Messaggi del 31/08/2011

Il Principe Pettirosso

Post n°585 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Dunque c'era una volta un Principe e una Principessa giovani e sposati da qualche anno; lui, buono, gentile, caritatevole; lei, bella, ma piena di capricci e talvolta superbiosa e crudele. Comandava, e voleva essere subito obbedita; esprimeva un desiderio e pretendeva che fosse immediatamente soddisfatto. Se qualcuno dei servitori, dei dipendenti, non intendeva bene i suoi ordini, o li eseguiva male, diventava una furia. Invano il marito tentava di rabbonirla: "Principessa!... Principessa!..." Si rivoltava contro di lui, gli rispondeva con parolacce che non stavano punto bene in bocca di una dama sua pari. Una volta si era incapriccita di una pianta del giardino che circondava il castello dove essi abitavano. L'annaffiava lei, la ripuliva lei; guai se il giardiniere si permetteva di levar via una foglia avvizzita e cascata per terra! Una pianta comune: ma la Principessa si era messa in testa che dovesse far fiori e frutti rari.

Una sera, scende in giardino e scorge tra i rami fili di paglia, con alcune piumine e il groviglio di un po' di refe. Le parve un delitto. "Giardiniere, che significa questo?" "Qualche coppia di uccellini si prepara il nido, Principessa." "Buttate via ogni cosa; non voglio nidi su la mia pianta." E il giardiniere, presi quei fili di, paglia, quelle piumine, quel po' di refe, ne fece un batuffolo e lo buttò via. Fra i rami di un'alta pianta vicina due uccellini svolazzavano e strillavano, quasi piangessero di veder dispersi quei primi materiali del loro nido. "Poverini!" esclamò sotto voce il giardiniere. E, il giorno dopo, vedendoli andare e venire affannosamente, portando coi becchi fili di paglia, piume, foglie secche, grovigli di refe, biòccoli di lana e cose simili, per ricostruire con ostinatezza il nido nel posto già scelto, il giardiniere li compiangeva: "Verrà la Principessa e vi disfarà ogni cosa! Mancano piante e rami, poverini!" Ma gli uccelletti non intendevano le parole del giardiniere, e andavano e venivano affannosamente; verso sera, il loro nido era già bell'e finito. Appena la Principessa lo scorse tra i rami, se la prese col giardiniere. "Che colpa ne ho io? Poverini, hanno fretta di depositarvi le ova." "Ah sì? Domani ne farò una frittatina pel gattino." Attese che la femmina avesse terminato di deporre le ova, e ordinò al giardiniere: "Portatemele in cucina, e disfate quel nido!" Il giardiniere obbedì a malincuore: aveva le lacrime agli occhi sentendo gli strilli degli uccellini che parevano un pianto. La crudele Principessa ruppe di sua mano gli ovicini in un tegamino, vi aggiunse, cacio e pane grattato, e ne fece, come aveva detto, una frittatina pel gattino che le stava tanto a cuore. Il gattino esitava a mangiarla, miagolava, si ritirava indietro. Ma quando la Principessa si era ficcata in testa una cosa, non c'era verso di farla desistere. "Il gattino non ha fame" gli disse il Principe. "Fame o non fame, deve mangiare questa frittata; l'ho fatta apposta per lui." Il gattino, preso pel collo, col muso nel tegamino, dovette mangiare per forza. Ma aveva appena ingoiato l'ultimo boccone, che "Meo! Meo! Meo!" stirava le gambe e moriva, quasi avesse preso un veleno. La Principessa rimase scossa da quella disgrazia; il gattino era la sua bestiolina prediletta. E la notte dopo fece un brutto sogno. Si destò atterrita: "Ah, Principe, se sapeste che cosa ho sognato!" "Che cosa, Principessa?" "Tante piume, tante piume fioccavano giù dal cielo come falde di neve, ed io mi trovavo appesa al collo una padellina di rame. Le piume mi toglievano il respiro: la padellina pesava, pesava... È un triste presagio, certamente." "Si sognano tante sciocchezze, Principessa!" "No, Principe! Bisogna consultare coloro che spiegano i sogni." "Li consulteremo.. Intanto non vi affliggete per così poco!"

Furono chiamati parecchi sapienti. Stettero a sentire, seri, con le sopracciglia corrugate, sfogliarono a lungo i libroni che avevano portati con loro. Chi diceva una cosa, chi un'altra, e ognuno affermava che la sua spiegazione era la vera. "Mettetevi d'accordo, signori miei!" Il Principe non poteva persuadersi che quelle piume fioccanti dal cielo e quella padellina di rame appesa al collo di sua moglie significassero tante opposte cose. "Mettetevi d'accordo, cari miei!" Invece di mettersi d'accordo, quei sapienti finivano col darsi vicendevolmente dell'asino, e con lo scaraventarsi addosso i loro grossi, volumi. La Principessa non si dava pace. "Bisogna consultare un gran Mago! La cosa è troppo intrigata, se nessuno di questi sapienti è riuscito a spiegarla." "Si sognano tante sciocchezze, Principessa!" "No, Principe! Questa volta ho un grande sgomento nel cuore." "Consulteremo il mago Barba-d'oro. Lo manderò a chiamare al castello." E spedì persona fidata con ricchissimi doni. Il mago Barba-d'oro accettò i doni, ma quando sentì di che cosa si trattava, rispose sdegnato: "Non sono il servitore di nessuno."

Sia signore, sia vassallo,
Né in carrozza, né a cavallo
Chi non viene coi suoi piedi,
Barba-d'oro non riceve.

Il messaggero tornò con questa risposta. Per arrivare alla abitazione del Mago bisognava camminare tre giorni e tre notti, attraverso luoghi incolti, infestati da bestie feroci, forteti, boscaglie, orridi sentieri. Il messaggero aveva temuto di non tornare vivo al castello. "Mi sembra un bel modo di dirci: Non venite; è proprio inutile." "No, Principe; a qualunque costo!" Se la Principessa era testarda per cosine da nulla, figuriamoci ora che viveva sotto lo strano terrore del suo sogno! Invano il Principe si sforzava di convincerla che i sogni non hanno né capo né coda. Le voleva bene, e vedendola ostinata a intraprendere il pericoloso viaggio, cominciò a sentirsi penetrare nell'animo lo stesso sgomento di sua moglie. Quel sogno doveva essere un cattivo presagio! E decisero d'andare a piedi dal mago Barba-d'oro. Si misero in viaggio all'alba e camminarono tutta la giornata. La Principessa era così impaziente di avere la spiegazione del suo sogno, che non si curava della fatica e dei disagi del cammino. "Riposiamoci un po', Principessa!" "Più in là, Principe, più in là." Forteti, boscaglie, orridi sentieri; e la notte, sotto il cielo stellato senza luna, urli di bestie feroci, vicini, lontani, che li atterrivano e non permettevano ch'essi chiudessero un occhio. Un giorno e una notte; e poi daccapo, un altro giorno e un'altra notte. Per quegli orridi sentieri non s'incontrava anima viva. Il povero Principe non ne poteva più. "Riposiamoci un po', Principessa!" "Più in là, Principe, più in là!" Finalmente, il terzo giorno, verso sera, ecco tra gli alberi la casa del Mago. Con la facciata annerita dal tempo, tutta coperta di macchie di umido e di muffa verdastra, coi vetri delle finestre appannati dalla, polvere e dai ragnateli, quella casa ispirava ribrezzo. La Principessa, col fiato al denti, con le gambe che le si piegavan sotto, fece uno sforzo, giunse davanti alla porta e picchiò. Comparve il mago Barba-d'oro. "Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!" Il Principe e la Principessa allibirono. "Entrate, ristoratevi, e andate a letto. Domani, con comodo, riparleremo del sogno." Il Principe e la Principessa allibirono. Quel Mago sapeva tutto!

Il giorno dopo il sole era già alto ed essi dormivano ancora. Se non la svegliava il Principe, la Principessa avrebbe dormito fino a tarda sera. Il Mago li attendeva nel suo laboratorio. "Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!" "Perché, mago Barba-d'oro?" "Non lo sapete che i nidi sono cosa sacra? Distruggere un nido è come appiccare il foco a una casa. Voi avete impedito di nascere a sei creature di Dio e per malvagità, non per altro. Ne sarete gastigata. In che modo io non so dirvelo. Ve lo dirà la fata Cicogna." "E dove si trova la fata Cicogna?" "Guardate da questa finestra: laggiù, laggiù, su quel tetto." "Badate però di non chiamarla fata Cicogna, ma fata Splendore. Le piume e la padellina di rame del sogno significano il vostro gastigo. Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!" "Grazie, mago Barba-d'oro!" E all'alba del giorno dopo partirono. Cammina, cammina, cammina, e al tetto della fata Cicogna, che dalla finestra era parso così vicino, non si arrivava mai. La Principessa non osava di rifiatare, pensando che tutti quei disagi il Principe li soffriva per colpa di lei. Ma forse essi erano niente, in confronto dei guai che li attendevano. Il mago Barbad'oro aveva ripetuto più volte: "Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!" Giunsero alfine, stanchi morti. La fata Cicogna stava sul tetto, ritta sopra un piede, col collo nascosto sotto un'ala; dormiva. Attesero che si svegliasse. Abbassò l'altro piede, distese il collo, sbatté le ali e mandò fuori un rauco grido, che parve sbadiglio. "Fata Cicogna, fata Cicogna, ci manda il mago Barbad'oro." Nello sbalordimento, la Principessa aveva dimenticato di chiamarla fata Splendore.

"Ha fatto mala bisogna
Chi cerca fata Cicogna:
Fra le piume nasce un giglio,
È figlio e non è figlio.
Padella preparata
Frittata e non frittata."

Aperse le ali, tese i piedi e la fata Cicogna volò via. "E ora come faremo? Bisognava dire fata Splendore!" "Torniamo dal Mago; ci consiglierà." E rifecero la strada. "Ah, mago Barba-d'oro! Mi scappò detto fata Cicogna!" "Non vi perdete d'animo. Fate fare un gran nido d'oro e portateglielo; non c'è altro rimedio, Principessa." "Faremo fare un gran nido d'oro "disse il Principe. "Ma che cosa significano le parole: È figlio e non è figlio? Frittata e non frittata?" "Ve lo deve dire soltanto fata Cicogna." Tornarono al castello, che erano quasi irriconoscibili, ed ordinarono subito un gran nido di cicogna tutto d'oro. Quando fu pronto, dopo un mese, Principe e Principessa si rimisero in cammino, ma questa volta a cavallo, e andarono direttamente da fata Cicogna. Stava sul tetto, ritta sopra un piede, col collo nascosto sotto un'ala: dormiva. Attesero che si svegliasse. "Fata Splendore, fata Splendore, ci manda il mago Barba-d'oro." "Io mi chiamo Cicogna e non Splendore!" Principe e Principessa si guardarono in viso, contristati. "Accettate, vi preghiamo, questo povero nido." Fata Cicogna stese il collo, afferrò col becco il nido d'oro e lo ripose sul tetto.

