Messaggi del 08/09/2011

Naso d'argento

Post n°666 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Quando Naso d'Argento bussò alla porta della lavandaia, la prima delle sue tre figliole aveva appena finito di dire:
"Da questo posto disperato me ne voglio andare, dovessi pur capitare a casa del diavolo". E le sorelle avevano fatto coro: "Anch'io, anch'io!".
Naso d'Argento era un bel signore, da capo a piedi vestito di nero con impeccabile eleganza. Fece un inchino e, subito venendo al nocciolo, disse alla madre:
"Mi hanno detto che avete tre ragazze che lavorano sodo. Io ho una casa grande e nessuno che me l'accudisca: sono qui a chiedervi di lasciarmi venire a servizio la vostra prima figlia".
La lavandaia era un pò indecisa, per via di quel naso d'argento che la insospettiva. Chiamò la primogenita in disparte:
"Bada che uomini dal naso d'argento io non ne ho visti da nessuna parte, e se tu mai dovessi andare da questo, dovresti tenere gli occhi bene aperti".
"Saprò ben io come comportarmi", ribatté la figlia, che non vedeva l'ora di andarsene via. E seguì lo straniero. Passarono valli, valicarono monti, e non giungevano mai. La ragazza era stanca e voleva fermarsi, ma Naso d'Argento le disse:
"Vedi laggiù quel chiarore che sembra di fuoco? Io abito lì". Riprese ad andare con lena, e la ragazza dietro, con il fiato in gola, un po' per la stanchezza del cammino, un po' per l'inquietudine che le era entrata in cuore.
Arrivati che furono, vide un palazzo che sembrava un castello, tant'era grande e ricco, ed il padrone glielo fece visitare tutto. C'erano forse più di cento stanze, l'una meglio arredata dell'altra, e di ciascuna Naso d'Argento le diede la chiave. Ma, quando furono all'ultima porta, invece di aprirla, come aveva fatto con tutte le altre, le disse:
"Qui non si entra. Di tutto il resto considerati padrona e fai quello che vuoi; di questa stanza io ti do la chiave, perché tu la conservi, ma non la devi usare per aprire". La ragazza promise che così avrebbe fatto, ed intanto pensava: "Qui c'è sotto un mistero e lo voglio scoprire: mi lascerai pure sola, qualche volta". Quasi rispondendo al suo pensiero, Naso d'Argento soggiunse:
"Domattina devo partire presto per un viaggio. Tu riposati pure finché vuoi, poi metti in ordine la casa".
Le assegnò per la notte la camera più bella, che nel letto aveva ben tre materassi; ma la ragazza non chiuse quasi occhio, pensando al segreto della stanza proibita. S'addormentò verso il mattino e non s'avvide che Naso d'Argento s'accostava furtivo all'alcova, per metterle una rosa tra i capelli. Quando fu desta, il suo primo pensiero fu di andare ad aprire la porta vietata. Come l'ebbe socchiusa, vedendo una turba di gente che strillava e piangeva in un mare di fiamme, capì che quella stanza era l'inferno, dove Naso d'Argento, che era il diavolo, teneva le anime dannate.
Richiuse in tutta fretta l'uscio, spaventata, ma la vampa del calore aveva strinato la rosa che aveva tra i capelli: e fu la prima cosa di cui il padrone s'avvide, quando fu di ritorno. Si adirò e disse:
"Non hai ubbidito al mio comando ed hai voluto aprire la porta che ti avevo vietato di toccare. Desideravi vedere quella stanza? Io ti ci butto".
La prese e la gettò tra le fiamme, senza porgere orecchio ai suoi pianti. Poi si rimise in cammino e tornò a casa della lavandaia.
"Vostra figlia vi manda a salutare. Sta bene ed è contenta, ma il mio palazzo è grande e da sola non riesce a tenerlo pulito. Vengo a chiedervi se mi affidate anche la vostra seconda figliola: sono ricco abbastanza per permettermi più di una serva."
La lavandaia di nuovo esitava, per via di quel naso d'argento. Ma la secondogenita s'era messa in testa di andare, e non ci fu verso di farla ragionare. Cammina, cammina, passò monti e vallate, prima di giungere alla casa del padrone. Quando la vide ne rimase incantata, tant'era bella e grande. Visitò ogni stanza, ebbe di tutte la chiave e, quando furono all'ultima, Naso d'Argento le disse:
"Questa porta tu non la devi aprire. Conservami solo la chiave, perché non si perda".
"Non volete che l'apra ed io vi ubbidirò: sarà una stanza in meno da pulire", rispose la ragazza; ma la curiosità se la mangiava viva. Quando prese sonno, nel letto dove aveva dormito la sorella, Naso d'Argento le si accostò senza farsi sentire e le appuntò nella treccia un garofano.
