora, che dia segno di aver dello spirito, quanto il credere di non averne: egli è uno di quei pregi, che per la sua indole singolare, più se ne ha, e più si crede di esserne mancanti." "Io non m'intendo di queste cose", disse la Principessa, "ma so benissimo che io sono una grande imbecille, ed ecco la cagione del dolore, che mi farà morire." "Se non è che questo che vi tormenta, o signora, io posso facilmente metter fine alla vostra afflizione." "E come fare?", disse la Principessa, "Io ho il potere", disse Enrichetto dal ciuffo, "di trasfondere tutto lo spirito, che può desiderarsi, in quella persona che io dovrò amare sopra le altre; e siccome voi siete quella, così dipende da voi di possedere tanto spirito, quanto se ne può avere, solo che siate contenta di sposarmi." La Principessa rimase come una statua, e non rispose sillaba. "Vedo bene", rispose Enrichetto dal ciuffo, "che questa mia proposta non vi è andata punto a genio: e non me ne faccio nessuna meraviglia; ma vi lascio un anno intero, perché possiate prendere una risoluzione."

La Principessa aveva così poco spirito, e al tempo stesso sentiva tanta voglia di averne, che s'immaginò che la fine dell'anno non sarebbe arrivata mai, e così accettò la proposizione che le veniva fatta. Appena ebbe promesso a Enrichetto dal ciuffo che dentro un anno e in quello stesso giorno l'avrebbe sposato, si sentì subito molto diversa da quella di prima; e provò una facilità incredibile a dire tutte le cose che voleva dire, e a dirle in un modo grazioso, spontaneo e naturale. Cominciò da questo momento a metter su una conversazione elegante e ben condotta con Enrichetto dal ciuffo, nella quale essa brillò con tanta vivacità, che a questi nacque il dubbio di averle dato più spirito di quello che se ne fosse serbato per sé.

Ritornata che fu al palazzo, la Corte non sapeva che pensare di un cambiamento così improvviso e straordinario; dappoiché, per quante sguaiataggini le avevano udito dire in passato, ora la sentivano dire altrettante cose spiritosissime e piene di buon senso. Tutta la Corte n'ebbe un'allegrezza tale da non figurarselo. Non ci fu la sorella minore, che non ne restasse contenta, perché non avendo più sulla maggiore il disopra dello spirito, faceva ora accanto a lei la figura meschinissima d'una bertuccia. Il Re si lasciava guidare da lei, e qualche volta andava fino a tener consiglio nel suo quartiere.

La diceria di questo cambiamento essendosi sparsa all'intorno, tutti i giovani principi degli Stati vicini fecero a gara per arrivare a farsi amare, e quasi tutti la chiesero in sposa ma essa non trovava chi avesse abbastanza spirito, e faceva lo stesso viso a tutte le offerte di matrimonio, senza impegnarsi con alcuno.

Intanto se ne presentò uno così potente, così ricco, e così spiritoso e bello della persona, che ella non poté stare dal sentire una certa inclinazione per lui. Suo padre, che se n'era avveduto, le disse che la lasciava padrona di scegliersi lo sposo a modo suo, e che non aveva da far altro che far conoscere la sua volontà. E siccome accade che più uno ha dello spirito, e più si trova impensierito a pigliare una risoluzione stabile in certe faccende, essa, dopo aver ringraziato suo padre, domandò che le fosse dato un po' di tempo per poterci pensar sopra. E per caso andò a passeggiare in quel bosco dove aveva incontrato Enrichetto dal ciuffo, per avere il modo di pensare comodamente alla risoluzione da prendere. Mentr'ella passeggiava tutt'immersa ne' suoi pensieri sentì sotto i piedi un rumore sordo, come di molte persone che vadano e vengano, e si dieno un gran da fare. Avendo teso l'orecchio con più attenzione, sentì qualcuno che diceva: "Passami codesta caldaia"; e un altro: "Metti della legna sul fuoco". La terra si aprì in quel momento, ed ella vide sotto i suoi piedi come una gran cucina piena di cuochi, di sguatteri e d'ogni sorta di gente necessaria per allestire una gran festa. E di lì uscì fuori una schiera di venti o trenta rosticcieri, che andarono a piantarsi in un viale del bosco, intorno a una lunghissima tavola, e tutti colla ghiotta in mano e colla coda di volpe sull'orecchio si posero a lavorare a tempo di musica, sul motivo di una graziosa canzone. La Principessa, stupita di quello spettacolo, domandò loro per chi fossero in tanto lavorìo. "Lavoriamo", rispose il capoccia della brigata, "per il signor Enrichetto dal ciuffo, che domani è sposo." La Principessa, sempre più meravigliata, e ricordandosi a un tratto che un anno fa, e in quello stesso giorno, aveva promesso di sposare il principe Enrichetto dal ciuffo, credé di cascare dalle nuvole. La ragione della sua dimenticanza stava in questo che, quando promise, era sempre la solita stupida, e acquistando in seguito lo spirito che il Principe le aveva dato, non si ricordava più di tutte le sue grullerie.

Non aveva fatto ancora trenta passi, seguitando la sua passeggiata, che s'imbatté in Enrichetto dal ciuffo, il quale si faceva avanti tutto sgargiante e magnifico, come un Principe che vada a nozze. "Eccomi qui, signora", egli disse, "puntuale alla mia parola: e non ho il minimo dubbio che voi siate venuta qui per mantenere la vostra, e per far di me, col dono della vostra mano, il mortale più felice di questa terra." "Vi confesserò francamente", rispose la Principessa, "che su questa cosa non ho presa ancora nessuna risoluzione; e ho paura che, se dovrò prenderne una, non sarà mai quella che desiderate." "Voi mi fate stupire, o signora", disse Enrichetto dal ciuffo. "Lo capisco", disse la Principessa, "difatti mi troverei in un grandissimo impiccio, se avessi da fare con un uomo brutale e senza spirito. Una Principessa mi ha dato la sua parola, egli mi direbbe; e una volta che mi ha promesso, bisogna bene che mi sposi. Ma poiché la persona colla quale parlo, è la persona più spiritosa di questo mondo, così sono sicura che vorrà capacitarsi della ragione. Voi sapete che anche allora, quand'ero stupida, non sapevo risolvermi a doversi sposare; e vi par egli possibile che ora, dopo tutto lo spirito che mi avete dato, e che mi ha resa di più difficile contentatura, di quel che fossi prima, possa oggi prendere una risoluzione che non sono stata buona di prendere per il passato? Se vi premeva tanto di sposarmi, avete avuto un gran torto a togliermi dalla mia stupidaggine, e a farmi aprire gli occhi, perché ci vedessi meglio d'una volta." "Se un uomo senza spirito", rispose Enrichetto dal ciuffo, "sarebbe ben accolto, stando a quello che dite, quando venisse a rinfacciarvi la parola mancata, o perché volete che io non debba valermi degli stessi mezzi, per una cosa nella quale è riposta la felicità di tutta la mia vita? Vi pare egli ragionevole che le persone di spirito debbano trovarsi in peggiore condizione di quelle che non ne hanno? E potete pretenderlo voi? voi che ne avete tanto e che avete tanto desiderato di averne? Ma veniamo al sodo, se vi contentate. All'infuori della mia bruttezza, c'è forse in me qualche cosa che vi dispiaccia? Siete forse scontenta della mia nascita, del mio spirito, del mio carattere, delle mie maniere?" "Tutt'altro", rispose la Principessa, "anzi, tutte le cose che avete nominate, sono appunto quelle che mi piacciono in voi." "Quand'è così", rispose Enrichetto dal ciuffo, "sono felice, perché non sta che a voi a fare di me il più bello e il più grazioso degli uomini." "Ma come può accader questo?", chiese la Principessa. "Il come è facile", rispose Enrichetto dal ciuffo. "Basta che voi mi amiate tanto, da desiderare che ciò accada: e perché, o signora, non vi nasca dubbio su quello che dico, sappiate che la medesima fata, che nel giorno della mia nascita mi fece il dono di rendere spiritosa la persona che più mi fosse piaciuta, diede a voi pure quello di far diventare bello colui che amerete, e al quale vorrete far di genio e volentieri questo favore." "Se la cosa sta come la raccontate", disse la Principessa, "vi desidero con tutto il cuore che diventiate il Principe più simpatico e più bello del mondo, e per quanto è da me, ve ne faccio pienissimo dono."

La Principessa aveva appena finito di dire queste parole, che subito Enrichetto dal ciuffo apparve ai suoi occhi il più bell'uomo della terra, e il meglio formato, e il più amabile di quanti se ne fossero mai veduti.

Vogliono alcuni che questo cambiamento avvenisse non già per gl'incanti della fata, ma unicamente per merito dell'amore. E dicono che la Principessa, avendo ripensato meglio alla costanza del suo cuore e della sua mente, non vide più le deformità personali di lui, né la bruttezza del suo viso: talché il gobbo che egli aveva di dietro, le sembrò quella specie di rotondità e di floridezza d'aspetto di chi dà nell'ingrassare: e invece di vederlo zoppicare orribilmente, come aveva fatto fino allora, le parve che avesse un'andatura aggraziata e un po' buttata su una parte, che le piaceva moltissimo. Fu detto fra le altre cose, che gli occhi di lui, che erano guerci, le parvero più brillanti; e che finisse col mettersi in testa che quel modo storto di guardare fosse il segno di un violento accesso di amore: e che perfino il naso di lui, grosso e rosso come un peperone, accennasse a qualche cosa di serio e di marziale. Fatto sta che la Principessa gli promise, lì sul tamburo, che l'avrebbe sposato, purché ne avesse ottenuto il consenso dal Re suo padre.

Il Re, avendo saputo che la sua figlia aveva moltissima stima per Enrichetto dal ciuffo, che egli del resto conosceva per un Principe spiritosissimo e pieno di giudizio, lo accettò con piacere per suo genero. Il giorno dipoi furono fatte le nozze, come Enrichetto dal ciuffo aveva preveduto, e a seconda degli ordini che egli medesimo aveva già dato da molto tempo prima.

Questa sembrerebbe una favola; eppure è una storia. Tutto ci par bello nella persona amata, anche i difetti: tutto ci par grazioso, anche le sguaiataggini. La storia d'Enrichetto dal ciuffo è vecchia quanto il mondo.