Ha fatto mala bisogna
Chi non cerca fata Cicogna.
Tra piume nasce un giglio,
È figlio e non è figlio.
Padella preparata,
Frittata e non frittata.

Aperse le ali, tese ì piedi e fata Cicogna volò via. Principe e Principessa non se l'aspettavano. La Principessa non aveva sbagliato. "Ho detto: fata Splendore: è vero?" "Sì, fata Splendore." "O dunque?" "Torniamo dal Mago, ci consiglierà." "Non vi perdete d'animo" disse il Mago. "Fate fare due ova d'argento grosse quanto le ova di cicogna e portategliele." "Ma come bisogna dire: fata Cicogna o fata Splendore?" "Sempre fata Splendore." E un mese dopo furono di ritorno con le due ova d'argento. "Fata Splendore, fata Splendore, ci manda il mago Barbad'oro. Accettate queste due ova." Fata Cicogna stese il collo, afferrò col becco prima uno poi l'altro ovo e li collocò nel nido d'oro e vi si accoccolò come per covarli.

"Ha fatto buona bisogna
Chi ha cercato fata Cicogna.
Tra piume nasce un giglio,
È figlio e non è figlio.
Padella preparata,
Frittata e non frittata."

Quando avrò covato quest'ova, tornate e saprete. "Quanto ci vorrà?" "Il sole ora spunta da quel monte, dovrà spuntare da quella collina." Il Principe calcolò che ci volevano tre mesi. E, passati i tre mesi, rifecero il cammino. Trovarono la fata Cicogna accoccolata nel nido d'oro, quasi per covare le ova d'argento. "Fata Splendore, fata Splendore, spiegatemi il sogno, se vi piace." "Avrete presto un figlio, e sarà uomo e sarà uccello..." "Che disgrazia, fata Splendore!" "... fino ai vent'anni, Principessa. Poi diventerà un bel giovane, ma dopo aver trovato la sposa." "E la padellina che cosa significa?" "Significa la sposa.. Non dovete saper altro." "Ma che uccello sarà nostro figlio?" domandò il Principe. "Quel che la Principessa vorrà; passerotto o pettirosso." "Pettirosso, fata Splendore." "E pettirosso sia, Principessa. Principe Pettirosso è un bellissimo nome." "Che disgrazia, fata Splendore!" "Avrebbe potuto accadervi di peggio: i nidi sono cosa sacra."

La Principessa era in grande angoscia, pensando che suo figlio fino ai vent'anni sarebbe stato un pettirosso. E quando partorì e fece un bel bambino non credeva ai suoi occhi. "Fata Cicogna..." "No, fata Splendore" la corresse il Principe. "Fata Splendore ha voluto metterci paura. Tanto meglio che sia finita così Però..." "Però?" "Non son, però, rassicurato del tutto." "Non siate il corvo del malaugurio pel bambino." "Stiamo a vedere." "Stiamo a vedere."

Una mattina la Principessa, mutando i pannolini al bambino, diè un grido di orrore. Tutto il corpicino della sua creatura era coperto di una peluria gialliccia come quella dei pulcini appena nati. E il corpicino pareva già un po' dimagrito, quasi rattrappito. "Figliolino, figliolino mio!" La Principessa aveva fin ribrezzo di toccarlo. Di giorno in giorno la trasformazione diveniva più evidente. I braccini prendevano la forma di ali e si coprivano di piume; le gambine si assottigliavano e le dita dei piedi si allungavano in zampine con ugne aguzze. E di mano in mano che le piume invadevano tutto il corpicino che si rattrappiva, si rattrappiva, nasino e labbra si foggiavano in becco. In meno di due mesi, il bambino era diventato il più bel pettirosso che si potesse vedere. Principe e Principessa avevano vergogna di far sapere che il loro figliolino era diventato un pettirosso. Dissero che lo avevano mandato a balia, lontano. Ma questa finzione non valse. Quando il bambino avrebbe dovuto poter dire: "Babbo! Mamma! "lo disse il pettirosso, che la Principessa teneva posato su un dito, e n'ebbe paura e gioia quasi nello stesso momento. Non lo potevano più tenere in gabbia: voleva volare qua e là, fare il chiasso con gli altri uccellini su pei rami degli alberi del giardino. "Non aver paura, mamma! Non aver paura, babbo!" E volava via; e li chiamava dalla cima di un albero, dalla grondaia di un tetto: "Mamma! Babbo!" E spesso portava con sé uno stormo di altri uccellini, passerotti, capinere, cardellini, raperini, pettirossi come lui. Entravano con un gran frullio d'ali, s'inseguivano di stanza in stanza, si posavano sulle cornici dei quadri e degli specchi, sui tavolini, sui letti, indisturbati, perché il Principe e la Principessa avevano paura d'incappare in qualche guaio peggiore di quello sofferto e per cui soffrivano ancora. Anzi la Principessa, visto che quell'invasione ormai accadeva ogni giorno, buttava qua e là miglio, midolle, bricioli, canapuccia, scagliòla, insalatina tritata, e teneva preparati beverini con acqua, ciotoline per potervisi bagnare. Si sarebbe divertita anzi, vedendosi trattata con tanta familiarità da tutti quegli uccellini che, prima, al suo apparire in una stanza, scappavano, se essi, in compenso, avessero badato un poco alla pulizia. Invece, sporcavano da per tutto, cantando, trillando, pigolando, quasi fossero in piena campagna. "Ah, figliolo, figliolo! Dovresti farglielo capire." "Compatiscili, mamma; non sanno di far male." E in aprile e maggio, il castello era pieno di nidi. Non c'era stanza dove i passerotti, i cardellini, le capinere, i pettirossi non ne avessero collocati due, tre, come se il castello fosse stato casa loro. La Principessa ne trovava su le mensole, su i tavolini, negli angoli per terra, su i cassettoni, su gli armadi, su i canapè, su le poltrone, appesi alle branche delle lùmiere, dei saloni; e dei salotti, fin sul cielo del cortinaggio di camera. Ed era un andare, un venire, un pigolare di uccellini appena scovati e affamati con le testine in aria e i beccucci spalancati. "Ah, figliuolo, figliuolo!" "Quando sarò cresciuto, non avverrà più, mammina!..."

E quantunque fossero già trascorsi dodici anni, e il Principino parlasse spesso con lei, la povera Principessa non sapeva ancora difendersi da un'impressione di paura. Erano passati dodici lunghi anni, che al Principe e alla Principessa erano parsi dodici secoli! Ora il principino Pettirosso scappava via due volte al giorno e non si sapeva dove andasse. Andava certamente lontano, perché non si udiva più nei dintorni il gorgheggio del suo canto. "Principino, dove andate? Vado in cerca della sposa." "Principessa come voi, non dimenticate la vostra qualità." "E più buona che bella. Principessa o no, non importa." "Sì, mamma! Sì babbo!" E scappava via; e quando tardava a ritornare, Principe e Principessa passavano ore di angoscia mortale. "Che gli sia capitata qualche disgrazia?" "Non gli facciamo il cattivo augurio..." Appena,arrivava: "Dove siete stato, Principino?" "Avete trovato, Principino?" "Sono stato in cento posti, ma non ho ancora trovato nulla." "Come? Non ci sono più Principesse a questo mondo?" "Ce ne sono, mamma, anche troppe, ma non fanno per me." "E le altre donne?" "Babbo, le buone non sono belle, e le belle non sono buone, quelle che ho viste, intendo dire. Cercherò, ho ancora tempo un anno." "Principessa come voi, non dimenticate la vostra qualità." "E più buona che bella. Principessa o no, non importa." "Sì, mamma! Si, babbo!" E scappava via. La Principessa non poteva sopportare che il Principe dicesse al figlio: "Principessa o no, non importa." "Come, non importa? Deve dunque abbassarsi fino al fango della terra?" "Chi ha mai detto questo? Più buona che bella non significa fango, mi pare." "Vedrete che il Principino commetterà qualche sciocchezza." "Ne commettiamo tutti" "Ah! Mi rinfacciate ancora?!" E continuavano a bisticciarsi, fino al ritorno del principino Pettirosso. "Avete trovato?" "Non ho trovato!" "Mancano Principesse?" "Manca quella che vorrei io." "E le altre donne?" "Le buone non sono belle; le belle non sono buone, quelle che ho viste, intendo dire. Cercherò ancora, babbo!" "Principessa, come voi!" "E più buona che bella. Principessa o no, non importa." "Sì, mamma! Sì, babbo!" E scappava via.

Un giorno, finalmente, lo videro tornare con volo così impetuoso, che lo credettero inseguito da qualche uccello di rapina. Volava per la stanza, facendo giri, intrecci; sembrava ammattito. Ci volle un pezzetto prima che si calmasse. "Che cosa accade, Principino?" "Ho trovato, mamma! Ho trovato!" "Una Principessa?" "Una più buona che bella?" "Principessa, e più buona che bella! Sposerò Cingallegra." "Ah, figlio, figlio mio!" La Principessa dètte in un pianto che mai. Chi era Cingallegra? Egli dunque s'immaginava di dover restare pettirosso per tutta la vita! Ci mancava quest' altra disgrazia! "Chi è Cingallegra?" gli domandò il Principe, angustiato anche lui. "Colei che canta nell'orto del ramaio." "È dunque una giovane?" "Più buona che bella, come tu la volevi." "Ed è figlia di un ramaio?" "È più Principessa di me che ora sono pettirosso" rispose ridendo. "Ah figlio! Figlio mio!" E la Principessa, sentendogli dire queste cose, dava in un pianto più dirotto. Ora il principino Pettirosso andava via avanti l'alba e tornava col sole non ancora alto. "Donde venite, Principino?" "Da Cingallegra, mamma cara." "Se mi volete bene, lasciatela andare. Cingallegra non fa per voi." "Se la sentiste cantare, non direste così." Ripartiva col sole vicino al tramonto e tornava prima che fosse sera inoltrata. "Donde venite, Principino?" "Da Cingallegra, babbo caro." "E come canta Cingallegra?" "Canta così." Ma non gli riusciva di cantare con voce umana; gorgheggiava, gorgheggiava, e, dopo un pezzetto, si interrompeva: "No, non è proprio così!" E in camera, o su un ramo d'albero del giardino, gorgheggiava, gorgheggiava, provando, riprovando, interrompendosi all'ultimo: "No, non è proprio costì" La Principessa era inconsolabile. Pensava: ' Se non avessi distrutto il nido e rotto quegli ovicini, tutto questo non sarebbe accaduto! Ah, figlio mio, figlio mio! ' Né lei, né il Principe, intanto, si ricordavano che il principino Pettirosso era già sul punto di compire i vent'anni.