Al mattino aveva già lasciato il palazzo, quando la ragazza aprì gli occhi, e il suo primo pensiero fu di scoprire che cosa il padrone nascondeva dietro l'uscio proibito. Tirò fuori la chiave e corse svelta ad aprire la stanza.
Quando vide l'inferno e la sorella, che tra i dannati invocava il suo aiuto, poco mancò che non morisse di paura. Chiuse al più presto la porta, ma il calore delle fiamme aveva avvizzito il fiore che aveva tra i capelli; e Naso d'Argento, rientrando, si accorse subito che non aveva rispettato il suo divieto.
La ragazza ebbe un bel piangere e raccomandarsi e promettere che non l'avrebbe fatto un'altra volta: finì anche lei nel fuoco dell'inferno.

Il giorno dopo, Naso d'Argento ritornò a casa della lavandaia:
"Le vostre due figliole stanno bene e vi mandano i loro saluti. Ma non bastano da sole a tenere bene in ordine il palazzo; così ho pensato di venire a vedere se anche l'ultima figlia che avete vuole venire a servizio da me."
La donna era in forse, perché quel naso d'argento non le piaceva proprio per niente; ma la figlia più giovane insistette, e finì col partire anche lei. Cammina, cammina, giunsero al palazzo, che la ragazza ammirò in lungo e in largo, ricevendo dal padrone la chiave di ogni stanza. Quando furono davanti a quella che portava all'inferno, Naso d'Argento fece la solita raccomandazione di non aprirla mai, ma la fanciulla, intascando la chiave, non promise un bel niente, perché da qualche poco le frullava nel capo un pensiero.
"Dove sono le mie sorelle, che non le vedo da nessuna parte?"
"Le vedrai, le vedrai", rispose Naso d'Argento. E, poiché l'altra insisteva:
"Ma quando?", tagliò corto. "Domani. E adesso và a letto."
La ragazza ubbidì, ma dormì poco e male nella stanza più bella del palazzo, perché era tormentata dall'idea che non aveva visto le sorelle. Sul far del mattino il padrone entrò senza fare rumore, e accostatosi al letto, le toccò piano piano i capelli. La ragazza fece finta di dormire, ma, quando sentì che Naso d'Argento partiva, svelta svelta si buttò giù dal letto, si lavò, si vestì e, nel pettinarsi le trecce, trovò il fiore di gelsomino che il padrone vi aveva infilato. Lo tolse e, per conservargli la freschezza, lo mise a bagno in un bicchiere d'acqua.
Poi incominciò a cercare le sorelle. Rifece il giro di tutta la casa, e arrivò all'ultima porta senza averle trovate. ' Il padrone mi ha proibito di entrare ', pensò, ' ma ho troppa voglia di rivedere le mie sorelle: e non possono che essere qui dentro. '
Le trovò proprio là, avvolte dalle fiamme, tra le grida e i pianti dei dannati.
"Facci uscire di qui, facci tornare a casa!", invocarono quelle disgraziate.
"Ora non posso", rispose rattristata la ragazza. "Ma non vi disperate: studierò il modo di tirarvi fuori."
Chiuse accuratamente la porta e aspettò, come se niente fosse, che il diavolo rientrasse, dopo essersi rimessa tra i capelli il fiore che vi aveva trovato al mattino.
Naso d'Argento guardò sorpreso il gelsomino, che non si era avvizzito alla fiamma della stanza proibita.
"È bello fresco", constatò allegramente. "Se fosse appassito, l'avrei già buttato", ribatté la ragazza, che aveva capito il suo gioco.
"Mi pare giusto", approvò soddisfatto il padrone. "E ogni giorno voglio darti un fiore, giacché sai conservarlo così. Desidero che tu ti trovi proprio bene a casa mia e ci viva contenta."
"Più contenta sarei", disse la giovane, fingendo esitazione, "se avessi notizie di mia madre, che da un poco non sta tanto bene di salute."
"Se è solo per questo, domattina, andando in giro per i miei affari, faccio un salto da lei e vedo come sta."
"Davvero? Siete così gentile che, se osassi, vi chiederei anche un altro favore."
"Dì pure", sollecitò il diavolo, che ancora era commosso per avere infine trovato una ragazza che non gli apriva la porta dell'inferno.
"Portereste a mia madre un po' di roba sporca che ho raccolto in giro per la casa? Un'altra volta potreste poi passare a ritirarla: e mi portereste di nuovo notizie di quella poveretta, che è ormai tutta sola."
"Preparami il sacco e vedrò di accontentarti."
Nel sacco, appena Naso d'Argento si fu addormentato, la ragazza infilò la sorella maggiore, che aveva tratto fuori dall'inferno.
"Domani Naso d'Argento ti riporta a casa dalla mamma. Lui però crede che qui dentro ci sia soltanto roba da lavare: bada di stare ferma ferma, per non fargli nascere sospetti", raccomandò.