 
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Amor di sale

Post n°544 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un grande re. Questo re aveva tre figlie e quando rimase vedovo riversò tutto il suo amore su di loro. Passò del tempo e le tre ragazze, vedendo con quanto affetto e premura il padre le cresceva, le istruiva e le proteggeva dai dispiaceri e dalle cattiverie del mondo, fecero del loro meglio per fargli dimenticare il dolore che ancora provava per la scomparsa della moglie. Ma un giorno, inaspettatamente, il re chiamò la figlia maggiore e le domandò: "Come mi ami, tu, figlia mia?" "Padre mio, ecco, ti amo come il miele", rispose lei, dopo aver pensato un attimo a cosa ci poteva essere al mondo di più dolce. "Lunga vita a te, figlia mia; e che il Signore mi aiuti a godermi la tua presenza il più a lungo possibile." E poi chiese alla figlia secondogenita: "E tu come mi ami, figlia mia?" "Come lo zucchero, padre mio." "Ti auguro tutto il bene di questo mondo, figlia mia; e che il Signore mi conceda a lungo la gioia della tua compagnia."

Il re fu contento di sentirsi tanto amato dalle due figliole più grandi. Alla fine guardò anche verso la figlia più piccola, che stava timidamente un pò in disparte, e chiese anche a lei: "E tu, figlia mia, come mi ami?"; "Come il sale nelle pietanze, padre mio!" rispose lei, serenamente, sorridendogli con amore filiale e abbassando la testa e lo sguardo, imbarazzata di dover parlare. Quando le sorelle più grandi sentirono la sua risposta scoppiarono a ridere e voltarono lo sguardo altrove. E il padre, con le sopracciglia corrugate e molto arrabbiato, la ammonì: "Vieni un pò qua, sconsiderata, così ci capiremo meglio! Non hai forse sentito con quale amore filiale mi amano le tue sorelle? Come mai non hai pensato anche tu come loro di dirmi quale dolce amore provi per tuo padre? E’ per questo forse che mi sforzo di allevarvi e di istruirvi in modo che nessun altro al mondo possa eguagliarvi? Vattene da questa casa: tu e il tuo sale!"

Quando la povera piccola figlia del re sentì quanto fosse arrabbiato con lei il padre, avrebbe voluto sprofondare nella viscere della terra per aver dato tristezza al genitore, e prendendo il coraggio a due mani, rispose: "Perdonami, padre, io non ho voluto darti dispiacere. Ma ho pensato, con la mia mente, che anche se il mio amore non era pari di quello delle mie sorelle, non era comunque al di sotto dello zucchero e del miele.." "Ma guarda, guarda.." la interruppe il padre, "e osi anche paragonarti alle tue sorelle più grandi? Vai via, figlia impertinente, non voglio neanche più sentirti nominare!" Con queste parole, le chiuse la bocca e la lasciò annegare nelle lacrime. Le sorelle vollero consolarla con parole dolci, ma le fecero più male che bene. La figlia piccola, quando vide che neanche le sorelle avevano pietà di lei, confidò nell'aiuto del Signore e decise di andare là dove lui l'avrebbe guidata. Prese quindi dalla casa paterna solo alcuni vestiti vecchi e trasandati e girovagò da un paese all'altro, finché arrivò alla corte di un altro re.

Arrivata lì, si sedette davanti alla porta del castello. La moglie del cantiniere la vide, andò da lei e le chiese cosa volesse: lei rispose che era solo una povera ragazza orfana di tutti e due i genitori e che voleva andare sotto padrone, se solo avesse trovato un posto. Proprio in quei giorni era andata via la ragazza che aiutava la moglie del cantiniere, e lei ne cercava un'altra. La guardò quindi molto attentamente e la ritenne adatta a quel lavoro, e le chiese quanti soldi volesse; lei rispose che chiedeva solo vitto e alloggio, e così si accordarono facilmente. Fu presa quindi subito come aiuto. Le disse quel che doveva fare, e le diede un mazzo di chiavi scelte tra le tante che aveva. E siccome aveva mani d'oro per fare la pastella, le conserve, la confettura e le altre cose buone che si possono trovare solo nelle dispense del re, le affidarono la cura delle provviste e dei pranzi di corte. Non si fermava mai in chiacchiere vane con nessuno, ed era diligente e veloce. Fu così che tutti a palazzo cominciarono a rispettarla e a trattarla con gentilezza, e nessuno trovò mai motivo per rimproverarla.

Le voci sulla diligenza e sulla modestia della ragazza che aiutava la moglie del cantiniere arrivarono veloci anche all'orecchio della regina. E questa desiderò vederla e conoscerla. E quando si preparò per presentarsi davanti a lei, la ragazza seppe bene come vestirsi e rivolgersi a lei: a cuore aperto, senza inganni, ma senza osare troppo. Fu così che la regina cominciò a volerle bene, e sospettò che la ragazza non potesse essere di modeste origini. E così, dove andava la regina, andava anche la ragazza; quando la regina si metteva a ricamare anche lei si metteva a lavorare l'ago. La ragazza divenne l'ombra della sovrana, e che questa l'amava come se fosse sua figlia. Anche il re si meravigliava del grande affetto che la moglie portava a questa ragazza.

Questo re aveva solo un figlio maschio. Lui e la regina lo guardavano come un sole e gli volevano bene oltre misura. Un giorno il re dovette partire in guerra, e prese con sé il figlio per abituarlo anche alla lotta, ma lo riportarono a casa ferito. La madre piangeva lacrime amare e si lamentava per il grande dolore. Passava le sue notti vegliandolo, e si affaticò tanto da non potere stare neanche più in piedi. Allora chiamò la ragazza, come persona di fiducia, perché si prendesse cura di lui. Le parole della ragazza, le sue carezze, la sua modestia e saggezza risvegliarono nel cuore del malato un sentimento che mai prima di allora aveva provato. Il figlio del re cominciò ad amarla perché gli sembrava, quando le sua mani gli toccavano le ferite, che il dolore si attenuasse.

Un pomeriggio, quando ormai stava meglio, parlando con la madre, disse: "Sai, mamma, vorrei prendere moglie." "Va bene, caro, va bene. Ti cercherò una brava ragazza, figlia di re, buona, di alto rango e brava in casa." "L'ho già trovata, mamma!" "E chi è? La conosco?" "Non ti arrabbiare, mamma, quando te lo dirò. È; la tua cameriera che mi ha rubato il cuore. Le voglio bene più che a me stesso. Fra tutte le figlie di re che ho visto, neanche una mi è piaciuta come lei. Mi ha stregato il cuore." Dopo qualche incertezza, il re e la regina acconsentirono alle nozze e si prepararono per il fidanzamento del figlio con la cameriera e fissarono la data delle nozze. La fidanzata del principe supplicò i sovrani affinché invitassero un certo re di sua conoscenza, che altri non era che suo padre; ma si guardò bene dal rivelare a qualcuno che era la figlia di quel re.

Il giorno della benedizione nuziale arrivarono tutti gli invitati. La sera venne imbandito un pranzo grandioso, con portate di ogni genere, con mille bevande, con focacce e torte e tante altre cose buone, da leccarsi le dita quando le mangiavi. La sposa stessa aveva detto ai cuochi cosa dovevano cucinare. Ma fu proprio lei, con le sue stesse mani, a cucinare parte delle pietanze per un solo ospite. Poi ordinò ad una servetta di sua fiducia di portare in tavole le pietanze da lei cucinate a quel re che era stato commensale, pena la morte. La servetta fece proprio come le era stato ordinato. Dopo che tutti gli invitati si furono messi a sedere attorno a quel tavolo, cominciarono a mangiare e a divertirsi a più non posso. Il re invitato, cioè il padre della sposa, non riusciva a mangiare. Già da quando era arrivato non riusciva a staccare gli occhi dalla sposa, e sembrava che il cuore volesse dirgli qualcosa, ma non voleva credere ai suoi occhi. Il cibo non gli andava giù. Si meravigliava del perché tutti gli altri commensali mangiassero con tanto appetito delle pietanze che per lui non avevano gusto. Chiese al vicino che sedeva alla sua destra come gli sembrava il pranzo, e questi gli rispose che mai aveva mangiato delle pietanze così gustose. Il re assaggiò dal piatto del vicino e si rese conto che effettivamente era molto buono. Lo stesso fece con il vicino di sinistra, e dopo questi due assaggi gli venne l'aquolina in bocca.

Finalmente, non potendo più trattenersi, si alzò in piedi e gridò: "Dimmi bene, re, mi hai invitato alle nozze di tuo figlio per prendermi in giro?" "Guai a me, Maestà! Come puoi pensare una cosa simile? Come tutti possono vedere, onoro te come tutti gli altri re e senza fare differenza." "Invece no, Maestà! Perdonami, ma le pietanze di tutti gli altri commensali sono buone da mangiare, ma le mie no!" Il re suocero si arrabbiò moltissimo e ordinò che tutti i cuochi si presentassero dinanzi a lui per rendere conto di quello che avevano combinato, e i colpevoli sarebbero stati puniti con la morte. E sapete cos'era successo? La sposina aveva cucinato tutte le pietanze per il re, suo padre, senza sale, ma solo con miele e zucchero. Persino la saliera che si trovava davanti a lui, sul tavolo, era piena di zucchero e non serviva a niente che il povero re prendesse con il coltello d'argento quello che pensava fosse sale e lo mettesse sulle pietanze: queste, invece di diventare buone da mangiare, diventavano ancora più dolci. Allora la sposa si alzò e disse al re, suo suocero:

"Sono stata io a cucinare le pietanze per il re che si è arrabbiato ed ecco perché l'ho fatto: questo re è mio padre. A casa eravamo tre sorelle e un giorno nostro padre ci chiese come lo amavamo. Le mie sorelle più grandi risposero che lo amavano come il miele e come lo zucchero. Quando venne il mio turno, io risposi che lo amavo come il sale nelle pietanze. Così infatti avevo pensato: che non esisteva amore più grande e più vero di questo. Mio padre invece si arrabbiò e mi cacciò di casa. Il Signore ha voluto lasciarmi la vita, e con il lavoro, l'onestà e la diligenza sono arrivata dove adesso mi vedete. In questa occasione ho voluto provare a mio padre che senza miele e senza zucchero un uomo può benissimo sopravvivere, anche se a lungo andare il dolce dà la nausea, mentre senza sale nelle pietanze, non si può stare. Ecco perché gli ho preparato tutti i cibi senza sale."