Una mattina, che lo credevano volato via avanti l'alba, non vedendolo ritornare all'ora solita; Principe e Principessa stavano in gran pensiero. "Che gli sia accaduto, qualche disgrazia?" "Non gli facciamo il cattivo augurio!" E si misero alla finestra, guardando verso il punto d'onde pel solito lo vedevano spuntare. Sentirono rumor di passi alle spalle... Principe e Principessa credettero impazzire dalla gioia. "Sono io, mamma! Sono io, babbo!" Il Principino aveva cessato di essere pettirosso, ed era un bel giovane, biondo come la madre, alto e ben fatto come il padre. I baci e gli abbracci non finivano più. La Principessa si immaginava che ora il Principino non avrebbe più parlato di Cingallegra. Invece ne riparlò subito. La madre ne fu desolata. II padre, più condiscendente, diceva: "Poiché è più buona che bella!" "La figliola di un ramaio! Non acconsento! Non acconsento!" Il Principe, per calmarla, le disse: "Andiamo a prender consiglio dal mago Barba-d'oro." "Andiamo a prender consiglio dalla fata Cicogna, che ne sa più di lui!" Si decisero per la fata Cicogna. Ma la mattina che stavano per partire, alzano gli occhi e che cosa veggono? La fata Cicogna su una torretta del castello; il nido d'oro luccicava al sole sotto di essa, e tra l'intreccio delle barrette che figuravano da sterpi, si scorgeva il bianco degli ovi d'argento. "Oh, fata Cicogna, noi venivamo da voi!"

Ha fatto mala bisogna
Chi ha detto fata Cicogna.

"Fata Splendore! Fata Splendore!" gridò allora la Principessa. Tra le piume è nato un giglio, Non era figlio ed ora è figlio. Padella preparata, Frittata e non frittata! Aperse le ali, tese piedi, e la fata Cicogna volò via. "Volete una risposta più chiara?" disse il Principe. La Principessa chinò il capo, abbattuta. "Padella preparata, è evidente, significa la figlia del ramaio." "E frittata e non frittata che vorrà significare?" "Significa, credo, che tutto anderà pel suo meglio. Ci ha lasciato il nido d'oro e le uova d'argento; è il buon augurio agli sposi. Come il principe Pettirosso sposasse Cingallegra voi lo sapete da un pezzo e sapete anche che il ramaio e Reginotta furono accolti nel castello e beneficati da loro. Apprenderete oggi il resto, e le due fiabe saranno compiute." Quando il principe Pettirosso rispondeva, ridendo, al padre: "È più Principessa di me, che ora sono pettirosso" sapeva bene quel che diceva. In uno di quei giorni che volava attorno da mattina a sera in cerca di una sposa, Principessa come voleva sua madre, o più buona che bella come gli suggeriva suo padre, il Principino aveva incontrata la fata Cicogna. "Dove vai, piccolo pettirosso?" "Cerco la mia fortuna, una moglie." "Vieni con me, te la trovo io." "Principessa?" "Principessa." "Più buona che bella?" "Più buona che bella! Eccola là." E gli mostrò Cingallegra che cantava, sciorinando i panni nell'orto. "Più buona che bella può darsi, ma Principessa..." "Principessa quanto te e più di te." "Come mai?" "L'hanno scambiata a balia: e i parenti non se ne sono accorti. La figlia del ramaio aveva una voglia di fragola sotto l'ascella, e Cingallegra non l'ha. Cingallegra è figlia di Principi. Ti basti di saper questo."

Infatti un giorno, a tavola, il principe Pettirosso disse al ramaio: "Vostra figlia dovrebbe avere una voglia di fragola sotto l'ascella." "Certamente; sembrava una fragoletta davvero." "Ma Cingallegra non l'ha." "Non l'ha?" E così fu confermato quel che aveva detto fata Cicogna. Ma ora alla Principessa non importava più che Cingallegra fosse o non fosse figliola di ramaio. Non vedeva lume che per gli occhi di lei. Accade spesso così.

Frittata e non frittata, La fiaba è terminata.

 
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La sposa dal cielo

Post n°584 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Nara era un giovane molto bello e ambito da tutte le ragazze della sua tribù. Il padre lo esortava a sposarsi, ma lui rifiutava. "Amerò soltanto la figlia del Sole". Visto che tutti lo prendevano in giro, Nara salì sul monte più alto e chiamò il Sole. Gli voleva chiedere la mano della sua bellissima figlia. Ma il Sole era troppo lontano e non riusciva a sentire i richiami del ragazzo. Nara era disperato perché se non riusciva nemmeno a parlare con il Sole, come avrebbe potuto convincerlo a concedere la mano della giovane? Gli animali della foresta, che gli volevano bene, cercarono di aiutarlo. La lepre disse che spesso il Sole e sua figlia scendevano dal cielo per tuffarsi nel mare. Ma di solito lo facevano all'ora del tramonto. "Aspetterò", pensò Nara. E infatti quella sera li vide scendere e buttarsi in mare, per divertirsi tra le onde. Nara mandò un delfino a consegnare una lettera al Sole. Appena la grande stella lesse il messaggio si stupì per il coraggio dimostrato da quel giovane. "Chi e', o delfino, il ragazzo che ti ha consegnato la lettera?", disse il Sole. Il delfino gli indicò il bellissimo ragazzo che aspettava sulla spiaggia. La lettera era così bella, che il Sole decise di avvicinarsi per conoscere quel temerario. Anche Luce, sua figlia, si era incuriosita e stava già fantasticando sul suo innamorato. Ma quando i due sovrani del cielo arrivarono sulla riva del mare, videro gli animali e il ragazzo fuggire veloci. Il calore che accompagnava il Sole era così straordinario, che nessuno poteva sopportarlo, solo il delfino, perché aveva lanciato il messaggio da lontano, mentre si tuffava. La storia d'amore tra i due stupendi giovani non cominciò mai. Ma entrambi soffrirono molto. Anche il Sole provò dispiacere, perché capì che poteva fare del bene agli uomini e alle donne solo stando molto lontano da loro.

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Le sette montagne d'oro

Post n°583 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Una volta ad un giovane cadde dell’acqua dalla finestra proprio quando passava una strega, e la bagnò tutta. La strega, molto cattiva, si rivolse al giovane e gli disse: “Se non trovi le sette montagne d’oro, non troverai una fidanza bella come piace a te!”. Così dispiaciuto, il giovane andò dal padre e gli raccontò quanto gli era capitato, e questo gli disse di non dar retta ad una strega, poiché era bello e ricco e ne avrebbe incontrate tante di donne. Tuttavia il giovane convinse il padre a dargli un cavallo della scuderia, una borsa piena di soldi e partì. Camminò e camminò per parecchi giorni quando una mattina, al sorgere del sole, vide un luccichio sopra i monti, ed era così bello che decise di andare a vedere cosa fosse. Lungo il pendio della montagna si trovava una cascina con una vecchia, e il giovane le domandò se aveva mai visto le sette montagne d’oro. La furba vecchina sapeva che sulla montagna c’era una bella fata dai capelli tutti d’oro, ma rispose che non ne sapeva niente, poi gli disse che lei aveva una figliola molto bella, e gli chiese di sposarla anziché cercare altre avventure. Il giovane rispose di no, e che era deciso ad andare all’avventura, quindi mangiò ed andò a dormire presso questa vecchia, che era la strega. All’alba, il ragazzo era deciso ad andare a vedere il sorgere del sole per scoprire cosa fosse quel luccichio, ma la furba vecchia, che si era alzata molto presto, gli preparò un caffè con una polvere che lo avrebbe fatto addormentare.

Giunto infatti alla montagna, il giovane cadde addormentato e non vide la fata che gli si era avvicinata per svegliarlo. Quando lui aprì gli occhi, la fata non c’era più. Tornato alla casetta, la vecchina gli chiese cosa aveva visto, e lui rispose che non aveva visto niente. Allora la vecchia colse la palla al balzo: “Te l’ho detto io, figlio mio, che non c’era niente da vedere. La vuoi mia figlia per sposa?” e di nuovo il giovane rifiutò. La sera di nuvo mangiò e andò a letto, e al mattino di nuovo la vecchia gli portò il caffè come il giorno prima, ma lui non lo voleva, perché cominciava a sospettare che ci avesse messo qualche stregoneria dentro. Però la donna insistette e alla fine lo convinse: così accadde tutto come il giorno precedente. La sera ritornò giù alla casetta senza aver visto la bella fata, ma pensò che il giorno dopo non avrebbe preso niente dalla vecchia.

La mattina dopo, il ragazzo si alzò molto presto, ma la vecchia era già lì, seduta vicino al fuoco e gli disse: “Torna pure a letto, ti sveglierò io!” “No, voglio andare ora!” “Aspetta almeno che ti faccia il caffè!” “Non voglio il caffè”rispose il giovane, ma la vecchina insistette tanto e ci versò una dose anche maggiore di sonnifero. Così di nuovo, giunto sulla montagna, egli cadde in un sonno profondo e non sentì arrivare la fata. Mentre dormiva, la fata indispettita gli disse: “Se adesso vuoi vedermi devi andare al palazzo della fata Alcina!” Per fortuna un pastore, che era lì col gregge, ed aveva visto tutta la scena, al risveglio gli riportò quanto aveva sentito dalla fata. Ringraziando il pastore, il giovane tornò alla casetta della vecchia per prendere il cavallo e se ne andò.