"E se apre il sacco e mi vede?", domandò spaventata la prima figlia della lavandaia.
La sorellina ci pensò su un momento. "Se senti che posa il sacco a terra, devi subito dire: "Ti vedo, ti vedo!". E lui non aprirà".
Al mattino, quando Naso d'Argento fu pronto per partire, la ragazza era già in piedi, tutta in ordine, col suo fiore appuntato tra i capelli.
"Come mai alzata così presto?", domandò il padrone.
"Volevo ricordarvi il sacco ed augurarvi buon viaggio."
"Com'è gentile!", pensò Naso d'Argento intenerito, e prese su il fagotto. "Per l'inferno, se pesa!", osservò sbalordito. "Devo avere pigiato un po' troppo la biancheria che ci ho messo dentro: e pensare che non ho potuto nemmeno farcela stare tutta. Volete che ne tolga un po' o vi sentite forte abbastanza per portarla?"
"Eh, via, posso reggere pesi ben più grevi", ribatté il demonio."
"Allora vi raccomando di tenere il sacco ben legato, perché, pieno com'è, se si slega, la roba salta fuori, e non riuscite più a rimettercela dentro. In tutti i casi, vi tengo d'occhio io."
Naso d'Argento non si capacitava. "Come? Mi tieni d'occhio?"
"Dovete sapere che la natura mi ha fatto un dono curioso: io vedo anche a distanza quello che voglio vedere. Così, se il sacco si slega...".
"Va bene, va bene", tagliò corto il padrone, e si mise in cammino. Ma a quella storia che la ragazza vedesse lontano non ci credeva proprio, tanto che, dopo un poco, pensò di guardare che cosa avesse infilato nel sacco che portava: perché il diavolo è sospettoso di natura e gli era venuto in mente che la ragazza poteva avere rubato qualche oggetto prezioso in casa sua, per mandarlo alla madre. Ma, appena posò a terra il sacco e fece per slegarlo, ne uscì una vocetta preoccupata:
"Vi vedo, vi vedo!".
"Diamine!", esclamò sorpreso. "Allora è proprio vero: non ha cercato affatto di ingannarmi." Riprese in spalla il sacco, e via, senza fermarsi, fino alla casa della lavandaia.
"Le vostre figlie stanno bene, vi salutano e domandano vostre notizie."
"Dite pure alle mie ragazze che mi sento un po' sola, ma sto bene e, se hanno bisogno di qualcosa, me lo facciano pure sapere."
"Vi mandano, per l'appunto, un po' di roba da lavare", disse Naso d'Argento. "Ma fate con comodo: la vengo a ritirare, quando passo di qui un'altra volta."
A ricordargli l'impegno ci pensò, di lì a qualche giorno, la figlia più giovane della lavandaia:
"Lo fareste, domani, un salto da mia madre, per vedere come sta di salute? Intanto ritirate quello che ha lavato e le portate il sacco che già ho preparato".
"Di nuovo?", si stupì Naso d'Argento.
"Ve l'avevo pur detto che in quell'altro non c'era entrata tutta la roba sporca. Ma, se vi pesa...".
"Per carità...", la rassicurò il padrone che non la voleva scontentare, perché ogni sera, quando rientrava, le trovava sempre tra i capelli, fresco di rugiada, il fiore che vi aveva messo prima di partire.
Il giorno dopo si pose il sacco in spalla e la ragazza ripeté le solite raccomandazioni, augurandogli di fare buon viaggio. Così anche la seconda sorella tornò a casa dalla madre, portata dal diavolo che non ne sapeva nulla, dicendo anche lei, come la maggiore: "Vi vedo, vi vedo!", appena sentì che posava a terra il sacco per gettarvi dentro un'occhiata.
La lavandaia, quando vide Naso d'Argento, che la prima figlia le aveva detto essere il demonio, non sapeva se essere più felice per il ritorno della secondogenita o spaventata al pensiero che il diavolo pretendesse da lei la biancheria che le aveva portato l'altra volta. Trovò la scusa che era stata poco bene in quei giorni e si stupì nel vedere che Naso d'Argento si fregava le mani soddisfatto:
"Ma allora è vero che siete di salute cagionevole".
"Chi ve lo ha detto?"
"La vostra figlia più giovane."
"Povera cara, sta sempre in ansia per me: non ditele di questo mio malanno, perché non voglio farla preoccupare."
Il diavolo tornò a casa, ed ancora una volta constatò con piacere che il fiore della ragazza non s'era avvizzito.
"Tua madre sta bene", disse quel bugiardo, "Ma ha avuto molto lavoro in questi giorni e non mi ha lavato la roba che le avevo portato l'altra volta. Vuoi dire che la ritirerò tutta assieme."
"Quando andate da lei, fatemelo però sapere il giorno prima, nel caso abbia qualcosa da mandarle."