Allora il padre della sposa riconobbe di non aver saputo capire l'arguzia della figlia e le chiese perdono. La ragazza gli baciò la mano e gli chiese a sua volta perdono per averlo inquietato con il suo modo di fare. Finalmente tutti ripresero a mangiare e cominciarono a divertirsi così tanto che questo pranzo di nozze divenne famoso in tutto il mondo. E vissero tutti felici e contenti.

immagine fiaba

 
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Il Reuccio Gamberino

Post n°543 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Tre giorni ancora e il Reuccio Sansonetto compiva diciott'anni, età che, secondo le leggi del regno, gli permetteva di togliere moglie. Egli stava ad una loggia del palazzo reale, raggiante ed impaziente di sposare Biancabella reginetta di Pameria, con la quale era fidanzato fin dall'infanzia. Ingannava il tempo mangiando ciliege e scagliando i noccioli sui passanti, con una piccola fionda. I beffati alzavano il volto incolleriti, ma l'inchinavano tosto, ossequiosi, appena riconoscevano il reale schernitore. E il Reuccio rideva e i cortigiani ridevano con lui. Passò una vecchina dai capelli candidi, dal naso enorme e paonazzo e il Reuccio cominciò a berteggiarla: "Oh, comare Peperona! Oh, comare Peperona!..." E come l'ebbe a tiro la colpì con un nocciolo sul naso. La vecchietta si grattò il naso dolente, si chinò tremante, raccolse, strinse il nocciolo tra il pollice e l'indice e lo rinviò all'erede al trono. Le grida sdegnate della Corte scagliarono cento guardie sulle tracce della strega Nasuta, ma quella aveva svoltato l'angolo della via, ed era scomparsa. Al tocco aspro del nocciolo il Reuccio Sansonetto vacillò, come preso da vertigini; poi cominciò a ridere, premendosi gli orecchi con le mani. I cortigiani lo guardavano sbigottiti ed inquieti: "Che cosa vi sentite?" "Sento... sento..." E il Reuccio rideva, rideva senza poter rispondere. "Che cosa vi sentite?" "Sento... sento il tempo che va indietro! Il tempo che va indietro! Che cosa buffa! Ah, se provaste! Che cosa buffa!..." La Corte lo credeva ammattito. Quando poi fece per muoversi e lo videro camminare a ritroso, tutti scoppiarono dalle risa. "Reuccio, che cosa è questo?" "È... è che non posso più andare avanti!..." E rideva, e per quanto tentasse di avanzare il piede non gli riusciva di fare un passo innanzi, ed era costretto a retrocedere come un gambero. Poi riprendeva a premersi gli orecchi, a chiudere gli occhi, come preso da vertigini. "Il tempo che va indietro! Che strano effetto, che cosa buffa, amici miei!..." E i cortigiani ridevano ed egli rideva con loro... E tutti lo credevano ammattito.

II

 

Ma non era ammattito. I più famosi medici del regno constatarono veramente che il Reuccio Sansonetto ringiovaniva. Era una malattia nuova e inesplicabile, contro la quale la scienza non aveva rimedio. Il Reuccio ringiovaniva. Compì i diciassette, poi i sedici, poi i quindici anni. Prese a decrescere di giorno in giorno, scomparvero i piccoli nascenti baffetti biondi. Il suo volto riacquistava un aspetto sempre più fanciullesco. Sansonetto era disperato. Le nozze di Biancabella di Pameria erano state contramandate, poi rotte del tutto. Il Re di Pameria aveva ritirato la mano della figlia. "Ragazzo mio, come volete ch'io vi conceda Biancabella? Fra qualche anno sarete un marito bambino, poi un marito lattante, poi nascerete; cioè morirete... scomparirete nel nulla..." Biancabella fu costretta dal padre a rendere il suo anello di nozze; ma congedandosi piangeva, e promise a Sansonetto eterna fedeltà."Vi aspetterò finché sarete guarito di questa malattia. Tenete intanto l'anello e portatelo in dito; esso vi stringerà più forte, quando la mia fedeltà sarà in pericolo..."

III

 

Sansonetto era disperato. Correva a ritroso per le stanze e pei giardini reali, piangendo, strappandosi le chiome bionde. Bisognava rintracciare la vecchietta beffata, supplicarla di ritornarlo a diciott'anni, di risanarlo da quella malìa. Il Re e la Regina avevano fatto un bando con mezzo il regno di premio per chi desse notizie della vecchietta che aveva incantato il figliuolo. Ma nessuno l'aveva più vista.

Sansonetto andava sovente a caccia, per distrarre la sua malinconia. Galoppava a ritroso, perché la malìa gamberina s'appiccicava pure alla sua cavalcatura. I contadini che vedevano passare, scomparire all'orizzonte quel cavaliere piumato, sul cavallo che galoppava all'indietro, si faceva il segno della croce temendo un'apparizione diabolica.

Un giorno il Reuccio giunse in un bosco, e vide tra gli abeti centenari una casetta minuscola, con una sola porta e una sola finestra. E alla finestra riconobbe il volto della vecchietta che lo guardava sorridendo. Sansonetto s'inginocchio sulla soglia. "Ah! vecchina, vecchina! restituitemi il giusto andazzo del tempo e del camminare!" "Bisogna riportarmi il nocciolo di quel giorno..." "Se non è che questo, l'avrete..." Sansonetto ritornò a palazzo. Ma come ritrovare proprio il nocciolo di quattr'anni prima?... Pensò di prenderne uno qualunque, lo portò nel bosco, lo fece vedere sulla palma della mano. La vecchietta l'osservò dalla finestra. "Figliuolo mio, non è quello! quello porta incise intorno certe parole che so io..." Il Reuccio capì che non era caso di inganni, ritornò a palazzo, prese commiato dal Re e dalla Regina e si pose in cammino, alla ricerca del nocciolo salvatore. Si ricordava confusamente d'averlo visto rimbalzare nel rigagnolo della via. Seguì il rigagnolo fin dove questo metteva foce nel torrente. Ma innanzi a quelle spume turbinose si sentì prendere dallo sconforto. Una libellula passò, librandosi su di lui con bagliori di smeraldo. "Che c'è, bambino bello?" Lo chiamavano già bambino! Come ringiovaniva in fretta!... Sansonetto sospirò: "C'è che divento sempre più giovane!" "Poco male, ragazzo mio!" "Molto male! Fra qualche anno sarò un bambino lattante, poi nascerò, scomparirò del tutto. Mi può salvare soltanto il nocciolo della Fata Nasuta. L'hai visto passare?" "Io no. Ma ne sentii parlare dai miei vecchi: un nocciolo strano, che portava scritte intorno certe parole cabalistiche... Ha preso la via del mare."

Sansonetto si pose in cammino, seguì il torrente fino al fiume, il fiume fino al mare. Dinanzi a quall'azzurro infinito la speranza gli cadde dal cuore e si abbandonò sulla spiaggia. Piangeva e guardava le onde accartocciarsi ribollendo; e le lacrime gli cadevano nell'acqua, ad una ad una. "Che c'è, bambino bello?" Era un'asteria, una stella di mare che strisciava lentissima sulla sabbia d'oro. "C'è che divento sempre più giovane." "Poco male, figliuolo mio!" "Molto male. Nascerò, scomparirò del tutto se non trovo il nocciolo della Fata Nasuta." "Un nocciolo strano, inciso di parole che non ricordo... L'ho visto qualche anno fa. L'ha inghiottito un fenicottero mio amico. Se attendi, te lo mando qui..." Il Reuccio attese tre giorni. Apparve il fenicottero bianco e roseo, sulle due gambe lunghissime. "Sì, ho inghiottito il nocciolo; ma poi emigrai nel mezzogiorno e lo rimisi nei giardini del gigante Marsilio, fra i monti della Soria... il gigante è feroce ed invincibile; lo potrà vincere soltanto chi gli strapperà un capello verde fra i folti capelli rossi." Il Reuccio s'imbarcò su una galea di mercanti e giunse dopo sette settimane in Soria. Ma quando chiedeva del gigante Marsilio, la gente lo guardava stupita e impallidiva. "Il gigante non lascia passare nessuno nei suoi dominî. Ogni giorno fa strage di cavalieri temerari che vogliono affrontarlo." "Lo affronterò anch'io e vincerò, se questa è la mia sorte." E il Reuccio Sansonetto proseguiva la via. Giunse al regno del gigante Marsilio. A picco nella valle dominava il Castello dalle Cento Torri; si stendevano sotto i giardini immensi circondati da alte mura, e attorno biancheggiavano le ossa dei temerari che avevano sfidato il mostro. Sansonetto suonò il corno di sfida, invitando il gigante a battaglia. Una delle porte immense si aprì e apparve il gigante seminudo e senz'arme. Come vide il reuccio sorrise di scherno. Questi si scagliava a ritroso volteggiando la sua spada affilata; tagliava ora un braccio, ora una mano, ora il naso, ora il mento del gigante, ma il gigante si chinava tranquillo, raccattava il pezzo amputato rimettendolo a segno. Sansonetto mirava alla testa, spiccando salti sul suo cavallo focoso. Già due volte glie l'aveva fatta cadere, ma il mostro si chinava, la raccoglieva, la riappiccicava all'istante sulle spallacce robuste. Una terza volta il reuccio gliela troncò; e appena in terra fu pronto a spingerla con le due mani sull'orlo d'un declivio, rotolandola a valle. Poi si mise a cercare in fretta il capello verde nella folta chioma rossa. Sentiva alle spalle il mostro decapitato che correva, brancolando qua e là; lo sentiva avvicinarsi, e cercava e non trovava il capello micidiale. Allora trasse la spada, rasò in pochi colpi la testaccia dalla fronte alla nuca; e il capello verde fu reciso con tutta la chioma. La testa impallidì, gli occhi dettero un guizzo spaventoso e il gigante che brancolava all'intorno, cadde con un tonfo sordo. Era morto.