Camminò e camminò da una montagna all’altra, e la borsa dei soldi stava per svuotarsi. Intanto sentì tre persone litigare: erano tre ladri che si dividevano degli oggetti rubati, tra cui una borsa, che più soldi levi, e più ce ne ritrovi, un cappotto che chi lo indossa vede ma non è veduto, e un paio di stivali che correvano come la mente dell’uomo. Come videro il giovane gli dissero: “Tu che sei bravo, ci devi dividere questa roba, perché noi litighiamo e non sappiamo come fare!” “Fatemeli vedere e provare se veramente funzionano!” Per prima provò la borsa dei soldi, e quella si riempì di nuovo. Poi provò gli stivali e in un attimo salì su una montagna, infine provò il cappotto e chiese ai ladri: “Mi vedete?” “Sì!” “Ora non mi vedete più!”, perché si era infilato il cappotto e gli stivali e se ne era andato con la borsa, lasciando loro solo il cavallo. “Noi siamo ladri,” disse uno di essi, “ma quello è più ladro di noi!”

Così ben fornito, ora il giovane giunse in una casetta, sotto una montagna, dove trovò una vecchia alla quale chiese notizie del palazzo della fata Alcina. “Oh, dove sei capitato! Io sono la mamma dei venti, e i miei figli, quando sentono delle persone, diventano cattivi!” Dopo pochi minuti si sentì soffiare lo Scirocco che arrivava, il vento più leggero. Appena entrò in casa: “Miccio, miccio, che puzza di cristianuccio!” “Calmati, figliolo, c’è qui un bravo giovane che cerca il palazzo della fata Alcina!” “Io,” rispose il vento, “non so dov’è il palazzo della fata Alcina.” Dopo pochi minuti arrivò l’altro vento e: “Miccio, miccio, che puzza di cristianuccio!” Anche a questo la madre riferì del giovane che cercava il palazzo della fata Alcina. “Si che lo so, siccome ho un compare falegname che non aveva lavoro, a forza di soffiare io ho fatto sbattere le persiane del palazzo della fata Alcina che si sono rotte, così lei ha chiamato il mio compare per aggiustarle. Vieni, comincia a camminare che ti accompagno”. Poiché il ragazzo aveva gli stivali magici, per quanto la Tramontana corresse, lui gli stava dietro e, anzi, arrivò prima del vento al punto che gli aveva indicato. “Come, sei già arrivato”, disse sorpreso Tramontana, quindi gli indicò il palazzo e lo salutò dicendogli: “Io non posso venire con te, perché se mi vede la fata mi ammazza, per tutte quelle persiane che ho rotto!”

Alla porta del palazzo le guardie non lasciavano entrare gli estranei, allora il ragazzo s’infilò il cappotto e, diventato invisibile, entrò e si mise a girare tutte le stanze fino alla camera dove era a dormire la fata. Nascosto dietro la porta della camera, sempre col cappotto addosso, attese che la fata si risvegliasse e chiamasse la cameriera per ordinare il caffè, come tutte le mattine. Come il caffè fu posato sul comodino, svelto il giovane se lo bevve e lasciò la tazzina sporca e vuota. Allora la fata chiamò la serva e la rimproverò: “Questa mattina mi porti la tazzina sporca?” “Ma signorina, io ce l’ho messo il caffè!”

Quindi la ragazza tornò in cucina e ne preparò un altro, lo versò in una tazzina e lo ripose sul comodino. Quello, svelto svelto, se lo ribevve. Ancora più arrabbiata, la fata gridò: “Ma che fai stamattina? I giochetti? Mi riporti ancora la tazzina sporca?” Servito il terzo caffè, questa volta il giovane non ne volle più e si tolse il cappotto, presentandosi alla fata. Poiché era un bel giovane e lei una bella signorina, si sposarono.

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Le otto tartarughe d'oro

Post n°582 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era un tempo un giovane di nome Wu Dun che viveva con la madre in una capanna ai margini di un villaggio. I due non avevano niente, nemmeno un campo da coltivare, e vivevano a malapena in mezzo ai patimenti.
Un bel giorno Wu Dun decise di andare a vangare un pezzo di terra abbandonato sul pendio della montagna per seminarvi del granoturco. Il pendio era ripido, pieno di pietre, la terra era asciutta, dura da vangare, e così Wu Dun partiva da casa allo spuntare del dì e rientrava solo a notte fonda.
Ben presto sulle sue mani si sagomarono otto calli duri e spessi. Ai piedi del pendio c’era un piccolissimo stagno. A volte, prima di tornare a casa, Wu Dun si tuffava nella fresca acqua color giada per darsi una bella lavata, e sguazzava a lungo soddisfatto.
Un giorno di sole arroventato, dopo aver lavorato ore e ore senza tregua, Wu Dun, tutto sporco e sudato da capo a piedi, si trattenne come il solito nello stagno, e strofina e strofina, gli otto calli spessi e duri che aveva sulle mani, si distaccarono. Non appena ebbero toccato quell’acqua splendente e pura, si tramutarono in otto tartarughe d’oro vive e scattanti, bellissime.
Wu Dun pensò che quella faccenda era insolita veramente, in ogni modo, non tentò di catturare le tartarughe, non le toccò neppure, proseguì a lavarsi, allorché ebbe terminato, si diresse verso casa.
Quella sera era così stanco che, appena si adagiò sul letto, s’addormentò come un sasso.
A mezzanotte in punto qualche cosa lo destò, era un rumore delicato, una specie di bisbiglio che veniva dalla giara adoperata per conservare il riso. Nel dormiveglia, Wu Dun considerò che dovevano esserci in giro dei topi, ma dal momento che la giara era assolutamente vuota, non si mise in apprensione, si girò dall’altra parte e riprese il sonno interrotto.
Il giorno seguente, all’alba, s’alzò, si guardò attorno e rimase immobilizzato dal disorientamento: la giara era stracolma di riso e, sopra il grand’accumulo luminoso, otto piccole tartarughe dorate buttavano fuori della bocca, in continuazione, altri chicchi abbaglianti.
Da quel giorno la vita di Wu Dun e di sua madre cambiò molto in meglio . Ora c’era di che vivere perchè ogni notte le tartarughe ricolmavano la giara, ma il bravo ragazzo, continuò in ugual modo ad andare tutti i giorni sul pendio della montagna a vangare la terra dove un giorno avrebbe cosparso di semi di granturco.
Nel villaggio viveva un altro ragazzo, di nome Shen Chang, un malandrino e ozioso, che non aveva mai voluto saperne di lavorare in vita sua. Nel momento in cui seppe ciò che era accaduto a Wu Dun, Shen Chang decise di recarsi subito allo stagno dall’acqua color giada a lavarsi. Ci andò, ma dal momento che non aveva mai fatto nulla di stancante, le sue mani erano bianche e levigate, senza nemmeno l’ombra di un callo. Si lavò per mezza giornata, ma nell’acqua non si manifestò nessuna tartaruga d’oro.
Allora rimuginò: - Se non posso avere le magiche tartarughe, posso sempre tentare di rubarle.
Perciò, quella notte medesima, si diresse verso la capanna di Wu Dun, con una vanga in spalla. Scavò un ampio buco vicino al muro e vi avvicinò un sacco, stava per farlo passare nell’interno quand’ecco le tartarughe venire fuori del buco e mettersi dentro il sacco.
Appagato, Shen Chang mormorò: - Che fortuna ho avuto! Non sono stato costretto neppure cercarle, sono entrate da sole!
Ma ecco, che le tartarughe d’oro vennero fuori del sacco e lo aggredirono da tutte le parti. Una gli mordicchiò il naso, una la bocca, una il mento, due le orecchie, e tre i capelli.
Qualche giorno più tardi Wu Dun incontrò Shen Chang, lo guardò meravigliato, e gli disse: - Ma, come sei ridotto! Hai incontrato uno spirito malvagio? Hai perso tre quarti dei capelli, hai il naso, le orecchie e la bocca tutti mangiati, e il buco nel mento. Dimmi, che cosa ti è accaduto?
Shen Chang non era in condizione di rispondere, con la bocca tutta mordicchiata. Allora si mise a piagnucolare e le sue lacrime erano così grandi e lucenti che assomigliavano chicchi di riso.

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La leggenda dei sei compagni

Post n°581 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un vecchio signore, senza più fortuna, che aveva tre figli. Il primogenito disse un giorno al padre: "Voglio mettermi pel mondo, alla ventura." "Sia come tu vuoi" disse il padre, "ma non posso darti più di dieci scudi." "È poco, ma farò che mi bastino." Desiderio prese i dieci scudi e partì.

Giunto in città vide un uomo che gridava per le vie un bando del re. Il re cercava chi sapesse costruirgli una nave che andasse per mare e per terra. Ricompensa: la mano della principessa. "Voglio tentare" disse Desiderio, e si propose al banditore. Fu condotto alla reggia e all'indomani gli fu data un'accetta per abbattere il legno necessario all'impresa. Lavorò tutto il mattino, e a mezzodì sedette all'ombra d'un vecchio castagno, per mangiare il suo tozzo di pane. Una gazza lo guardava curiosa, scendendo di ramo in ramo. Ella diceva nel suo roco cicaleccio: "Un briciolo anche a me! Un briciolo anche a me!" E protendeva il becco verso le mani di Desiderio, supplicando. "Lasciami in pace, bestia importuna!" gridò Desiderio impaziente. La gazza risalì di due rami. "Che lavoro stai facendo?" "Dei cucchiai, se ti piace!" le rispose Desiderio, beffandola. "Cucchiai! Cucchiai!" gridò la gazza, risalendo di ramo in ramo. E disparve. Terminato il pasto, Desiderio si rimise all'opera, ma ad ogni colpo staccava dall'albero una scheggia in forma di rozzo cucchiaio. E non gli riusciva di far altro. Tentò e ritentò, poi capì di essere vittima di qualche incantesimo. "Quella gazza dannata mi ha stregato l'accetta!" Gettò via lo stromento e fece ritorno alla casa paterna. "Già di ritorno, figlio mio?" gli disse il padre. "Sì. Ho pensato che la vita con voi, nella mia casa, era preferibile a qualunque avventura. E tacque del bando, e della gazza misteriosa.

Saturnino, il secondogenito, volle partire a sua volta. Il padre non gli diede che cinque scudi. Giunto in città s'incontrò col banditore e volle tentare l'impresa. Si propose al banditore, e dopo aver lavorato tutto un mattino si sedette ai piedi del castagno centenario, sbocconcellando il suo pane. Ed ecco la gazza scendere di ramo in ramo "Un briciolo anche a me! Un briciolo anche a me!" "Lasciami in pace, bestia importuna!" E come la gazza si protendeva agitando le ali, Saturnino la minacciò con la mano. La gazza risalì tra i rami. "Che fai tu qui?" "Grucce per le tue gambe, gazza curiosa!" gli rispose il giovane beffandola. "Grucce! Grucce per le mie gambe!" gridò l'uccello risalendo tra le fronde. E disparve. Quando Saturnino riprese il lavoro, ad ogni colpo che dava nel legno non riusciva che a staccarne schegge in forma di grucce minuscole. "Eccomi segno della magia di quell'uccellaccio. Saturnino gettò l'accetta e riprese deluso la via del ritorno.