Di lì a qualche tempo, Naso d'Argento annunciò: "Domani, passando dalle parti di casa tua, vedrò di andare a far visita a tua madre".
"Va bene: allora non vi spiacerà portarle un altro sacco."
"Di nuovo?", si stupì il padrone.
"Sentite, a me piace il pulito e, se non vi va come vi tengo casa, non avete che da dirlo ed io mi cercherò un altro posto."
"Mi va, mi va", si affrettò a rassicurarla il demonio, che non aveva mai trovato una ragazza tanto ubbidiente come quella.
"Allora vado a preparare il sacco."
Al mattino Naso d'Argento lo trovò vicino alla porta, ma la ragazza non era a salutarlo come al solito. Andò a cercarla nella sua stanza e la trovò che ancora dormiva. Così, almeno, credette, perché in verità nel letto c'era una bambola fatta di stracci, sulla testa della quale la ragazza aveva cucito le trecce che si era tagliata, prima di infilarsi nel sacco. Il diavolo, posato tra i capelli il solito fiore, se ne andò svelto, senza fare rumore.
Ed intanto pensava: "Adesso dorme: questa è la volta buona per vedere che cosa mette nel sacco che manda a sua madre, che è sempre tanto pesante". Appena fu fuori di casa, si fermò per aprirlo; ma subito la ragazza disse, con voce di rimprovero:
"Vi vedo, vi vedo!". Naso d'Argento per lo stupore fece un salto indietro; poi si affrettò a ricaricarsi il fardello sulle spalle e corse via, come se avesse i cani alle calcagna, fino alla casa della lavandaia.
"Qui c'è dell'altra roba da lavare. Passerò a prendere tutto la prossima volta, perché oggi mi ritrovo senza fiato."
Appena se ne fu andato, la ragazza uscì fuori dal sacco ed abbracciò la madre e le sorelle. Sulla porta di casa misero una croce, perché il diavolo girasse alla larga; e vissero tranquille e felici con l'oro che la più giovane s'era messa in tasca, lasciando la casa di Naso d'Argento.

 
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Essere o avere

Post n°665 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Il professor Grammaticus, viaggiando in treno, ascoltava la conversazione dei suoi compagni di scompartimento. Erano operai meridionali, emigrati all'estero in cerca di lavoro: erano tornati in Italia per le elezioni, poi avevano ripreso la strada del loro esilio.
- Io ho andato in Germania nel 1958, - diceva uno di loro.
- Io ho andato prima in Belgio, nelle miniere di carbone. Ma era una vita troppo dura.
Per un poco il professor Grammaticus li stette ad ascoltare in silenzio. A guardarlo bene, però, pareva una pentola in ebollizione. Finalmente il coperchio saltò, e il professor Grammaticus esclamò, guardando severamente i suoi compagni:
- Ho andato! Ho andato! Ecco di nuovo il benedetto vizio di tanti italiani del Sud di usare il verbo avere al posto del verbo essere. Non vi hanno insegnato a scuola che si dice: "sono andato"?
Gli emigranti tacquero, pieni di rispetto per quel signore tanto perbene, con i capelli bianchi che gli uscivano di sotto il cappello nero.
- Il verbo andare, - continuò il professor Grammaticus, - è un verbo intransitivo, e come tale vuole l'ausiliare essere.
Gli emigranti sospirarono. Poi uno di loro tossì per farsi coraggio e disse:
- Sarà come lei dice, signore. Lei deve aver studiato molto. Io ho fatto la seconda elementare, ma già allora dovevo guardare più alle pecore che ai libri. Il verbo andare sarà anche quella cosa che dice lei.
- Un verbo intransitivo.
- Ecco, sarà un verbo intransitivo, una cosa importantissima, non discuto. Ma a me sembra un verbo triste, molto triste. Andare a cercar lavoro in casa d'altri... Lasciare la famiglia, i bambini.
Il professor Grammaticus cominciò a balbettare.
- Certo... Veramente... Insomma, però... Comunque si dice sono andato, non ho andato. Ci vuole il verbo "essere": io sono, tu sei, egli è...
-Eh, - disse l'emigrante, sorridendo con gentilezza, - io sono, noi siamo!... Lo sa dove siamo noi, con tutto il verbo essere e con tutto il cuore? Siamo sempre al paese, anche se abbiamo andato in Germania e in Francia. Siamo sempre là, è là che vorremmo restare, e avere belle fabbriche per lavorare, e belle case per abitare.
E guardava il professor Grammaticus con i suoi occhi buoni e puliti. E il professor Grammaticus aveva una gran voglia di darsi dei pugni in testa. E intanto borbottava tra sé: - Stupido! Stupido che non sono altro. Vado a cercare gli errori nei verbi... Ma gli errori più grossi sono nelle cose!