IV

 

Il Reuccio Sansonetto ebbe libero il passo nel regno di Marsilio. Cercò nei giardini; trovò il luogo indicato dal fenicottero. Ma in cinque anni il nocciolo era diventato un ciliegio altissimo, tutto carico di frutti rossi e lucenti come rubini. Sansonetto ne mangiò uno, poi un altro, e un altro ancora; e osservò i noccioli, e ogni nocciolo portava inciso attorno: «grano dell'irriverenza»... Ad un tratto il Reuccio ebbe come una specie di vertigine e socchiuse gli occhi. Quando li riaprì si trovò dinanzi alla casetta della Fata Nasuta e la vecchietta gli sorrideva. Si guardò, si palpò, era ritornato come alla vigilia delle nozze, con la sua alta statura diciottenne e i piccoli nascenti baffettini biondi. Provò a dare qualche passo: era risanato dalla buffa andatura gamberina. "Il tuo errore è espiato" disse la vecchietta "conserva i noccioli del ciliegio salvatore, e seminali nei tuoi giardini." "Grazie, vecchietta mia!" Il Reuccio baciò la buona fata, ma sentiva l'anello donatogli da Biancabella di Pameria stringergli il dito. "Ah! fata mia, la fedeltà della mia sposa corre pericolo." "Forse. ma fa' cuore, mettiti in armi e corri alla Corte. Dal canto mio t'aiuterò."

Sansonetto s'armò di tutto punto e partì di gran galoppo. Sentiva l'anello stringergli, stringergli il dito sempre più... "Si sarà stancata di questa lunga attesa! Purché arrivi in tempo ancora!" Giunse in Pameria e vide la capitale imbandierata e festante. Chiese perché. "Da una settimana è aperto un torneo a Palazzo Reale. Il Re ha imposto alla figlia la scelta d'uno sposo. E cento cavalieri si contendono la mano di Biancabella. Ma v'è un cavaliere sconosciuto che li abbatte tutti; e si prevede che pel tramonto di quest'oggi avrà sbaragliato i rivali." Sansonetto accorse alla giostra, scese tra gli spettatori. Il cavaliere misterioso, tutto rivestito di una corazza d'acciaio chermisi, stava sbalzando di sella l'ultimo avversario e già il popolo lo proclamava di diritto sposo di Biancabella. Ma Sansonetto calò la visiera e, fra lo stupore generale, scese in lizza. Ed ecco che al primo colpo di Sansonetto l'invincibile campione chermisi dà suono metallico e cupo e cade disteso. Fu scosso, rialzato, aperto. Era vuoto. Il cavaliere chermisi era una semplice corazza che la buona Fata Nasuta aveva animata d'uno spirito benigno e inviata alla giostra per sopprimere gli altri combattenti e dar modo al Reuccio di giungere in tempo. Il reuccio Sansonetto alzò la visiera, e s'inchinò sugli arcioni, dinanzi alla loggia della sposa. Biancabella quasi venne meno dalla gioia improvvisa; e il Re abbracciò come figliuolo il giovinetto risanato. Furono celebrate nozze splendidissime. E i noccioli favolosi, seminati nei giardini reali, crebbero con gli anni e formarono un boschetto detto dell'«irriverenza"

 
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Il palazzo del Principe Drago

Post n°542 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Tra le cose belle da vedere c’era la gara fra i battelli-drago, che si svolgeva a Su-ciau nel quinto giorno della quinta luna. Nel legno di ciascuna giunca si scolpiva un drago con le squame dipinte di verde e d’oro: le balaustre venivano ornate con fiori laccati e stendardi di seta ricamata. A poppa, sotto la coda del drago, veniva sospesa un’assicella di legno sulla quale sedeva un ragazzo che faceva giochi di acrobazia, scendendo fino a sfiorare l’acqua del fiume e dando, ad ogni attimo, l’impressione di doverci cadere dentro. Naturalmente questi ragazzi acrobati venivano addestrati a questi giochi sin da bambini, e ve n’erano alcuni che raggiungevano una tale abilità da essere disputati a peso d’oro dai vari proprietari dei battelli-drago. Tra i ragazzi più bravi, certamente il più abile A-Tuan, un bellissimo ragazzo orfano di padre. Ora avvenne che, durante una di queste feste, A-Tuan perse davvero l’equilibrio e cadde nel fiume, che richiuse i suoi flutti sopra di lui.

I più bravi nuotatori si precipitarono nel fiume cercando di raggiungere A-Tuan, ma per quanto si calassero a fondo, non riuscirono neppure a vederlo. Tornarono alla superficie sfiniti e delusi. Nessuno poté salvarlo. Molto addolorati i padroni dei battelli di Su-ciau andarono dalla vecchia Ciang, la madre di A-Tuan, ad annunciarle la scomparsa del figlio. La povera donna pianse a lungo e l’unica cosa che poté consolare il suo cuore afflitto fu di vedere quanto tutti fossero addolorati e quanto tutti avessero amato il suo bel figliolo. Ma A-Tuan non era morto; appena caduto nell’acqua (e non avrebbe saputo dire come mai avesse perso l’equilibrio, lui che era il più bravo di tutti gli acrobati) aveva sentito due mani afferrarlo e tirarlo verso il basso. L’acqua si era sollevata intorno a lui, alta come una muraglia, ed egli si era accorto di poter respirare benissimo. Riacquistata una certa tranquillità, A-Tuan vide una reggia e, al centro di una grande sala, un uomo con un elmo in testa che stava seduto su un trono.

- Questo è il Principe Drago : - disse una voce alle spalle di A-Tuan – inginocchiati davanti a lui.

Il principe guardò A-Tuan con occhi raggianti di benevolenza :

- Sei un ragazzo molto abile : - puoi entrare a far parte del gruppo “rami di salice”

l’invisibile accompagnatore sospinse A-Tuan lontano dalla reggia, fino ad una località circondata da ampi padiglioni. Lo fece salire sulla veranda del padiglione est da dove uscì una vecchia donna che venne loro incontro sorridendo.

- Questa è la signora Sie , - disse la solita voce – e sarà la tua maestra.

La signora si accomodò sulla veranda e chiamò fuori parecchi ragazzi che non potevano avere più di tredici o quattordici anni. Tutti salutarono A-Tuan con gentilezza e gli usarono molte cortesie.

- Adesso faremo vedere ad A-Tuan la “danza della folgore” e la “danza del vento che cade”- disse la signora Sie.

Subito si udì un grande frastuono di tamburi e piatti di rame, e la danza incominciò. Era qualche cosa di indescrivibile, degna soltanto dei geni. Quando fu tornato il silenzio la signora Sie chiamò a sé A-Tuan per insegnargli passo per passo le due danze. Ma A-Tuan non la lasciò parlare :

- Fate attaccare la musica ed io vi darò la prova della mia abilità.

Appena la musica echeggiò nella spianata, A-Tuan cominciò a danzare; tutti lo guardavano trattenendo il respiro, e la vecchia signora Sie si mise a battere la mani per l’entusiasmo.

- Bravissimo! – esclamò , quando la danza ebbe fine. – Non si può dire che tu sia inferiore Fiore d’Estate!

Naturalmente A-Tuan, non sapeva chi fosse Fiore d’Estate, e non poté apprezzare in pieno il complimento, ma comprese che la vecchia signora lo giudicava molto abile e ne fu contento. Il giorno seguente, il Principe Drago sottopose ad un esame i vari gruppi di ballerini, che vennero raccolti ai piedi di una scalinata in un vasto cortile. I primi ad essere esaminati furono i “folletti”. Questi avevano il volto di ragazzo ed il corpo di pesce e danzavano battendo forte un piatto di rame, che produceva un rumore di tuono. A ogni colpo i folletti balzavano così in alto che uscivano dall’acqua e arrivavano a toccare la volta celeste, dalla quale facevano cadere un po’ di pulviscolo di stelle. Poi fu la volta delle “piccole passere”. Erano tutte fanciulle belle ed eleganti, che danzavano suonando una specie di flauto. A poco a poco, intorno a loro si placò il rumore delle onde, le acque gelarono lentamente e non vi fu più se non un mondo di cristallo, interamente trasparente. Finita la danza, le acque ripresero il loro movimento e il rumore ricominciò, mentre le ragazze andavano a disporsi, dritte immobili ai piedi della scala. Poi toccò al gruppo delle “piccole rondini”. Erano tutte fanciulle giovanissime che danzavano agitando le lunghe maniche della veste. Avevano sul capo una ghirlanda di fiori profumati e indossavano un abito blu e nero con due lunghe code, proprio come quelle delle rondini. Tra loro ve ne era una che svolazzava come avesse le ali; dalla sua veste, dalle maniche e persino dalle scarpe uscivano ondeggiando nel vento e nelle onde, boccioli di fiori di diversi colori che, vagando qua e là, finirono per colmare tutto il cortile. Terminata la danza, la fanciulla si unì alle sue compagne ai piedi della scala. A-Tuan che era lì vicino, vedendola rimase incantato e chiese ai compagni chi fosse quella bravissima danzatrice.

- Ma è Fiore d’Estate – gli risposero tutti, meravigliati che ancora non l’avesse conosciuta.

A-Tuan non potè aggiungere altro, perché nel frattempo il Principe Drago aveva chiamato il gruppo dei rami di salice, ed era venuto il suo turno. Anche questa fu una danza meravigliosa. Il principe elogiò A-Tuan per la prontezza dimostrata nell’imparare e per l’abilità nella danza e gli regalò una benda di squame di pesce d’oro per tenere raccolti i capelli : in essa era incastrata una splendida perla che, di notte, mandava raggi luminosi. A-Tuan ringraziò del dono e si affrettò a tornare fra quelli del proprio gruppo, ai piedi della scala. Alzando gli occhi, si accorse che Fiore d’Estate lo guardava, ma non ebbe il coraggio di far cenni o di dire una parola. A un cenno del Principe drago tutti i gruppi cominciarono a sfilare in bell’ordine, tornando ciascuno nel proprio padiglione. A-Tuan e Fiore d’Estate non poterono far altro che lanciarsi uno sguardo di saluto, poi si persero di vista. Ma A-Tuan non poteva dimenticare la bellissima danzatrice; tanto ci pensava, dolendosi di non poterla incontrare, che finì per ammalarsi. Non poteva prendere cibo, non sapeva trovare neppure un attimo solo di riposo; inutilmente la vecchia signora Sie gli faceva prendere tre o quattro volte al giorno le più miracolose medicine. A-Tuan diventava ogni giorno più magro e deprimeva sempre di più. I suoi occhi erano sempre tristi e avevano perso tutto il loro splendore. Solo la meravigliosa perla brillava sulla fronte del ragazzo e gli illuminava il volto scarno. Nessuno capiva l’origine di questo male. La vecchia signora era tanto più preoccupata in quanto si avvicinava una festa importantissima, e tutti i gruppi dovevano parteciparvi con le loro danze più belle.