Gentile, il terzogenito, un fanciullo pallido e taciturno, volle tentare a sua volta la sorte. "E tu speri di vincere" disse il padre "là dove furono sconfitti i tuoi fratelli maggiori? "Il destino può essermi benigno. Lasciami partire." Gentile va in città, ode il bando, si propone al banditore. Ed eccolo nella foresta, dopo un mattino di lavoro, che sbocconcella il suo pane sotto il castagno venerando. "Un briciolo anche a me! Un briciolo anche a me!" Alzò gli occhi e vide la gazza protesa verso di lui. "Avrai la tua parte, povera bestiola!" E sminuzzò il pane e lo gettò sull'erba. La gazza, mangiando, lo interrogava: "Che stai facendo qui?" E Gentile narrò i casi suoi e il bando e il tentativo. "Buona fortuna e bella nave!" gridò la gazza risalendo di ramo in ramo. "Che Dio t'ascolti!" Gentile si rimise all'opera e ad ogni colpo d'accetta che dava nei tronchi, egli staccava un pezzo della nave già lavorato e scolpito per incanto. E le varie parti s'attiravano, s'univano fra di loro come se fossero calamitate. "Ecco l'aiuto di qualche magia favorevole!" pensava Gentile, esultando. Prima del tramonto la nave prodigiosa era pronta, ed egli vi salì, prendendone il timone e dirigendola attraverso i campi, i fiumi, le valli, i laghi, fra lo sbigottimento dei contadini.

A mezza via incontrò un uomo che rodeva un osso. "Che stai facendo?" gli domandò Gentile. "Muoio di fame!" "Sali con me e avrai di che sfamarti." E l'uomo salì sulla nave. Poco più lungi incontrarono un altro uomo presso una fontana. "E tu che stai facendo?" "Ho prosciugato, col bere, tutta questa sorgente, ed ora attendo che si riempia, perché ho ancora sete." "Sali con me e avrai di che dissetarti." E il bevitore prodigioso salì sulla nave. Non molto lontano incontrarono un altro individuo che aveva una pietra da macina a ciascun piede e che correva tuttavia come un daino. "Che significa questo?" gli chiese Gentile. "Voglio prendere una lepre che deve passare di qui." "E tu, imbecille, ti leghi una pietra da macina alle gambe?" "Sì, perché corro troppo in fretta, e nonostante le pietre da macina alle gambe, avanzo sempre di qualche miglio la lepre da prendere." "Questa è buffa! Vuoi salire sulla nave con noi?" Anche il corridore insuperabile salì sulla nave. Verso il tramonto incontrarono un altro individuo che teneva in mano un arco teso e fissava un oggetto invisibile per loro. "Uomo dell'arco, che stai facendo?" "Prendo di mira una lepre che vedo lassù, su quella montagna." "Tu ci vuoi beffare.." In quel momento la freccia partì e l'uomo disse: "Ecco... L'ho uccisa... Ma di qui alla montagna ci sono sette miglia e temo che altri passi e se la prenda." "Presto, Primosempre" disse Gentile "corri e vedi se la lepre è uccisa o se costui è un fanfarone..." Primosempre partì e ritornò poco dopo con la lepre. "Sei un arciere insuperabile" disse Gentile, rivolgendosi ad Occhiofino. "Vieni con noi e dividi le nostre avventure." Occhiofino salì sulla nave che proseguì il cammino. Poco dopo s'incontrarono in un altro sconosciuto, con l'orecchio applicato contro la terra. "Che stai facendo?" gli chiese Gentile. "Ieri ho seminato dell'avena e l'ascolto crescere..." "Che udito fine!" disse Gentile. "Se tu vuoi, sali sulla nave; credo che sei compagni come noi possono far grandi cose." Eccoli dunque in sei sulla nave prodigiosa: Gentile, Mangiatutto, Bevitutto, Occhiofino, Finorecchia, Primosempre.

La nave si mise in cammino e giunse trionfale in città, fra i cittadini sbigottiti e festanti. Gentile scese dinanzi alla reggia e si presentò al Re. "Maestà, eccovi servita. Vostra figlia è mia." Il Re ammirava la nave, ma gli pesava concedere la figlia a quel poveretto randagio. "Questo non basta, figliuolo. Prima di aver la sua mano si devono soddisfare altre prove ancora..." "Accetto le nuove prove." "Sta bene" disse il re. "Io ho dunque nelle mie stalle cinquanta buoi, e occorre che tu, o uno dei tuoi compagni, li mangi da solo in otto giorni." "Tenteremo, Sire."

Gentile affidò l'impresa a Mangiatutto e quattro giorni dopo le stalle erano vuote. Il Re era contrariato d'aver perduto la prova e le bestie. "Non basta" disse a Gentile. "Dopo il pasto bisogna bere; ho nelle mie cantine cinquanta botti di vino inacidito. Tu, o uno dei tuoi compagni deve berlo da solo, in otto giorni." "Bevitutto, questo è affar tuo." E in otto giorni le cantine erano vuote.

' Chi è, dunque, costui e i suoi compagni? ' pensava il re inquieto, e non sapeva come disfarsene. Uno dei ministri lo consigliò. "Maestà, voi avete nella vostra cucina un cuoco insuperabile alla corsa. In cinque minuti va ad attingere acqua a dieci miglia di qui, e ritorna con gli otri pieni. Proponete allo sconosciuto una gara con lui." Il Re fece chiamare Gentile e gli propose la gara. "Sarà fatto" rispose Gentile, e delegò la cosa a Primosempre. All'indomani il cuoco e Primosempre partirono insieme e questi giunse assai per tempo alla fontana, con grande ira del cuoco, che si credeva insuperabile alla corsa. Mentre si riposavano sull'erba, dopo aver riempito gli otri, il cuoco, che s'intendeva anche di magia, addormentò Primosempre col fissarlo a lungo; e partì con gli otri, dopo avergli deposte due pietruzze verdi sulle palpebre, perché non si svegliasse. Ma Finorecchia era in ascolto e informava gli amici di quanto accadeva lontano. "Finorecchia, che stanno facendo?" "Il cuoco e Primosempre si sono seduti ansanti e conversano presso la fontana. Primosempre s'addormenta, e russa forte. Il cuoco ritorna di corsa verso la reggia." "Occhiofino, guarda e dacci notizia." "Il cuoco è a mezza via e Primosempre dorme supino, con due pietruzze sugli occhi." "Prendi il tuo arco" ordinò Gentile "e togli dagli occhi di Primosempre le pietruzze malefiche, perché si svegli. Bada di non ferirlo!" L'arciere prodigioso tese l'arco e sbalzò le pietre dalle palpebre del compagno addormentato. Questi si svegliò con un sussulto, prese gli otri, e partì con tale velocità che arrivò prima ancora del cuoco, fra lo stupore del Re e dei cortigiani. "Sia dunque" disse il Re, vinto ormai. E rivolgendosi verso Gentile: "Amo meglio aver per genero che per nemico un uomo della tua abilità."

Le nozze splendide ebbero luogo nella settimana. E Primosempre, Mangiatutto, Bevitutto, Finorecchia, Occhiofino furono fatti ministri.

 
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La figlia dell'orco

Post n°580 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Re che aveva due figli, uno buono e l'altro cattivo. Quello buono era il Reuccio, e alla morte del padre doveva essere Re. La cosa non garbava al cattivo, e pensò di disfarsi del fratello per diventare Re lui. Un giorno gli disse: "Andiamo a caccia?" E andarono. Giunti in mezzo a un bosco, lontani dalle persone del séguito, cava fuori la spada e dà addosso al fratello, che non si aspettava quel tradimento. Credette di averlo ucciso. Coprì con erbacce e rami di albero il corpo insanguinato, e tornò addietro. A palazzo, il Re domandò: "E tuo fratello?" "Maestà, che disgrazia! Fu sbranato dalle fiere!" Il povero padre ne fece un gran pianto. Dal dolore si ammalò, e dopo pochi giorni morì. Il Reuccio, sotto le erbe e i rami, rinvenne; e cominciò a lamentarsi, a chiamare soccorso: "Aiuto, buoni cristiani, aiuto!" Era già buio. Udendo rumore lì accosto, il poverino gridò più forte che poté: "Aiuto, buoni cristiani, aiuto!" Sentì frugare tra l'erbe e i rami; poi, due manacce con tanto di ugne lo ghermiscono, lo levano di peso quasi fosse un fuscellino, e una lingua ruvida come una raspa gli lecca il sangue addosso: "Oh che buon sapore! Oh che buon sapore!" Il Reuccio, a quel vocione cupo cupo, rabbrividì: "Povero a me! Son capitato alle mani dell'Orco!" L'Orco, era proprio lui! Se lo mise sotto braccio come un fardelletto, e si avviò per tornare alla sua grotta. Di tratto in tratto, si fermava, leccava il sangue delle ferite: "Oh che buon sapore! Oh che buon sapore!" Alto, grosso, quasi un gigante, faceva certe sgambate così larghe e leste, che non lo avrebbe raggiunto neppure il vento. In pochi minuti fu alla porta della grotta e picchiò: "Apri, apri, figliuola; il babbo ti porta roba buona!" Il Reuccio si era svenuto di nuovo e pareva proprio morto. La figlia dell'Orco, vedendo quel bel giovane tutto insanguinato, n'ebbe pietà: "Che roba buona dite mai! È morto; non vedete? Lo butto nel carnaio." L'Orco leccò un'ultima volta il sangue, e disse: "Hai ragione. Buttalo nel carnaio. Io torno fuori." "Buon'andata e buon ritorno. Non venite prima di giorno." Appena l'Orco fu partito, la figlia corse a un armadio, prese il barattolo dov'era l'unguento che sana le ferite, e ne unse quelle del Reuccio. Il Reuccio aprì gli occhi, quasi si svegliasse da una gran dormita. "Chi siete, bella figliuola?" "Sono la figlia dell'Orco; non abbiate paura. Voi chi siete?" "Il Reuccio." E le raccontò il tradimento del fratello. "Lasciatemi andare; mio padre dev'essere in pena a quest'ora." "C'è monti, valli e foreste; non trovereste la via. Mio padre v'incontrerebbe e ne farebbe due bocconi. Bisogna avere il suo anello per non smarrirsi; ma egli lo porta sempre in dito." "Glielo leverò, mentre dorme, se voi mi aiutate." "E dopo?... Mi sbranerebbe." "Vi porto via con me. Ci sposeremo."