 
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La fiaba dei gatti

Post n°664 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Una donna aveva una figlia e una figliastra, e questa figliastra la teneva come un ciuco da fatica, e un giorno la mandò a cogliere cicorie.
La ragazza va e va, e invece di cicoria trova un cavolfiore: un bel cavolfiore grosso grosso. Tira il cavolfiore, tira, tira, e quando lo sradicò, in terra s'aperse come un pozzo. C'era una scaletta e lei discese.
Trovò una casa piena di gatti, tutti affaccendati. C'era un gatto che faceva il bucato, un gatto che tirava acqua da un pozzo, uno che cuciva, un gatto che rigovernava, un gatto che faceva il pane. La ragazza si fece dare la scopa da un gatto e l'aiutò a spazzare, a un altro prese in mano i panni sporchi e l'aiutò a lavare, all'altro ancora tirò la corda del pozzo, e a uno infornò le pagnotte. A mezzogiorno venne fuori una gran gatta, che era la mamma di tutti i gatti, e suonò la campanella:
- Dalin, dalon! Dalin, dalon! Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non ha lavorato venga a guardare!
Dissero i gatti: - Mamma, abbiamo lavorato tutti, ma questa ragazza ha lavorato piú di noi.
-Brava, - disse la gatta, - vieni e mangia con noi -.
Si misero a tavola, la ragazza in mezzo ai gatti e Mamma Gatta le diede carne, maccheroni e un galletto arrosto; ai suoi figli invece diede solo fagioli. Ma alla ragazza dispiaceva di mangiare da sola e vedendo che i gatti avevano fame, spartí con loro tutto quello che Mamma Gatta le dava. Quando si alzarono, la ragazza sparecchiò tavola, sciacquò i piatti dei gatti, scopò la stanza e mise in ordine.
Poi disse alla Mamma Gatta: - Gatta mia, ora bisogna che me ne vada, se no mia mamma mi sgrida.
Disse la gatta: - Aspetta, figlia mia, che voglio darti una cosa -.
Là sotto c'era un grande ripostiglio, da una parte era pieno di roba di seta, dalle vesti agli scarpini, dall'altra pieno di roba fatta in casa, gonnelle, giubbetti, grembiuli, fazzoletti di bambace, scarpe di vacchetta.
Disse la gatta: - Scegli quel che vuoi.
La povera ragazza che andava scalza e stracciata, disse: - Datemi un vestito fatto in casa, un paio di scarpe di vacchetta e un fazzoletto da mettere al collo.
-No, - disse la gatta, - sei stata buona coi miei gattini e io ti voglio fare un bel regalo -.
Prese il piú bell'abito di seta, un bel fazzoletto grande, un paio di scarpini di raso, la vesti e disse:
- Ora che esci, nel muro ci sono certi pertugi; tu ficcaci le dita, e poi alza la testa in aria. La ragazza, quandò uscí, ficcò le dita dentro quei buchi e tirò fuori la mano tutta inanellata, un anello piú bello dell'altro in ogni dito. Alzò il capo, e le cadde una stella in fronte. Tornò a casa ornata come una sposa.
Disse la matrigna: - E chi te le ha date tutte queste bellezze?
- Mamma mia, ho trovato certi gattini, li ho aiutati a lavorare e m'hanno fatto dei regali, - e le raccontò com'era andata.
La madre, l'indomani, non vedeva l'ora di mandarci quella mangiapane di sua figlia.
Le disse: - Va' figlia mia, cosí avrai anche tu tutto come tua sorella.
-Io non ne ho voglia, - diceva lei, da quella malallevata che era, - non ho voglia di camminare, fa freddo, voglio stare vicino al camino.
Ma la madre la fece uscire a suon di bastonate. Quella ciondolona cammina cammina, trova il cavolfiore, lo tira, e scende dai gatti.
Al primo che vide gli tirò la coda, al secondo le orecchie, al terzo strappò i batti, a quello che cuciva sfilò l'ago, a quello che tirava l'acqua buttò il secchio nel pozzo: insomma non fece altro che dispetti per tutta la mattina, e loro miagolavano, miagolavano.
A mezzogiorno, venne Mamma Gatta con la campanella: - Dalin, dalon! Dalin, dalon! Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non ha lavorato venga a guardare!
-Mamma, - dissero i gatti, - noi volevamo lavorare, ma questa ragazza ci ha tirato la coda, ci ha fatto un sacco di dispetti e non ci ha lasciato far niente!
-Bene, - disse Mamma Gatta, - andiamo a tavola -.
Alla ragazza diede una galletta d'orzo bagnata nell'aceto, e ai suoi gattini maccheroni e carne. Ma la ragazza non faceva altro che rubare il mangiare dei gatti.
Quando s'alzarono da tavola, senza badare a sparecchiare né niente, disse a Mamma Gatta: - Be', adesso dammi la roba che hai dato a mia sorella.