- Si sta avvicinando la festa del Principe dei Fiumi; come faremo senza A-Tuan?

Ed ecco che una sera, un ragazzo che apparteneva al gruppo dei folletti andò a trovare A-Tuan e si mise a sedere sul suo letto, parlando del più e del meno.

- Possibile che nessuno sappia trovare la causa della tua malattia? – domandò a un certo punto il ragazzo con un sorriso furbo.

- Nessuno ne capisce nulla – rispose A-Tuan con un filo di voce.

- Per caso, la tua malattia non sarebbe dovuta a Fiore d’Estate?

-Come lo sai ? –

-Perché Fiore d’Estate ha lo stesso tuo male – rispose il folletto ridendo. – me lo ha detto una fanciulla del gruppo delle piccole rondini.

A-Tuan si levò a sedere sul letto:

- Amico mio, non sarebbe proprio possibile incontrare Fiore d’Estate?

- Forse sì.

- Oh, ti prego, tu che sai tutto di lei, dimmi come posso fare!

Il folletto lo guardò pensieroso; poi aggiunse:

- Non è facile; dobbiamo percorrere un lunghissimo cammino e non è detto che poi riusciremo a trovarla.

- Perché è così difficile vedere Fiore d’Estate? – chiese A-Tuan.

- Il Principe Drago la fa sorvegliare molto attentamente; come avrai visto, è una bravissima danzatrice ed egli ha una gran paura di perderla.

- E in che modo potrebbe perderla?

- Qualcuno potrebbe rapirla e riportarla sulla terra. Ella, infatti, ha molta nostalgia della terra, anche se qui tutti la trattano bene.

- Anch’io provo la stessa cosa e vorrei poterlo dire a Fiore d’Estate.

Vista l’insistenza di A-Tuan, il folletto si decise:

- Puoi camminare?

- Facendo uno sforzo, si.

Aiutato dal ragazzo, A-Tuan uscì dalla stanza; percorsero parecchie gallerie che sembravano intagliate nel cristallo e giunsero finalmente davanti a una porta. Il folletto l’apri, vi passò con A-Tuan, gli fece fare ancora mille giravolte e infine spalancò una grande porta a due battenti. A-Tuan vide con stupore che si trovavano in un bosco. Erano tutte piante di magnolia, tanto alte da non poterne vedere la fine; le foglie erano grandi quando una stuoia e i fiori erano larghi come ombrelli. I petali caduti non erano mai stati rimossi e formavano in terra uno strato alto e morbido come dieci materassi sovrapposti. Il folletto fece sedere in terra A-Tuan e gli disse:

- Riposati e aspetta.

A-Tuan sedette sul morbido tappeto di magnolia ed aspetto con grande trepidazione il folletto che pareva non tornasse mai. Passo qualche minuto; poi, dalla stessa parte dove il ragazzo era corso via, A-Tuan vide venire una bellissima fanciulla che gli sorrideva timidamente: era Fiore d’Estate! L’incontro fu quando mai felice; si raccontarono tutta la loro vita e si confidarono i nomi delle rispettive famiglie. Fiore d’Estate raccontò che un giorno, mentre se ne andava sul fiume a bordo della giunca di suo padre e si curvava sull’acqua cantando, si era sentita tirare giù, verso il fondo,e si era ritrovata alla presenza del Principe Drago.

- Tutti mi trattano bene e sono buoni con me, - disse sospirando la fanciulla – ma io penso sempre alla mia famiglia lontana e sarei tanto felice di tornare sulla terra.

- Anch’io – disse A-Tuan, mentre grasse lacrime gli tremavano negli occhi – anch’io penso alla mia vecchia madre e al dolore che avrà sofferto per me. Ma non credo ci sia modo di fuggire.

- Non lo credo neanche io – disse piangendo Fiore d’Estate. – Adesso poi che si avvicina questa festa cos’ importante, ci sorvegliano ancora di più. Temo che non potremo rivederci prima del giorno del ballo.

Effettivamente così avvenne. I preparativi delle danze occupavano moltissimo tutti i gruppi di ballerini. Da quando si erano visti, invero, Fiore d’Estate e A-Tuan avevano cominciato a stare meglio e a ballare di nuovo, bisognava perciò ricuperare il tempo perso. Di questo si occupava, naturalmente, la signora Sie. Infaticabile, ella li faceva esercitare in mille volteggi, giorno e notte, e li sorvegliava così attentamente, che A-Tuan e Fiore d’Estate non ebbero più nemmeno un minuto disponibile per incontrarsi. Arrivò il giorno della festa. Guidati dal Principe Drago, tutti i gruppi si recarono nella grande spianata dove aver luogo le danze in onore del Principe dei Fiumi. Naturalmente lo spettacolo fu bellissimo e meravigliosamente eseguito. Il Principe dei Fiumi era rimasto colpito dall’abilità prestigiosa di A-Tuan, ma ciò che lo incantò soprattutto, fu la grazia di Fiore d’Estate. A festa finita i due principi si scambiarono una quantità di complimenti e di doni ricordo, poi tutti ritornarono ai loro padiglioni. Tutti,meno Fiore d’Estate e una danzatrice del gruppo “ piccole passere “, che rimasero al palazzo del Principe dei Fiumi per insegnare la danza alle damigelle di corte. Il dolore di A-Tuan fu immenso: aveva tanto aspettato quel giorno per avere un po’ di tempo libero! Fu quasi sul punto di ammalarsi di nuovo. Cercò di convincere la vecchia signora Sie ad inviare anche lui al palazzo del principe, ma ella scosse il capo senza nemmeno rispondere passarono alcuni mesi; un giorno, una triste notizia si sparse per i padiglioni:

- Lo sapete? Fiore d’Estate è salita sulla grande terrazza del palazzo del Principe dei Fiumi ed è affogata!

La cosa sembrava incredibile. Come può affogare chi vive nel fondo di un fiume? A –Tuan si tormentava, in preda a un grandissimo dolore.

- Siamo tutti abituati a vivere sott’acqua e stiamo bene; Fiore d’Estate è salita sul tetto del palazzo ed è affogata! Non posso crederlo!

- Eppure, - gli ripetevano gli amici – nessuno l’ ha più vista.

A-Tuan, disperato, si tolse la benda di squame d’oro e la stacciò, prese i suoi abiti più ricchi e li ridusse in brandelli. Poi, per cercare di calmare la sua pena, volle ritornare tra i fiori di magnolia, nel bosco ove era avvenuto il suo incontro con Fiore d’Estate. Si avviò per le gallerie, attraversò la prima porta, girò ancora e giunse davanti alla porta a due battenti: l’aprì e si trovò nel bosco. Sembrò che il cuore del giovane si fermasse per il dolore, tanto era vivo il ricordo del suo primo ed ultimo incontro con Fiore d’estate. Camminò e camminò e, a un tratto, si trovò ai piedi di un’altissima muraglia contro la quale stava appoggiata una lunga scala. A-Tuan vide con stupore che la muraglia era formata dalle acque del fiume, divenute così solide che nessuno mai le avrebbe potute attraversare. Il giovane salì svelto sulla scala; arrivo all’altezza delle magnolie, poi anche queste rimasero al di sotto, mentre egli continuava a salire…

- Chissà dove porta questa scala! – disse – sono sfinito, non ne posso più. Se questa salita non finisce presto, sono sicuro che precipiterò di nuovo giù per la stanchezza.

A un tratto la scala finì, e poco più su finiva anche la muraglia; A-Tuan si issò a cavalcioni del muro e si gettò dall’altra parte…Quando riuscì a liberarsi dal vortice e provò a nuotare , vide il sole splendergli alto sopra la testa e il largo fiume stenderglisi intorno. Era libero e di nuovo sulla terra! Pieno di gioia si lasciò portare dalla corrente, e un po’ galleggiando e un po’ nuotando riuscì a toccare la riva.

- Ehi,tu,- gridò un pescatore che stava gettando le sue reti – da dove vieni?

- La giunca ha fatto naufragio – rispose A-Tuan – e non so esattamente dove mi trovo.

- Di che paese sei?

- Di Su-ciau.

- Puoi dirti davvero fortunato; il tuo villaggio non è lontano, lo troverai appena avrai girato la curva del fiume, che attraversa la valle.

A-Tuan ringraziò il vecchio e corse via verso la direzione indicata. Non aveva la minima idea di quando tempo fosse stato lontano dalla sua casa; la stagione gli sembrava la stessa di quando era caduto nel lago. A un tratto il villaggio fu davanti a lui. Con passo più calmo, frenando l’emozione, raggiunse la piccola casa dove era nato e cresciuto. Era quasi arrivato, quando sentì una voce allegra gridare dall’interno della casa:

- Signora Ciang, il vostro figliolo è arrivato!

A-Tuan si fermò di colpo. Quella voce, sebbene l’avesse sentita una sola volta, gli era rimasta nel cuore per sempre. Non poteva sbagliarsi! E infatti, a riceverlo sulla porta aperta, vicino alla vecchia madre c’era Fiore d’Estate, che gli sorrideva con occhi lucenti di gioia! La fanciulla raccontò che, nel palazzo del Principe dei Fiumi, si era sentita morire dalla malinconia e aveva pensato che forse, salendo sul tetto più alto, avrebbe potuto vedere i tetti del padiglione dove viveva A-Tuan e mandargli un saluto. Di nascosto era salita sul tetto più alto e, mentre si sporgeva per guardare lontano, era scivolata e caduta; ma com’era successo per A-Tuan, la caduta invece di trascinarla verso il fondo l’aveva fatta galleggiare sulle acque del fiume. Una giunca di passaggio l’aveva raccolta, e Fiore d’Estate, saputo che la sua famiglia era perita in un naufragio, aveva dato il nome della madre di A-Tuan, dalla quale i mercanti l’avevano accompagnata. La vecchia signora Ciang aveva pianto di gioia nel sentire che il figlio era vivo, poi aveva nuovamente pianto di dolore pensando che non l’avrebbe mai più rivisto. Ma Fiore d’Estate era piena di speranza, e i fatti le avevano dato ragione. La nozze si celebrarono con molta gioia da parte di tutti. I giovani posi danzarono, e gli ospiti rimasero meravigliati per la loro abilità. Solo il Principe Drago, avendo perduto i suoi migliori danzatori, rimase per lungo tempo triste e avvilito.