S'intese il grido dell'Orco, che tornava inferocito per non aver fatto preda alla caccia: "Uhii! Uhii!" "Ecco mio padre. Entrate in quella grotta. C'è da mangiare, da bere e un buon pagliericcio per dormire. Non fiatate fino a questa sera; se no, mio padre fa due bocconi di voi!" L'Orco, appena entrato, cominciò a fiutare attorno: "Uh! Uh! Che odore di carne cristiana! Uh! Uh!" "È la fantasia che ve lo fa sentire. Siete stanco; desinate e andate subito a letto." L'Orco, brontolando, si spolpò mezzo bue arrosto, e si mise a letto: "Grattami la testa, figliuola." Non poteva addormentarsi, se sua figlia non gli grattava la testa. Con una mano ella grattava, e con l'altra tentava di cavargli l'anello dal dito. "Che tenti, figliolaccia?" urlò l'Orco mezz'addormentato. La figlia, impaurita, ritirò la mano e lasciò stare. Verso sera, l'Orco si preparava a uscire per la sua caccia. "Uh! Uh! Che odore di carne cristiana! Uh! Uh!" Fiutava attorno, sgranando gli occhi, con l'acquolina in bocca. "È la fantasia che ve lo fa sentire. Buona andata e buon ritorno; non venite prima di giorno." L'Orco, brontolando, tirò la porta dietro a sé. "Uhii! Uhii!" Si sentiva da lontano un miglio. La figlia dell'Orco chiamò fuori il Reuccio. "Ho tentato di cavargli l'anello; non mi è riuscito. Ritenterò domani." "Fatemi vedere tutta la casa, intanto che vostro padre non c'è." "Giuratemi prima che voi mi sposerete, se andremo insieme via di qui." "Ve lo giuro." La figlia dell'Orco aperse un uscio, e il Reuccio rimase a bocca aperta vedendo una stanza tutta tempestata di oro e diamanti, con mobili di marmo, di argento, di legni preziosi. Per terra però qua e là ossa spolpate, macchiate di sangue. "Che ossa son queste?" "Non ci badate." E aperse un altr'uscio. Il Reuccio rimase a bocca aperta. Pareti di lamine di argento lucide come specchi; cornici d'oro e di perle; pavimento di marmi rarissimi; e mobili fastosi, cortinaggi di stoffe non mai viste, con ricami d'oro e frange d'oro... Una magnificenza. Per terra però qua e là ossa spolpate, macchiate di sangue. "Che ossa son queste?" "Non ci badate." Il Reuccio capì che erano ossa umane; tutte quelle povere creature se le era divorate l'Orco. E si sentì correre brividi da capo ai piedi, pensando che forse anche colei ne aveva mangiate la sua parte. "E lì dentro che c'è?" Accennava all'uscio tutto d'acciaio, con congegni complicati e due mostri di bronzo; uno a destra, l'altro a sinistra, che mettevano paura. "Lì dentro c'è il tesoro. Ma non vi si entra; bisogna avere in mano l'anello, per non esser mangiato vivo da questi mostri." S'intese il grido dell'Orco che ritornava dalla caccia: "Uhii! Uhii!" "Lesto, nella vostra grotta, e non fiatate fino a sera; se no, mio padre fa due bocconi di voi." Il Reuccio ebbe appena il tempo di nascondersi, che l'Orco picchiava alla porta: "Apri, apri, figliuola! Il babbo ti porta roba buona." Il Reuccio di là sentiva urli e pianti, e ganasce che maciullavano; e poi soltanto quel maciullare di ganasce. La figlia diceva al padre: "Siete stanco; andate a letto." L'Orco si spogliava: "Grattami la testa, figliuola." ' Ora gli leva l'anello ' pensò il Reuccio. Infatti, la sera dopo, appena l'Orco fu andato via per la caccia, la ragazza chiamò: - Reuccio, Reuccio, ecco l'anello! Mio padre, poverino, ora si sperderà in mezzo al bosco. Per amor vostro, io l'ho tradito. Andarono nella stanza del tesoro, presero oro e diamanti in quantità, e uscirono fuori. L'anello lo teneva in dito la figlia dell'Orco. Passando pel bosco, sentivano da lontano: "Uhii! Uhii!" "È mio padre che non trova la via. L'ho tradito per amor vostro, povero babbo!" Il Reuccio la guardò in faccia e vide che aveva le labbra sporche di sangue. "Che hai mangiato con tuo padre?" "Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca."

Nella prima città dove arrivarono, il Reuccio mantenne la sua parola e sposò la figlia dell'Orco. Lì seppe che suo padre era morto, che il fratello traditore era già Re. Ma che poteva farci? E rimase in quella città, godendosi i tesori portati via all'Orco. Sua moglie a tavola non mangiava, o assaggiava appena le pietanze. "Perché non mangi?" "Non ho appetito." "O che campi d'aria?" "Non ci badare."

Una notte, il Reuccio si sveglia e non trova sua moglie nel letto. La cerca per tutta la casa, e non la trova neppure. Era in gran pensiero. Verso l'alba, eccola che rientra. "Dove sei stata?" "A prendere un po' d'aria." La guardò in faccia; aveva le labbra sporche di sangue: "Che hai mangiato?" "Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca." Per quella volta non ci fece caso. Intanto sua moglie lo aizzava sempre contro il fratello traditore. "Se tu fossi Re, io sarei Regina!" "Sei meglio che Regina. Non ti manca nulla." "Se tu fossi Re, io sarei Regina! Dovresti andare a ammazzare tuo fratello com'egli tentò di ammazzar te." "E se non riesco?" "Con l'anello di mio padre si riesce a tutto! Dovresti vendicarti. Se tu fossi Re, io sarei Regina!" Picchia oggi, picchia domani, il Reuccio cominciò a pensare sul serio alla vendetta contro il fratello. Lo tratteneva soltanto l'amore dei figliuoli. Ne aveva già cinque e un altro era per la via. Se lui moriva in quell'impresa, come sarebbero rimasti quei poverini? Ma sua moglie ripicchiava: "Se tu fossi Re, io sarei Regina!" Si sgravò del sesto figliuolo. Ora erano tre maschi e tre femmine.

Una notte il Reuccio si sveglia e non trova sua moglie nel letto. La cerca per tutta la casa, e non la trova neppure. Era in gran pensiero. Verso l'alba, eccola che rientra. "Dove sei stata?" "A prendere un po' d'aria." La guardò in faccia; aveva le labbra sporche di sangue: "Che hai mangiato?" "Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca." Questa volta però il Reuccio entrò in sospetto e inorridì pensando che pasto aveva forse fatto sua moglie. "Non è figlia d'Orco per niente!" E l'odio contro il fratello e il desiderio di vendetta gli riavvampò in cuore. "Se non fosse stato per il suo tradimento, non avrei sposato la figlia d'un Orco." L'odiava di più per questo. Il sangue che lordava le labbra di sua moglie doveva essere di creature umane. Oh, che orrore!

Un giorno disse a sua moglie: "Porto i bambini a spasso." Prese in collo l'ultimo, che ancora non si era staccato ed era spoppato di fresco, e uscì fuori città. Cammina, cammina, la notte lo sorprese in una pianura deserta. Non c'era casolare dove rifugiarsi; non si vedeva anima viva. "Ah, fratello scellerato, dove mi trovo per te! Voglio ammazzarti!" Coricò su la terra nuda i bambini che già cascavano dal sonno, e si sedette in un canto per vegliarli. Tutt'a un tratto vede davanti a sé due occhi di bragia, e una forma nera di animalaccio che si accostava adagino adagino. Gli si agghiacciò il sangue. Non aveva la forza di cavar la spada e difendersi. E sentiva brontolare: "Ah! Che buon odore di carne piccina! Che buon odore!" Quella voce non gli giungeva nuova, ma non gli riusciva di riconoscerla. L'amore dei figli però gl'infuse coraggio. Cavò la spada e si slanciò contro l'animalaccio dagli occhi di bragia, che già aveva addentato i bambini. "Ahi! Ahi! Muoio! Muoio!" Era sua moglie, la figlia dell'Orco; stava per divorarsi le proprie creature. Non era figlia d'Orco per niente. I bambini erano tutti lacerati, insanguinati, e il povero Reuccio non sapeva come medicarli. Il giorno era alto, e per la campagna deserta non si scorgeva anima viva. Ed egli piangeva strappandosi i capelli, con quell'orrido spettacolo sotto gli occhi: la moglie morta da un canto e i bambini lacerati, insanguinati e morenti dall'altro. "Fratello scellerato! Senza il tuo tradimento, non sarei a questo punto!" "Che hai? Perché piangi?" Si voltò e si vide dinanzi una bellissima donna tutta vestita di bianco con in mano una verga d'oro. "Ah, buona signora, aiutatemi voi! I miei bambini!... I miei bambini!" "Posso aiutarti, ma a un patto." "A qualunque patto, buona signora!" "Ascolta bene: io so tutto. Il tradimento di tuo fratello, l'Orco, la tua fuga con la figlia di lui, il tuo matrimonio, tutto. Se vuoi però che io ti aiuti, devi perdonare a tuo fratello." "A quell'infame? No, mai!" La bellissima signora, turbata in viso, gli voltò le spalle e stava per andarsene. "Sì, sì, gli perdono!" gridò il Reuccio. "Pei miei figliuoli!" La signora gli si accostò sorridente e gli disse: "Ascolta bene. Dei tuoi figliuoli, dopo parecchi anni, uno solo sopravviverà; questo, il minore. E sai perché? Perché egli soltanto non è nutrito di carne umana. Tua moglie, per virtù dell'anello, ti assopiva profondamente e usciva la notte a caccia di bambini: non era figlia d'Orco per niente. Gli altri cinque, ove campassero, diventerebbero Orchi anche loro!" Il Reuccio piangeva. "Se tu perdoni al fratello, il tuo figliolino sarà Re." "Sì, sì, gli perdono! Gli perdono di tutto cuore!" "Ora, guarda!" Stese la verga d'oro e cominciò a toccare ad uno ad uno i bambini; e di mano in mano che li andava toccando, accadeva un portento. Questi diventava un martello, quegli uno scalpello, chi una tenaglia, chi una pialla, chi una sega. Toccato il minore, diventò un succhiello. Il Reuccio allibì: si sentì drizzare i capelli in testa. La signora gli fece un cenno con la mano: "Non disperarti: non è niente. Tu sarai falegname e questi i tuoi arnesi. Di giorno, ti serviranno per il tuo mestiere; la notte, tòccali con l'anello dell'Orco; ridiventeranno bambini." "E voi chi siete?" "Sono una Fata." Il Reuccio si rincorò: "Fata, buona, Fata, suggeritemi voi che debbo fare." "Raccogli questi arnesi e va' nella città dov'è il Re tuo fratello. Prenderai a pigione una botteguccia, e lavorerai di falegname. La colla e i chiodi devono comprarli gli avventori. I chiodi che avanzeranno, li renderai; la colla, no; mettila da parte. Sarà buona da mangiare; vedrai." E gli spiegò tutto quel che doveva accadere. Il Reuccio raccolse gli arnesi: "I miei figli ora si chiamano: Piallina, Scalpellino, Tanaglina, Martellino, Seghina e Succhiellino!" Piangeva e rideva consolato. "E il cadavere di tua moglie? Lo lasci così, in preda alle bestie feroci e agli uccelli di rapina?" "È giusto! Poveretta, Orco il padre, Orca lei: non ci aveva colpa." Le tolse dal dito l'anello, scavò una fossa e la seppellì. "Che nome prenderò, buona Fata?" "Il nome te lo appiccicherà la gente; ti chiameranno: Mastro Acconcia-e-guasta. Parrai un vecchio; ma parrai soltanto." "Grazie, grazie, buona Fata!" Guardò attorno, vicino, lontano; la Fata era sparita.