Mamma Gatta allora la fece entrare nel ripostiglio e le chiese cosa voleva.
- Quella veste là che è la piú bella! Quegli scarpini, che hanno i tacchi píú alti!
- Allora, - disse la gatta, - spogliati e mettití questa roba di lana unta e bisunta e queste scarpe chiodate di vacchetta tutte scalcagnate -.
Le annodò un cencio di fazzoletto al collo e la congedò dicendo: - Adesso vattene, e mentre esci, ficca le dita nei buchi e poi alza la testa in aria.
La ragazza uscí, ficcò le dita nei buchi e le si attorcigliarono tanti lombrichi, e piú faceva per staccarseli, piú s'attorcigliavano. Alzò il capo in aria e le cadde un sanguinaccio che le pendeva in bocca e lei doveva dargli sempre un morso perché s'accorciasse. Quando arrivò a casa cosí conciata, piú brutta di una scoppiettata, la mamma ne ebbe tanta rabbia che morí. E la ragazza a furia di mangiar sanguinaccío, morí lei pure. Mentre la sorellastra buona e laboriosa, se la sposò un bel giovane.


 
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Il lago della leggenda

Post n°663 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Ogni lago ha la sua leggenda: una leggenda che ricorda le sue origini con precisione fantastica, e si tramanda di padre in figlio finché vien fissata sulla carta e stampata, nera sul bianco, da qualche raccoglitore.
Quanto al nostro lago, questo nostro magnifico lago di Varese, bianco sul nero se lo vedete nelle notti di luna, che si lascia comprendere d'un sol colpo d'occhio, non ha, ch'io mi sappia, una leggenda che ne racconti la nascita: nessuno dei buoni antichi ha trovato nipotini tanto poco amanti del sonno da dover inventare, per addormentarli, che gli Angeli riempirono con secchi d'oro tutta una valle, gli Angeli fecero spuntare l'isolotto, buon cane da guardia, e gli Angeli fecero questo, fecero quello.
Che lago prosastico, direte voi.
Adagio: c'è un compenso.
Non avete mai visto, scendendo o salendo la strada così detta del Sasso, tra Comeno e Gavirate, a mano destra, una Chiesuola con un piccolo portico ed un campaniletto muto?
No: voi non vi siete mai fermati. Se avete la macchina rombante, non vi siete accorti di nulla: se eravate pellegrini francescani, non vi siete fermati a guardare, attraverso una finestrella, nella penombra di questa chiesa dedicata alla Santissima Trinità.
E nemmeno vi siete seduti sul muricciolo del portico a guardare quel po' di lago che trema lontanamente. Questa chiesa ha una leggenda.
A me l'ha raccontata una vecchina di quelle che si incontrano nelle favole o negli angoli ignoti dei paesi.
Dunque ai tempi dei tempi (quando, e chi lo sa!) avvenne ad un cavaliere che si trovasse a percorrere in pieno inverno questi paesi. La neve era tanta che pareva che tutti i mulini del cielo avessero rovesciato la loro farina, su questa piana terra di Lombardia.
Si trova dunque d'un tratto il cavaliere davanti ad una distesa di neve dove non un arbusto, uno stecco ed un albero ischeletrito, drizzava le braccia al cielo.
Una prateria che si allargava improvvisamente, come un miracolo. In fondo, lontano, poche casupole indicavano l'esistenza d'un villaggio.
Il cavaliere affronta decisamente la pianura: sprona il cavallo, e sollevando turbini di neve vola a galoppo sfrenato. Gli sferza in volto un'aria più fredda: quasi direbbe gelida. In poco più di mezz'ora ha percorso tutto il prato di così insolite dimensioni.
Eccolo ora davanti alle casupole in rovina del villaggio. Chiama, passando, perché qualcuno gli risponda. Chiama, chiama e nessuno risponde. Scalpita il cavallo ed egli batte ad una porta.
"Buona gente!".
S'apre finalmente la porticina cigolando sui cardini, ed emerge dall'ombra nera una vecchina piccina piccina (forse una delle nonne più lontane di quella che mi raccontò la storia).
"Buon dì, cavaliere di Dio!".
Egli l'interpella in modo deciso: "Dite: chi è il padrone di quel prato senz'alberi né stecchi che vedete laggiù? L'ho attraversato or ora e mi punge voglia di comprarmelo!".
"Signore Iddio!" esclama la vecchia crocesegnandosi: "Passaste là sopra?".
"Diamine, sì. Ma che avete che vi segnate su tutte le parti del corpo? Ho forse l'aria di un pagano?".
La vecchina, commossa, accenna a rispondere: "Signor mio, no. Voi non siete un pagano: ché altrimenti il Signore non vi avrebbe fatto sì leggero da passare sul lago senza che il ghiaccio si rompesse sotto gli zoccoli del cavallo!".