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Il bambino d'oro e il bambino d'argento

Post n°541 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Niame, il più potente fra i maghi del cielo, viveva in una fattoria posata sopra un bellissimo tappeto di nuvole. Un giorno decise di prendere moglie e invitò a presentarsi le quattro fanciulle più belle della sua tribù. Poi domandò a ciascuna: - Che cosa faresti, per me, se io ti sposassi? La prima, che si chiamava Acoco, dichiarò: - Spazzerei la fattoria e governerei la tua casa. E la seconda: - Cucinerei ogni giorno per te le pietanze migliori. E la terza: - Filerei montagne di cotone e andrei tutti i giorni ad attingere l'acqua. E la quarta: - Io, Niame, ti darei un figlio tutto d'oro. Naturalmente Niame scelse l'ultima e ordinò di preparare la cerimonia per le nozze. Acoco fu molto contrariata per la scelta fatta da Niame; si rodeva di invidia e di gelosia. Seppe tuttavia nascondere molto bene i propri sentimenti e riuscì a rimanere presso la giovane regina come dama di compagnia. I due sposi vivevamo felicemente e avevano già preparato la culla in attesa del bambino tutto d'oro, quando Niame dovette partire, per visitare una sua grande fattoria. Proprio durante la sua assenza, alla regina nacquero due gemelli: uno tutto d'oro, l'altro tutto d'argento. La perfida Acoco, non appena li vide, prese i due bambini, li chiuse in un cestello e fuggi con essi in mezzo al bosco; poi nascose il cestello nel tronco vuoto di un albero. Nella culla al posto dei bambini, mise due orribili ranocchi. Quando Niame fu di ritorno, Acoco gli corse incontro: - Affrettati, Niame! - gridò. - Vieni in casa a vedere i tuoi figli! Niame si affrettò, ma quando vide nella culla le due brutte bestie, rimase male. Comandò che i ranocchi fossero uccisi e la regina esiliata proprio ai confini del regno, in una capanna solitaria. Intanto il destino volle che un cacciatore passasse vicino all'albero morto dove stava nascosto il cestello con i due bambini dentro. L'uomo scorse un luccichio e si avvicinò. - Che cosa è questo ?- si chiese. - Siamo figli di Niame - risposero i bambini. Il cacciatore raccolse il cesto, lo aprì, e restò ammirato davanti alla bellezza dei due piccoli. Era poverissimo, ma li portò a casa sua e li allevò con amore, senza rivelare a nessuno dove li avesse trovati. I due bambini crescevano buoni, obbedienti e abili in tutte le cose. Quando il cacciatore aveva bisogno di denaro, raccoglieva la polvere d'oro e d'argento che cadeva di continuo dai loro corpi e andava in città a comperare quando gli era necessario. A poco a poco divenne un uomo molto ricco, e sostituì la misera capanna con un ampia fattoria. Un giorno il cacciatore venne per caso a sapere che i due bambini erano figli del re e allora, sebbene a malincuore, decise di riportarli al padre. Giunti alla fattoria di Niame, il cacciatore chiamò il re fuori dal recinto e gli disse: - Vieni a vedere quali esercizi sa fare questo ragazzo d'argento! Niame uscì e restò ammirato dell'abilità straordinaria del giovane. Intanto il ragazzo d'oro aveva cominciato a cantare in modo meraviglioso e cantando narrava la propria storia: la promessa della mamma, la perfidia di Acoco e la bontà del cacciatore che li aveva allevati e amati come figli. Niame stupito e commosso abbracciò i figli, fece richiamare la regina dall'esilio e ordinò alle schiave di pettinarla e rivestirla di abiti regali. Poi andò da Acoco, la trasformò in una gallina e la scaraventò sulla terra. Infine lodò molto il buon cacciatore e lo rimandò a casa carico di regali. Ancora oggi i due figli di Niame vanno a fare il bagno nel grande fiume che scendeva a cascata sulla terra; allora un po' della loro polvere d'oro e argento arriva fino a noi e quelli che la trovano diventano molto ricchi..

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Tra due ombre (Pirandello)

Post n°540 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Stridore di catene e scambio di saluti e d'auguri, ultime raccomandazioni e grida di richiamo tra i passeggeri di terza classe e la gente che s'affollava su lo scalo dell'Immacolatella o sulle barchette ballanti attorno al piroscafo in partenza.

– De venì cu tte! de venì cu tte!

– No! no! t' 'o ddico!

– E nun avè paura!

– Core mia, core 'e mamma, stenne 'e mmane!

– Addó sta? addó sta?

– Mo sta cca!

– Allegramente!

E tra tanta confusione, per accrescere l'agitazione di chi partiva, il suono titillante dei mandolini d'una banda di musici girovaghi.

– Faustino! Dio mio, guarda Ninì... guarda Bicetta... – gridava al Sangelli la moglie che non si moveva per timore del mal di mare, prima ancora che il piroscafo si mettesse in movimento.

Non c'era stato verso d'indurla ad andare a sedere sul piano di coperta destinato alla prima classe, a pruavia. Sera buttata come una balla sul sedile del lucernario della camera di poppa; e così grassa come s'era fatta pochi anni dopo il matrimonio, bionda e pallida, con gli occhi azzurri ovati, non si curava nemmeno dello spettacolo che dava con quel suo ridicolo sgomento, aggrappata con la mano tozza piena d'anelli al bracciuolo di legno del sedile, quasi che, tenendolo così, volesse impedire lo scotimento fitto fitto e continuo della macchina già sotto pressione.
Strillava lamentosamente per Bicetta, per Ninì, per Carluccio, ma non osava neppure girare un po' la testa per vedere dove fossero. L'ampio velo turchino attorno al cappello di paglia, col vento, le sbatteva in faccia; lo lasciava sbattere, pur di non muoversi e teneva fissi gli occhi spaventati a una manica a vento lì presso, suo incubo forse, ma anche riparo e protezione.

– Carluccio, Dio mio, dov'è? Faustino! Faustino! E Bicetta?

Con l'aria che batteva viva, da terra là sopra coperta e che si portava via il fumo della ciminiera tra il cordame dell'alberatura, nel chiarore aperto e fresco, tutto lampeggiante dei riflessi del sole al tramonto sul mare un po' mosso a ogni sollevarsi dei parasoli, quei tre benedetti ragazzi, che non erano stati mai su un piroscafo, parevano impazziti; si ficcavano tra la gente, da per tutto, tra le scale sul Passavanti, le lapazze, i ponti di sbarco, sotto le lance; volevano veder tutto, e correvano davvero il rischio anche di precipitar giú in mare.
Faustino Sangelli, andando loro dietro, si sentiva intanto finir lo stomaco a quelle raccomandazioni della moglie. Non gli era parso mai tanto ridicolo il suo nome in diminutivo sulle labbra di quella donna così grassa, né mai tanto sgradevole la voce di lei.
Avrebbe voluto gridarle:

– E sta' zitta! Non vedi che sto badando a loro?