Il resto, bambini miei, già lo sapete. E la fiaba della Figlia dell'Orco è bell'e finita.

 
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Chi fu (Pirandello)

Post n°579 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Ditelo voi chi fu, se quel che dico io vi deve soltanto far ridere. Ma liberate almeno Andrea Sanserra che è innocente. All’appuntamento egli è mancato; lo ripeto per la centesima volta. E ora parliamo di me.
Prova della mia reità sarà forse l’essere io tornato a Roma in ottobre, è vero? mentre negli altri anni io sono stato sempre solito di venirci una volta sola, e per tutto il mese di giugno. Ma non volete dunque tener conto che in quest’ultimo giugno andò a monte il mio fidanzamento? A Napoli, dal luglio all’ottobre, fui come pazzo; tanto che il mio capo-ufficio volle darmi per forza un altro mese di licenza, giusto in ottobre. Il sogno mio, il sogno mio di tant’anni era crollato! E mente per la gola chi afferma che a Napoli mi fossi dato al vino, per dimenticare Vino non ne ho mai bevuto. Avevo qui un male, qui, alla testa, che mi dava il farnetico, il capogiro e i conati della vomizione. Ubbriaco, io? Ma già, che meraviglia, se ora si tenta di far credere che mi finga pazzo per iscusarmi? Invece m’ero dato alle... sì, alle facili avventure, scioccamente, per prendermi una rivincita, anzi una vendetta della costanza, della fedeltà, dell’astinenza mia di tant’anni. Questo sì; e in questo, ne convengo, ho ecceduto.
A Roma, in casa di mia madre, rivedo dopo sett’anni, Andrea Sanserra tornato da due mesi dall’America. La mamma m’affida a lui. Eravamo cresciuti insieme da ragazzi, e ci conoscevamo meglio che non ci conoscesse la poveretta che nella santità dei suoi pensieri faceva di noi miglior conto, che in realtà non meritassimo; Cl credeva due angeli, a ventisei anni! Ma in questa buona opinione l’avevo indotta io per il modo di vita da me tenuto nei cinque anni del mio fidanzamento. Basta. Con Andrea seguitai per la trista via in cui da tre mesi m’ero messo a Napoli. E ora vengo al fatto. Una sera egli mi propone... Premetto che il Sanserra non conosceva la persona di cui ora debbo dire; ne aveva soltanto inteso parlare da altri. Mi propone, dicevo, di far conoscenza con una - si espresse così - specialità del genere. Mi parlò... non saprei ridirvelo; ho soltanto l’impressione suscitatami dalle sue parole: una camera al buio, con un gran letto, e a piè del letto un paravento; una fanciulla avvolta in un lenzuolo, come una fantasima, dietro il paravento una vecchia, zia della fanciulla, che faceva la calza, seduta accanto a un tavolinetto tondo, con un lume che proiettava sul muro, ingrandita, l’ombra della vecchia con le mani agili in moto. La ragazza non parlava, e si lasciava appena vedere in volto; parlava invece la zia, raccontando ai pochi fidati clienti un mondo di miserie: la nipote fidanzata con un ottimo giovane, che aveva un impiego lucroso, di fiducia, nell’alta Italia: il matrimonio, andato a monte per la dote: dote che c’era, ma che una sciagura di famiglia aveva ingoiata... Bisognava rifarla, e in pochissimo tempo, prima che l’ottimo giovane venisse a sapere... - Su l’uscio di quella camera - conchiuse Andrea Sanserra - si può scrivere: Spasimo.
Naturalmente, fui tentato. E con Andrea ci demmo appuntamento per la sera del domani, alle otto e mezzo, fuori porta del Popolo. Egli abita in via Flaminia. La casa delle due donne è in via Laurina; il numero non lo rammento più.

Fu una sera di sabato, e pioveva. La via Flaminia s’allungava diritta, fangosa, rischiarata qua e là dai fanali, il cui lume a tratti balzava e s’oscurava sotto i colpi del vento, che a le mie spalle agitava gli alberi foschi di villa Borghese battuti dalla pioggia. Erano circa le nove, e Andrea ancora non si vedeva. Pensai che non sarebbe più venuto, con quel tempaccio; pure non sapevo decidermi ad andar via, e rimanevo perplesso a guardare i fili d’acqua che cadevanmi intorno dall’ombrello. Recarmi solo in via Laurina? No, no... Una nausea profonda della vita che conducevo da tre mesi mi vinse, in quel punto. Ebbi vergogna di me, abbandonato lì, su la via del vizio, dal compagno. Pensai che Andrea probabilmente era andato a passar la serata in un’onesta casa, non sospettando ch’io fossi così corrotto da tener l’appuntamento con quella sera da lupi. Eppure, no, - pensai; - più che corrotto, io son misero. Dove potrei andare io, adesso? E mi sovvennero le sere tranquille e beate, con la mia gioja accanto, la precedente mia vita, la casetta di lei. Ah, Tuda! Tuda! - A un tratto, dall’arco centrale della porta, ecco un vecchietto sguisciar curvo, con un mantello che gli scendeva fino alla noce del piede. Reggeva con ambedue le mani un ombrellaccio sdrucito. Andava, quasi portato dal vento, in giù, per via Flaminia. Aguzzo gli occhi... Un brivido mi corre per tutta la persona. Il signor Jacopo, Jacopo Sturzi, il padre di Tuda, della mia fidanzata!... Ma se io, io stesso, con queste mani, un anno addietro, lo avevo composto nella bara e accompagnato a Campo Verano? Pure, eccolo lì: mi passa dinanzi, oh Dio ! ... E si volta a guardarmi, e piega da un lato la testa, come per farmi vedere un sorriso. E che sorriso! Resto inchiodato al suolo, in preda a un tremor convulso; cerco gridare, ma la voce non m’esce dalla gola. Lo seguo un tratto con gli occhi; alfine riesco a svincolarmi dalla paura e mi lancio dietro a lui.
Credetemi, vi prego. Io non sono capace d’inventare una cosa simile. Non saprei riferirvi parola per parola quel che mi disse; ma comprenderete agevolmente che certe idee non possono uscire dal mio cervello, perché Jacopo Sturzi, quantunque uomo intemperante assai, fu un vero filosofo, filosofo originalissimo, e mi ha parlato col senno dei morti.
Lo raggiunsi, mentre già stava per posar la mano piccola e tremula su la gruccia della porta a vetri d’una osteria. Si volse di scatto, mi prese per un braccio e, trascinandomi in giù, nell’ombra, fece:

- Luzzi, per carità, non dire che son vivo!

- Ma come... lei? - balbettai.

- Sì, son morto, Luzzi - soggiunse; - ma il vizio, capisci, è più forte! Mi spiego subito: C’è chi muore maturo per un’altra vita, e chi no. Quegli muore e non torna più, perché ha saputo trovar la sua via; questi invece torna, perché non ha saputo trovarla; e naturalmente la cerca giusto dove l’ha perduta. Io, per esempio, qui, all’osteria. Ma che credi? È una condanna. Bevo, ed è come se non bevessi, e più bevo, e più ho sete. Poi, capirai, non posso concedermi troppe larghezze...

E, strofinando insieme l’indice e il pollice della mano destra, contrasse il volto in una smorfia, intendendo con quel gesto significare: Quattrini non ne ho.

Io lo guardavo stupito. Sognavo? E mi venne alle labbra questa sciocca domanda:

- Ah, giusto! E come fa?

Egli allora sorrise, posandomi una mano su la spalla; poi rispose:

- Se sapessi!... Ho cominciato, fin dal domani del mio seppellimento, col rivendermi la bella corona di porcellana che mia moglie mi aveva fatto collocar su la tomba, col motto in mezzo: Al mio adorato consorte. Certe bugie noi morti non possiamo soffrirle. Me la son rivenduta per poche lire. Tirai avanti così una settimana. Non c’è pericolo che mia moglie venga a farmi qualche visita e s’accorga che la corona non c’è più. Ora gioco a carte qui con gli avventori, vinco, e bevo a costo di chi perde. Insomma... m’industrio. E tu che fai?

Non seppi rispondergli. Lo guardai un istante, poi ebbi un impeto di pazzia e lo afferrai per un braccio:

- Dimmi la verità! Chi sei? Come sei qui?

Non si scompose; sorrise:

- Ma se tu, da te stesso, m’hai riconosciuto!... Come son qui? Te lo dirò. Ma prima entriamo. Non vedi? Piove.