Ora è la volta del cavaliere ad essere stupito: ché molte avventure gli son capitate, ma giammai passò sui ghiacci di un lago scambiandoli per prati distesi sotto il cielo.
Si fa gente e tutti lo guardano con meraviglia: il Cavaliere del miracolo egli è ormai per essi. Da le casupole le donne lo mostrano ai fantolini: il Cavaliere che passò sul lago.
Quando infine egli si riebbe dalla sorpresa, trasse una borsa d'oro e parlò ai contadini:
"Buoni terrieri, uditemi. Io voglio che in ringraziamento al Signore Nostro Uno e Trino, voi costruiate una Chiesa e vi facciate orazione".
E come quelli annuirono, egli li ringraziò, diede loro il denaro e se ne partì, né fu più visto.
Cominciarono essi a costruire la Chiesa della Santissima Trinità, secondo che dicono le storie. Poi cambiarono i tempi, Gavirate divenne un borgo popoloso ed industre, la Chiesa ebbe bisogno di essere rimessa a punto, forse non è più come a quei tempi.
Ma il lago è sempre quello: a volte gela, a volte ride.
E’ sempre il lago che noi amiamo, quello che alcuni vecchi dicono sia un avanzo delle acque del diluvio, che lasciarono sepolto un paese per volontà del Signore Uno e Trino.
In verità un paese ci fu, dove ora le acque ondeggiano contro le molli rive.
Come rimase sepolto e quando?
Sedete sul muricciolo della Chiesa di cui vi ho raccontato la storia: guardate quel tratto di lago che trema al vostro sguardo e forse vi parrà di vedere tra le onde le risate dei ragazzi che furono sepolti un giorno, ma molto lontano, con le loro vecchie case di legno.



 
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Colomba

Post n°662 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta, ad otto miglia da Napoli verso gli Astroni, una macchia di fichi e di pioppi, sul quale s'infrangevano i raggi del sole, non potendolo attraversare.
Lì si trovava una casetta mezza abbattuta, abitata da una vecchia che era tanto sguarnita di denti quando carica d'anni, tanto piena di gobba quando vuota di fortuna, aveva cento rughe in faccia ma senza una piega le tasche, la testa tutta argentata ma neanche una monetina d'argento per ricrearsi lo spirito, al punto che faceva il giro dei fienili dei dintorni per sostentarsi con qualche elemosina.
Ma poiché attualmente si dà con più facilità una borsa d'oro ad una spia ladrona che non qualche monetina ad un povero disagiato, la vecchia durante tutta la trebbia mise insieme a malapena un piatto di fagioli, mentre tutte le case del paese, in quel periodo d'abbondanza, ne mantenevano a quintali. Ma come si suol dire, " a paiolo vecchio bozzo o buco ", " a cavallo magro Dio manda le mosche " e " ad albero caduto l'accetta ", di modo che la vecchia, puliti i fagioli e versati in una pentola, li mise sul davanzale e se ne uscì a fare un po' di legna nel bosco per cuocerseli.
Ma intanto che era fuori passò di fronte alla casa Nardo Aniello, il figlio del re, che stava cacciando. Costui, intravedendo la pentola sulla finestra, gli venne l'estro di fare una sbruffonata, scommettendo con i suoi servitori su chi, mirando meglio degli altri, avesse centrato la pentola con un sasso, iniziarono così a bersagliare quella povera pentola, e dopo tre o quattro sassate il principe, colpendola nel centro, la mandò in pezzi. La vecchia tornò quando se n'erano già partiti, e trovando l'amara tragedia, cominciò a fare cose maledette gridando:
- Si stropicci pure le mani e ne vada altezzoso quel caprone di Foggia che ha cozzato contro la mia pentola, il figlio di strega che ha rotto la fossa delle sue carni, il mascalzone zoticone che ha seminato fuori stagione i miei fagioli! E se pure se non altro avere rispetto per i suoi interessi e non buttare in terra le insegne della sua casata, né mettersi sotto i piedi le cose che vanno sopra la testa! Ma vai pure, che io prego il cielo a ginocchia scoperte e con le viscere del cuore che lo faccia innamorare della figlia di un'orca che lo faccia ribollire e cuocere quando basta, e poi le buschi dalla suocera in modo che si veda vivo e si pianga morto: di modo che, trovandosi impastoiato e dalle magnificenze della figlia e dalle stregonerie della madre, non riesca mai a filar via, ma resti anche se crepa per le torture di quella brutta megera, che dovrà ordinargli i servizi a bacchetta, e fargli vedere il pane a distanza, in modo che dovrà per quattro volte rammentare con rammarico i fagioli che mi ha gettato in terra.