Ma aveva sulle labbra, rassegato, un sorriso freddo e fatuo, come di chi si presti a far cosa che a lui veramente non appartenga o non prema molto.
Oh Dio, come? I figliuoli? Non gli premevano i figliuoli? Sì, gli premevano. Ma in quel momento, Faustino Sangelli – il quale aveva già trentasei anni e qualche pelo bianco, piú d'uno, nella barba e alle tempie si sentiva proprio costretto a sorridere in quel modo, di quel mezzo sorriso freddo e fatuo, tra di compiacenza e di rassegnazione. Non poteva farne a meno. Avrebbe seguitato a sorridere così, anche se Carluccio o Ninì o Bicetta fossero caduti – non in mare, no, Dio liberi! ma lì sopra coperta e si fossero messi a piangere. Perché non sorrideva lui così, propriamente; ma un altro Faustino Sangelli, di circa diciott'anni, e dunque senza quella barba, e dunque senza né quella moglie né quei figliuoli.
Questo gli avveniva per il fatto che, tra la gente che quella sera partiva da Napoli col piroscafo per la Sicilia, aveva intraveduto e riconosciuto subito un suo lontano parente, un tal Silvestro Crispo, già tutto grigio e piú ispido e piú cupo di quando, tanti e tanti anni addietro, lui, Faustino Sangelli, allor quasi ragazzo imberbe, studentello matricolino di lettere all'Università di Palermo, gli aveva tolto l'amore di Lillì, loro comune cugina, di cui tutti e due allora erano perdutamente innamorati; e quel poveretto aveva tentato d'uccidersi, chiudendosi in camera una notte col braciere acceso. Ora Lillì da otto anni era moglie di colui; e Faustino Sangelli sapeva che, nonostante l'età, si conservava ancora bellissima e fresca.
Tutti i ricordi scottanti, gli errori, i rimorsi della prima gioventú, improvvisamente, alla vista di quell'uomo, gli avevano fatto un tale impeto dentro, che n'era come stordito. Al solo pensiero che quel Silvestro Crispo potesse vederlo, invecchiato e così dietro a quei tre ragazzi mal vestiti, e con quella moglie grassa e ridicola che strillava di là, si sentiva vaneggiare in un avvilimento di vergogna, acre e insopportabile, al quale reagiva seguitando a sorridere a quel modo, mentre avvertiva con una lucidità che gl'incuteva quasi ribrezzo, che non soltanto lui qual era adesso, ma lui anche qual era stato tant'anni addietro, sedici anni addietro, viveva tuttora e sentiva e ragionava con quegli stessi pensieri, con quegli stessi sentimenti, che già da tanto tempo credeva spenti o cancellati in sè; ma così vivo, così « presentemente » vivo che, quasi non parendogli piú vero in quel momento tutto ciò che lo circondava, e pur non potendo negarne a se stesso la realtà, non potendo negare per esempio che quei tre ragazzi là fossero suoi; ecco qua, sorrideva, proprio come se non fossero; proprio come se lui non fosse questo Faustino d'adesso, ma quello: diviso in due vite distanti e contemporanee; vere tutt'e due, e vane tutt'e due nello stesso tempo; e di là quella biondona pallida, di cui gli arrivava la voce sgraziata: « Faustino! Faustino! » – e qua, fuggente e ammiccante tra il rimescolio dei passeggeri sopra coperta, Lillì, Lillì di ventidue anni, bella come quando di nascosto, da lontano, per tentarlo, tenendo socchiuso l'uscio della sua cameretta si scopriva il seno tra il candor delle trine e con la mano faceva appena appena l'atto d'offrirglielo e subito con la stessa mano se lo nascondeva.
Aveva quattr'anni piú di lui, Lillì. E che passione, che frenesie, prima ch'ella accondiscendesse a fidanzarsi con lui, corteggiata da tanti, anche da quel povero Silvestro Crispo, che s'affannava in tutti i modi a lavorare per farsi uno stato e ottener subito la mano di lei! Ma allora Lillì non si curava di nessuno dei due: di Silvestro Crispo, perché troppo rozzo, ispido e brutto; di lui, perché troppo ragazzo; e s'univa perfidamente a tutti i parenti che se lo prendevano a godere per lo spettacolo che dava loro con quella sua passione precoce e della gelosia che lo assaliva appena vedeva qualcuno ottenere i sorrisi di lei. Finché, all'improvviso, chi sa perché, forse per qualche dispetto o per qualche disinganno inatteso o per prendersi una subita rivincita su qualcuno, ella gli s'era accostata amorosa, gli s'era promessa, ma a patto che subito egli si fosse apertamente fidanzato con lei. Lì per lì gli era parso di toccare il cielo col dito. Per piú d'un mese aveva dovuto combattere per strappare il consenso al padre. il quale saggiamente gli aveva fatto osservare ch'era troppo intempestivo per lui un impegno di quel genere; che la cugina aveva quattr'anni piú di lui, e che egli, ancora studente, avrebbe dovuto aspettare per lo meno altri sei anni per farla sua. Ostinato, dopo molte promesse e giuramenti, era riuscito a spuntarla. Se non che, subito dopo, nel vedersi presentare a tutti, così ancor quasi ragazzo, senza uno stato, come promesso sposo di Lillì, s'era sentito ridicolo agli occhi di tutti e specialmente di quegli altri giovanotti che, corrisposti, avevano per qualche tempo amoreggiato con la sua fidanzata. La passione, così cocente quand'era nascosta, contrariata e derisa, aveva perduto a un tratto il fervore, tutta la poesia; e poco dopo egli se n'era scappato dalla Sicilia per troncare quel fidanzamento, ch'era stato intanto il colpo di grazia per quel Silvestro Crispo. Nel vedersi posposto a un giovanottino ancor imberbe, senza né arte né parte, lui che già lavorava, lui che era già uomo; sdegnato, disperato, aveva voluto uccidersi; ed era stato salvato per miracolo.
Ora eccolo là! Marito di Lillì. Padre (sapeva anche questo, Faustino Sangelli), padre d'un bambino, di cui gli avevano tanto vantato la bellezza. Bello come mammà. Dunque, forse felice, quell'uomo lì. Mentre lui... Ecco perché, correndo appresso a quei bambini non belli e mal vestiti, aveva bisogno di sorridere a quel modo Faustino Sangelli in quel momento; bisogno, proprio bisogno di veder viva, di ventidue anni, là, fuggente e ammiccante, tra il rimescolio dei passeggeri Lillì, Lillì che accennava, così fuggendo e riparandosi dietro le spalle dei passeggeri, di scoprirsi ancora il seno e far con la mano appena appena l'atto d'offrirglielo e subito con la stessa mano l'atto di nasconderselo. Ah, tante volte, tante volte, ebbro d'amore gliel'aveva baciato, lui, quel piccolo seno! E ora voleva che quell'uomo lì lo sapesse. Sì sì. Sorrideva a quel modo per farglielo sapere. E con tal rabbia, con tal livore – pur con quel sorriso sulle labbra – pensava, sentiva, vedeva tutto questo, che a un certo punto costretto a correre fin quasi ai piedi di Silvestro Crispo per acchiappare a tempo uno dei bambini che stava per cadere, acchiappatolo, si rizzò tutto fremente davanti a lui, quasi a petto, come se si aspettasse che quello dovesse saltargli al collo per strozzarlo.
Silvestro Crispo, invece, lo guardò appena con la coda dell'occhio; evidentemente senza riconoscerlo. E s'allontanò pian piano.
Faustino Sangelli restò di gelo a quello sguardo d'assoluta indifferenza. Da che rideva, da che baciava vivo, con labbra ardenti, il tepido, piccolo seno bianco di Lillì, e costringeva quell'uomo a chiudersi in camera con un braciere acceso per asfissiarsi, ecco che d'un tratto spariva in lui l'immagine di ciò ch'era stato, come un'ombra; e un'altra ombra d'improvviso sottentrava, l'ombra miserabile di se stesso, ombra irriconoscibile, se colui non lo aveva riconosciuto, dopo sedici anni: i sedici anni di tutti i suoi sogni svaniti, e di tante noje e di tante amarezze; i sedici anni che lo avevano invecchiato precocemente; che gli avevano portato la sciagura di quella moglie, il tormento di quei figliuoli.
Di furia, inferocito, con la scusa della caduta di quel piccino riparata a tempo, mentre tra il cresciuto clamore la sirena della ciminiera avventava il rauco fischio formidabile, acchiappò gli altri due, andò a prendere la moglie, e giú, a cuccia! a cuccia!

– Andiamo a dormire!

Ma Ninì voleva il biscotto; l'acqua, Bicetta; Carluccio, la tromba.

– A dormire! a dormire! Avete sentito il babau?

– Oh Dio, Faustino, e non è presto?

– Che presto! che presto! Meglio che ti trovi accucciata, prima che si esca dal porto! Giú! giú!

– La tromba, papà!

– Oh Dio, Faustino, mi gira la testa...

– Ma se siamo ancora fermi! Se ancora non si muove!

Biccotto, papà!

– Papà, quando bevo?

– Giú! giú! Berrai giú! Andiamo!

– Oh Dio, Faustino...

– Corpo di... Giusto qua? ... Cameriere! cameriere!

Tutta la nottata, quella delizia lì. E fosse stato cattivo il mare! Ma che! Un olio. E che strilli, che strilli!

– Sta' zitta! Pare che ti scànnino!

– Oh Dio, muojo! Reggimi, Faustino! Ah, non arrivo... non arrivo... Voglio scendere!

– Scendiamo, papà.

– A casa, andiamo a casa, papà!

– Mammà, oh Dio! ho paura, papà!

– Fermi, perdio! E tu stenditi giú, supina, o vado a buttarmi a mare!

Di solito tanto paziente con la moglie e coi figliuoli, era diventato una belva, Faustino Sangelli, quella notte, per mare.
Ma come Dio volle, verso il tocco, la moglie s'assopì; i bambini s'addormentarono.
Egli rimase un pezzo nella cuccetta, seduto, coi gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. E stando così seduto si vide, a un certo punto, sotto gli occhi emergere il pancino, che da alcuni anni gli era cresciuto; e vide quasi per ischerno ciondolare dalla catena dell'orologio una medaglina d'oro, premio volgare d'un misero concorso vinto. A diciott'anni, innamorato di Lillì, aveva sognato la gloria. Era finito professor di liceo, non tanto miserabile perché la moglie gli aveva recato una buona dote. Ah Dio, un po' d'aria, un po' d'aria! Si sentita soffocare!
Spense la lampadina elettrica; uscì dalla cuccetta; attraversò un po' barcollando e reggendosi alle pareti di legno del corridojo, e salì in coperta.
La notte era scurissima, polverata di stelle. Gli alberi del piroscafo vibravano allo scotimento della macchina e dalla ciminiera sboccava continuo un pennacchio di fumo denso, rossastro. Il mare, tutto nero, rotto dalla prua, s'apriva spumeggiando un poco lungo i fianchi del piroscafo. Tutti i passeggeri s'erano ritirati nelle loro cuccette.
Faustino Sangelli tirò su il bavero del pastrano; si diede una rincalcata al berretto da viaggio; passeggiò un tratto sul ponte riservato alla prima classe; guardò i passeggeri di terza buttati come bestie a dormire su la coperta, con le teste sui fagotti, attorno alla bocca della stiva: poi, alzando il capo, vide dall'altra parte, sul ponte di poppa riservato ai passeggeri di seconda, uno – lui? – presso il parapetto, appoggiato a una delle bacchette di ferro che sorreggevano la tenda.
Al bujo non discerneva bene. Ma pareva lui, Silvestro Crispo. Doveva esser lui. Forse, anche prima che egli lo scorgesse tra i passeggeri in partenza quella sera da Napoli, era stato scorto da lui. E forse, quand'egli sorreggendo il bambino che stava per cadere, s'era rizzato a guardarlo, lo sguardo che colui gli aveva rivolto con la coda dell'occhio nell'allontanarsi non era d'indifferenza, ma di sdegno, e forse d'odio. Ora là, fermo, insaccato nelle spalle, anch'esso col bavero del pastrano tirato su e il berretto rincalcato, guardava il mare. Da guardare però non c'era nulla, in quella tenebra. Dunque pensava. Anche lui, dunque, sapendo che l'antico rivale viaggiava sullo stesso piroscafo, non poteva dormire, quella notte. Che pensava?
Faustino Sangelli stette a spiarlo un pezzo con una pena, con una pena che, a mano a mano crescendo, gli si faceva piú amara e piú angosciosa: pena della vita che è così; pena delle memorie che dolgono, come se i dolori presenti non bastassero al cuore degli uomini. Ma a poco a poco, cominciò quasi a svaporargli, quella pena, nella vastità sconfinata, tenebrosa, sotto quella polvere di stelle, e si vide, si sentì piccolissimo, e piccolissimo vide il rivale; piccolissima, la sua miseria annegarsi nel sentimento che gli s'allargava smisurato, della vanità di tutte le cose. Allora, con amaro dileggio, si persuase a profittar del mare tranquillo e del sonno della moglie e dei figliuoli per farsi una dormitina anche lui, fino all'approdo in Sicilia a giorno chiaro.
Così fece. Ma la bella filosofia gli venne meno di nuovo, come il piroscafo fu per doppiare Monte Pellegrino e imboccare il golfo di Palermo. Ora la moglie era diventata coraggiosissima: una leonessa; e anche i figliuoli, tre leoncini. Volevano andare sul ponte subito subito a godere della magnifica vista dell'entrata a Palermo

– Nossignori! Non permetto! Prima aspettate che il vapore si fermi!