E m’attirò nell’osteria. Lì mi forzò a bere, a ribere, certamente con l’intenzione d’ubbriacarmi. Tanto era il mio stupore e tanto lo sgomento, che non seppi ribellarmi. Non bevo vino; eppure ne bevvi non so più quanto. Ricordo: una nube soffocante di fumo; il tanfo acuto di vino; il sordo acciottolio di stoviglie; l’odor caldo e grave di cucina; i sommessi borbottii di voci rauche. Curvi, quasi volessero rubarsi il fiato l’un l’altro, due vecchi giuocavano a carte lì accanto, tra grugniti di rabbia o di consenso degli spettatori intenti e addossati alle loro spalle. Dal tetto basso, un lume a sospensione aduggiava la sua giallezza tra la densa nube. Ma quel che maggiormente mi stupiva era il vedere che, tra tanti, nessuno sospettava che lì dentro c’era un estraneo alla vita. E guardando or questa, or quella persona, mi veniva la tentazione d’indicarle il mio compagno e di dirle: «Costui è un morto!». Ma allora, quasi mi leggesse su le labbra questa tentazione, Jacopo Sturzi con le spalle appoggiate alla parete e il mento sul petto, sorrideva senza levarmi gli occhi d’addosso, occhi infiammati e pieni di lacrime! Anche bevendo, mi guardava. A un tratto si riscosse e cominciò a parlarmi a bassa voce. Già la testa mi girava pei vapori del vino; ma quelle parole strane sulle cose della vita e della morte, me la facevano girar peggio. Se ne accorse e, ridendo, concluse:

- Non son cose per te: Parliamo d’altro. Tuda?

- Tuda? - io feci. - E non lo sa? Tutto è finito...

Egli accennò di sì più volte col capo; poi, invece, disse:

- Non lo sapevo. Ma hai fatto bene a romperla. Di’, per causa della madre, è vero? Amalia Noce, mia moglie, pessima creatura! come tutti i Noce! Io, guarda...

Si tolse il cappello, lo posò sul tavolino, e battendosi una mano su la fronte calva, e strizzando un occhio:

- Due volte: - esclamò - la prima nel 1860; poi nel 75. E metti che non era più fresca, sebbene ancora bellissima. Ma di questo non posso più lagnarmi: la perdonai; e basta. Figlio mio - permetti che ti chiami così? - figlio mio, credimi: ho cominciato a respirare soltanto appena morto. Infatti, mi occupo forse più di loro? Né della madre né della figlia. E neppur della figlia, per causa della madre. Voglio dirti tutto: so come vivono. Potrei, senti, non visto, come fanno molti altri nel mio stato, recarmi in casa loro, di tanto in tanto, e provvedermi furtivamente d’un po’ di denaro. Ma no; di quel denaro io non ne rubo! Lo sai, lo sai come vivono?

- Come? - risposi. - Non ho più chiesto notizie di loro. - Va’ là! lo sai - riprese egli. - Te l’hanno detto ieri sera. Feci, esitando, un cenno interrogativo cogli occhi. - Sì; dove volevi andare prima di vedermi!

Balzai in piedi, ma non mi ressi e caddi sui gomiti sopra il tavolino, gridandogli:

- Son loro? Tuda? Tuda e la madre?

Mi afferrò per un braccio, mettendosi l’indice a traverso le labbra.

- Zitto! Zitto! Paga, e vieni con me. Paga, paga.

Uscimmo dall’osteria. Pioveva più forte; il vento cresciuto, saettandoci l’acqua in faccia, quasi c’impediva d’andare. Ma quegli mi trascinava pel braccio via, via, contro il vento, contro la pioggia. Cempennante, ebbro, con la testa in fiamme e più pesante del piombo, io gemevo: - Tuda? Tuda e la madre? - . La figura di lui ammantellato mi si confondeva nell’ombra violenta con l’ombrello ch’egli sorreggeva alto contro la pioggia, e diveniva enorme agli occhi miei, come un fantasma d’incubo, che mi trascinasse verso un precipizio. E là, con uno spintone, mi cacciò dentro il portoncino buio, urlandomi all’orecchio:

- Va’, va’, da mia figlia!...

Ora io ho qui, qui nella testa, soltanto gli urli di Tuda avviticchiata al mio collo, urli che mi spezzano il cervello... Oh! fu lui, torno a giurarlo, fu lui, Jacopo Sturzi!... Lui, lui strangolò quella strega che si spacciava per zia... Se non l’avesse fatto lui, però, l’avrei fatto io. Ma l’ha strozzata lui perché ne aveva più ragione di me.
Questa è la verità. Io ho le mani nette.

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NOVELLE PER UN ANNO - 1938 - "APPENDICE"

11. Natale sul reno (1896)

 

 

«Roma letteraria », anno IV, n. 24, 25 dicembre 1896.

 


 

Roma, fine del 1914

. . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


- La mamma, - gridò Jenny entrando esultante nella mia camera e battendo le mani - la mamma acconsente per te!

Mi voltai a guardarla con aria stupita dal canto del fuoco, in cui stavo da circa un’ora tutto ristretto in me dal freddo, con le mani e i piedi al caldo alito del camino, e l’anima... oh, l’anima, chi sa dir dove se ne vada in certi momenti, quasi alienata dai sensi, inerti, mentre gli occhi par che guardino e pur non vedono?

- Uh! - riprese tosto Jen

 
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Aggiungi un posto un tavola

Post n°578 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Cari Lettori,i nostri paesani saranno squinternati (gentile eufemismo,lo so)ma hanno un o spiccato senso dell'ospitalità.
Il problema è che essendo a S.Tobia si esagera sempre.
Ne sa qualcosa un giovane pittore fiorentino,Giosuè Pitipacchi,che si trova da queste parti per cercare spunti ai suoi paesaggi agresti.
A causa della fin troppo generosa ospitalità degli abitanti di S.Tobia,il poveraccio ha passato una settimana a dir poco infernale,che vi racconto nei minimi particolari.
LUNEDI- Geppo e la Marianna hanno invitato a cena il Pitipacchi.Cucinava lui,perchè lei è tutt'altro che una cuoca provetta.
Il problema è che Geppo se non cucina piccante non si sente realizzato.
Il povero ospite ha stoicamente sopportato,ma il colpo di grazia glielo ha dato la mezza bottiglia di grappa fatta in casa che ha dovuto trangugiare come ammazzacaffè.
C'è da meravigliarsi se all'alba lo hanno trovato nudo bruco sul campanile,che salutava il nuovo giorno con stentorei chicchirichì?
MARTEDI- I Martellacci hanno invitato a casa il Pitipacchi.
Il guaio che quando ha un ospite la Cesira cucina per 50 persone e cade in depressione se quello non onora la sua cucina.Risultato:il Pitipacchi per non offenderla si è dovuto mangiare tre primi,tre secondi e tre dolci,Non vi dico la notte che ha passato
MERCOLEDI- Cena a casa diVirgilio Scozzagalli.Cucinava la figlia Michelina,appassionata di cucina esotica.
Risultato:riso al curry (piccantissimo e bollentissimo),sushi (il pesce crudo guizzava nei piatti),dolce tibetano che pareva un pezzo di marmo di Carrara.
C'è da meravigliarsi se Giosuè ha avuto un attacco di dissenteria?
GIOVEDI'- Dai Trogoloni,la Bradamante ha preparato il suo piatto forte:il pastone del porco,un ammasso nerastro,bollente e maleodorante composto di:uova sode,chiodi di garofano,zucchero,pepe,sale,marmellata di fichi,olive nere,carne macinata,miele,scaglie di cioccolato amaro,cavlfiore a tocchetti,patate lesse,gorgonzola e vino bianco (sostituibile con aceto balsamico,volendo)
Il poveraccio ne ha dovuti mangiare tre piatti.
VENERDI'- Lo Sgozzaloca ha invitato il Pitipiacchi.Cucinava la sua governante,ovvero Assuera Lepracchioni.
Ora se la brava donna non litiga col marito Adalberto è imbattibile ai fornelli,ma quando in casa Lepracchioni c'è baruffa Dio ci scampi e liberi.
Ieri sera il barometro segnava tempesta perfetta/tsunami.
Non ci sono parole per descrivere quello che il povero Pitipacchi si è dovuto mangiare.
SABATO- Baldassarre Scozzagalli,l'uomo più avaro di S.Tobia ha invitato a cena Giosuè
Questo il menu della serata: mezza scodella di brodino vegetale insipido (il sale costa);arrosto di montone (avanzo di tre giorni prima);una foglia d'insalta e mezzo pomodoro;mezzo biscotto di Prato per dessert.
Quanto al bere,il Pitipacchi ha potuto avere solo mezzo bicchiere d'acqua del rubinetto con tre gocce tre di vino
C'è da meravigliarsi se alle tre di notte ha preso a morsi una gamba della sedia?
DOMENICA-Il Pitipacchi è scappato da S.Tobia alle prime luci dell'alba.
Sono passate tre settimane,
Giosuè è ricoverato nella clinica Luminaris,nel reparto agitati.
La sola parola cibo gli provoca crisi violentissime.
Stretta la foglia larga la via dite la vostra che ho detto la mia


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La vita è troppo bella (Chaplin)

Post n°577 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Ho perdonato errori quasi imperdonabili, ho provato a sostituire persone insostituibili e dimenticato persone indimenticabili. Ho agito per impulso, sono stato deluso dalle persone che non pensavo lo potessero fare, ma anch'io ho deluso. Ho tenuto qualcuno tra le mie braccia per proteggerlo; mi sono fatto amici per l'eternità. Ho riso quando non era necessario, ho amato e sono stato riamato, ma sono stato anche respinto. Sono stato amato e non ho saputo ricambiare. Ho gridato e saltato per tante gioie, tante. Ho vissuto d'amore e fatto promesse di eternità, ma mi sono bruciato il cuore tante volte! Ho pianto ascoltando la musica o guardando le foto. Ho telefonato solo per ascoltare una voce. Io sono di nuovo innamorato di un sorriso. Ho di nuovo creduto di morire di nostalgia e... ho avuto paura di perdere qualcuno molto speciale (che ho finito per perdere)... ma sono sopravvissuto! E vivo ancora! E la vita, non mi stanca... E anche tu non dovrai stancartene. Vivi! È veramente buono battersi con persuasione, abbracciare la vita e vivere con passione, perdere con classe e vincere osando, perché il mondo appartiene a chi osa! La Vita è troppo bella per essere insignificante...!

 
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Libri dimenticati: Coppie assassine

Post n°576 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

n questo libro Cinzia Tani,dopo aver esaminato vari casi di donne assassine,racconta storie di coppie assassine,come gli inglesi Burke e Hare,che uccidevano persone per poi venderne i cadaveri ai medici;le sorelle Papin,unite in un sinistro patto omicida:Louise Beck e Raymond Fernandes,che uccidevano donne ricche e sole per lucro...
E' un libro ben scritto e molto interessante

 
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Frase del giorno

Post n°575 pubblicato il 31 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Una madre può esser buona per cento figli,cento figli possono non esser buoni per una madre

 
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