– Oh Dio, Faustino, ma se tutti gli altri passeggeri sono già su!

– Va bene. E voi state giú. Ma perché?

– Perché voglio così!

Figurarsi se si voleva far vedere da quello alla luce del giorno, con quella moglie accanto tutta ammaccata e spettinata, con quei tre piccini con gli abitucci sporchi e tutti raggrinziti!
Ma quando, alla fine, il vapore s'ormeggiò e dalla banchina dello scalo fu buttato il pontile sul barcarizzo – via! via di furia! il facchino avanti, con le valige, lui Faustino dietro, coi due maschietti uno per mano; la moglie appresso, con la Bicetta. Se non che, giunto a mezzo del pontile, gettando per caso uno sguardo sotto la tettoja della banchina alla gente venuta ad assistere allo sbarco dei passeggeri, Faustino Sangelli non vide e non capì piú nulla.
Lì, su la banchina, sotto la tettoja, c'era Lillì, Lillì venuta col suo bambino ad accogliere il marito, Lillì che lo guardava, sbalordita, con tanto d'occhi; piú che sbalordita, quasi oppressa di stupore.
La intravide appena. Lo stesso viso; lo stesso corpo, saldo, svelto, formoso; solo gli parve che avesse i capelli ritinti, dorati. Il pontile, la folla, le valige, lo scalo, la tettoja, tutto gli girò attorno. Avrebbe voluto sprofondare, sparire. Dov'era il facchino? Chi aveva per mano? Si cacciò nell'ufficio della dogana, ma, in tempo che faceva visitare le valige ai doganieri, vide Silvestro Crispo attraversar l'ufficio, fosco e solo.
E come? Lillì dunque non s'era accorta del marito? Se l'era lasciato passar davanti senz'accorgersene? Ed era venuta apposta così di buon mattino allo scalo, per accoglierlo all'arrivo. Tanta impressione dunque le aveva fatto la vista inattesa di lui; dopo tanti anni? E chi sa che scena tra poco sarebbe accaduta a casa, quand'ella, ritornando col bambino, vi avrebbe trovato il marito, già arrivato; il marito che avrebbe indovinato subito la ragione per cui ella non s'era accorta di lui, là sulla banchina dello scalo!
Fu per goderne malignamente, Faustino Sangelli; ma ecco che, sballottato con la moglie e i tre figliuoli dentro un enorme e sgangherato omnibus d'albergo, tutto fragoroso di vetri, là per il viale dei Quattro Venti si vide raggiungere da una carrozzella, la quale si mise lenta lenta a seguire il lentissimo enorme omnibus fragoroso.

Nella carrozzella c'era Lillì col suo bambino.
Faustino Sangelli si sentì strappare le viscere, tirare il respiro, e non seppe piú da che parte voltarsi a guardare per non veder l'antica fidanzata che gli veniva appresso, appresso, e che lo guardava sbalordita con tanto d'occhi. Patì morte e passione. Quegli occhi, così stupiti gli dicevano quant'era cambiato: lo guardavano come di là da un abisso ove adesso anche il ricordo della sua lontana immagine precipitava e ogni rimpianto, tutto. E di qua dall'abisso, sul carrozzone traballante e fragoroso ecco, c'era lui, lui quale s'era ridotto, fra quei tre figliuoli non belli e quella stupida moglie. Ah, fare un salto da quel carrozzone a quella carrozzella, mettere a terra il bambino di lei, e attaccarsi con la bocca a quella bocca che era stata sua tant'anni fa; commettere l'ultima pazzia, fuggire, fuggire... – Perché lo guardava ella così? Che pensava? Che voleva? Ecco, si chinava verso il bambino che le sedeva accanto, poi rialzava la testa e sorrideva, sorrideva guardando verso lui, tentennando lievemente il capo. Lo derideva? Su le spine, temendo che la moglie guardando a quella carrozzella s'accorgesse della sua agitazione, si prese sulle ginocchia uno dei figliuoli, gli grattò con una mano la pancina e si mise a ridere, a ridere anche lui, a ridere per fare a sua volta un ultimo dispetto a lei che seguitava a venirgli appresso senz'essersi accorta del marito arrivato con lui.

– Ti sei smattinata, e adesso a casa sentirai, cara, sentirai!

Pensava, e rideva, rideva. Ma come una lumaca sul fuoco.

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Duello a S.Tobia

Post n°539 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Ricordate l'insana passione di Melchiorre Scozzagalli,l'uomo più anziano di S:Tobia,per la Candida,fidanzata di Abramo Jellenstein?
Bene,le cose non sono affatto miogliorate con la partenza della ragazza,anzi!
Alla fine l'Abramo,stufo marcio,ha affrontato il vecchiardo e lo ha sifadato a duello.Chi vinceva avrebbe avuto la ragazza,con buona pace del perdente.
E'così cominciata una settimana che per i nostri paesani definire di passione è poco.
Pensate che esageri?Leggete!
LUNEDI- All'alba Abramo e Melchiorre,armati di doppietta,si sono affrontati sulla piazza principale.
Siccome uno è miope come una talpa e l'altro ha il palletico,sono ancora vivi,ma 24 piccioni e 5 passerotti hanno reso l'anima s Dio,Be'erino è stato impallinato nel posteriore,la statua della fontana è stata decapitata e il portone del municipio disintegrato.
MARTEDI'- Affrontatisi all'alba all'arma bianca in un mattino di nebbia in Val Padana,i due sono ancora vivi,mentre il cane dello Sgozzaloca ha mezza coda in meno.
MERCOLEDI'- I due hanno deciso di dirimere a pugni la questione.
Per farlo hanno scelto il campo di Geppo,che ha sguinzagliato i suoi 15 pelosissimi,ringhiosissimi e pulciosissimi cani.
I due hanno fatto per dodici volte il giro del paese,inseguiti dalle bestiacce.
GIOVEDI'- Melchiorre e l'Abramo si sono sfidati a chi beveva di più.
Lo Scozzagalli ha svegliato mezzo paese intonando canzonacce da osteria e suonando campanelli,
L'Abramo ha svegliato l'altra metà piangendo e ululando in preda a sbronza malinconica.
Intanto siamo punto e da capo
VENERDI'- I due rivali si sono sfidati a poker all'osteria Trombettoni.Uno ha accusato l'altro di barare;si sono create due opposte fazioni ed èscoppiata una rissa da Far West.
35 persone hanno passato la notte in guardina,altre 15 al pronto soccorso.
SABATO- I due disgraziati si sono sfidati a una corsa in moto
Melchiorre ha ammazzato tre galline e quattro paperi e ferito gravemente un tacchino,poi è finito nella concimaia di Teobaldo.L'Abramo,invece,ha investito Cesarone,che ovviamente non ha gradito e ora è il nuovo detentore del record di salto sul campanile.
DOMENICA-I paesani esasperati hanno cacciato a furor di popolo Melchiorre e l'Abramo,proibendo loro di tornare pena immediata decapitazione sulla pubblica piazza.
E' passata una settimana.
La Marianna ha citato i due a Forum.
Il cane dell'Anatolio è in cura dallo psichiatra.
Gli Scozzagalli han fatto domanda al Presidente dellaRepubblica per cambiare cognome.
Raggiunta telefonicamente a Zanzibar,la Candida ha fatto sapere che il fidanzamento è rotto ed ha pregato il qui scrivente di mandare a nome suo Melchiorre e l'Abramo a quel paese con biglietto di sola andata (oh gente,ambasciator non porta pena,eh?)
E i due scellerati? Pare ma non è certo che si siano rifugiati da Clodoveo e dagli orsi marsicani e siano diventati amici per la pelle.
Se un son grulli...
Stretta la foglia,larga la via,dite la vostra che ho detto la mia



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A uno sconosciuto

Post n°538 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

conosciuto che passi! Tu non sai con che desiderio ti guardo,
Devi essere colui che cercavo, o colei che cercavo (mi arriva come un sogno),
Sicuramente ho vissuto con te in qualche luogo una vita di gioia,
Tutto ritorna, fluido, affettuoso, casto, maturo, mentre passiamo veloci uno vicino all'altro,
Sei cresciuto con me, con me sei stato ragazzo o giovanetta,
Ho mangiato e dormito con te, il tuo corpo non è più solo tuo né ha lasciato il mio corpo solo mio,
Mi dai il piacere dei tuoi occhi, del tuo viso, della tua carne, passando,
In cambio prendi la mia barba, il mio petto, le mie mani,
Non devo parlarti, devo pensare a te quando siedo in disparte o mi sveglio di notte, tutto solo,
Devo aspettare, perché t'incontrerò di nuovo, non ho dubbi,
Devo vedere come non perderti più.

 
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Libri dimenticati: Nessuno resta solo (Caldwell)

Post n°537 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Jim è un giovane prete che presta servizio come cappellano militare nella Germania devastata dalla guerra appena finita.La sua vita si incrocia con quella di cinque ragazzini,Max,Pietro,Jean,Anna e la piccola Emilie,scampati ai campi di concentramento,ognuno con una dolorosissima storia alle spalle.
I ragazzi per sopravvivere si sono messi in gruppo e vivono fra le rovine di Berlino come selvaggi.
Con grandissima abnegazione e amore,Jim riesce ad avvicinarli e decide,contro il parere di tutti,di adottarli e portarli a vivere in America,nella nuova parrocchia che gli è stata destinata.
La comunità,già ostile al suo arrivo,si rivolterà contro i ragazzi,arrivando anche ad atti di violenza contro di loro.
Ma Jim alla fine vincerà la sua battaglia,anche se questo vorrà dire sofferenze terribili (Emilie,infatti,nata con un vizio cardiaco  in un lager,morirà).
E' un libro toccante,che svolge con delicatezza un tema molto scottante

 
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Frase del giorno

Post n°536 pubblicato il 27 Agosto 2011 da odette.teresa1958

All my world goes afire

 
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