Le condanne della vecchia misero le ali e salirono subito in cielo, tanto che, per quanto si usi dire: " bestemmie di femmina nel sedere te le semina ", o " al cavallo bestemmiato risplende il pelo ", stavolta fecero sbattere il naso al principe che fu lì per lasciarci la pelle, non erano difatti ancora trascorse due ore, che il principe, ritrovandosi nel bosco senza seguito, incontrò una bellissima giovane che andava raccattando chiocciole, e per giocare diceva:
- Esci, esci corna che mammata ti scorna. Ti scorna sopra la terrazza e fa il figlio maschio.
Il principe, vedendosi dinanzi quello scrigno pieno dei più grandi tesori della natura, quel banco dei più ricchi depositi del cielo, quell'arsenale delle più poderose forze d'amore, non capiva cosa gli stesse accadendo, perché i raggi degli occhi di lei, passando quel volto di cristallo tondo, cogliendo l'esca del cuore suo lo avevano acceso tutto come una fornace nella quale si preparano i mattoni dei progetti per costruire la casa delle speranze.
Filadoro, poiché questo era il nome della ragazza, non perse tempo: essendo di fatto il principe un bel Marcantonio, subito le trafisse da parte a parte il cuore; così che l'un l'altro si chiedevano compassione con gli occhi, e mentre le loro lingue si erano bloccate, gli sguardi erano delle trombe da banditore che diffondevano il segreto dell'anima. Dopo di che restarono per un bel pezzo entrambi con la gola intasata senza riuscire a pronunciare parola, infine il principe tolto, il tappo, il condotto della voce riuscì a proferirle:
- Da quale prato è fiorito questo fiore di bellezza? Da quale cielo è piovuta questa rugiada di piacevolezza? Da quale miniera è stato asportato questo tesoro di beltà? O selve felici, oh boschi fortunati, abitati come siete da questo tesoro, pieni di luce da questa luminaria delle feste d'Amore! Oh boschi, oh selve, dove non si recidono manici per le scope, aste per le forche, né coperchi per i vasi da notte, ma solo porte per il tempio della bellezza, travi per la casa dell'amore!
- Andateci piano cavaliere mio - diede risposta Filadoro - esagerata grazia la vostra perché è alle vostre virtù più che alle mie qualità che devo l'epitaffio di elogio che mi avete fatto, sono una donna che sa valutarsi quantitativamente, e non voglio che qualcun altro mi faccia da regalo. Ma per quella che sono, bella o brutta, nera o bianca, magra o grassa, canterina o scorreggiona, scorfana o fata, bambola o salame, sono tutta ai vostri comandi, perché questo bel taglio d'uomo mi ha fatto a fette il cuore, questa bella faccia di conte mi ha trapassato da parte a parte, e io mi do a te come una schiavetta in catene da ora e per sempre.
Non furono parole queste per il principe, ma squilli di tromba che chiamavano il " tutti a tavola " dei godimenti amorosi, o meglio che lo svegliarono con i tutti a cavallo della pugna d'amore, vedendosi così offerto che gli aveva attaccato il cuore. Filadoro, a questa cerimonia da principe, fece una faccia da marchesa, anzi, fece una faccia da tavolozza di pittore, nella quale si vedeva un misto del rosso del turbamento, della rossa ciliegia della paura, il verderame della speranza e il rosso fuoco della bramosia.
Ma Nardo Aniello avrebbe voluto proseguire, quando gli si seccò la parola, poiché in quest'infelice vita umana non c'è vino dell'appagamento senza la feccia del ribrezzo, non c'è brodo grasso della soddisfazione senza schiuma di sventura: mentre, difatti, si trovava sul più bello, ecco che arriva d'improvviso la madre di Filadoro, la quale era un'orca così brutta che la natura doveva averla fatta com'esemplare dei mostri. Aveva i capelli come una scopa di rami secchi, ma non per pulire la casa da fuliggine e tele di ragno, ma per oscurare e affumicare i cuori; la fronte era di pietra genovese, per aguzzare il coltello della paura e lacerare i petti, gli occhi erano comete che predicevano tremiti di gambe, punture di cuori, tremori di spirito, coliche dell'anima e dissenterie di corpo, in quando aveva il terrore sulla faccia, il terrore nello sguardo, lo schianto nei passi, la diarrea nelle parole, la sua bocca era zannuta come quella di un porco, grande come quella di un mostro, storta come quella di chi ha una convulsione, piena di bava come quella di un mulo, in conclusione da capo a piedi essa era una disgrazia di deformità, un ricovero di storpi, tanto che doveva avere una storia di Marco e Fiorella cucita sulla gamba per non morire a quella vista.
L'orca, agguantato Nardo Aniello per la casacca, proferì:
- Alatola! Uccello, uccello, manette di ferro!
- Siete osservatore! - controbatté il principe - Indietro canaglia! - e fece per appoggiare mano alla spada che era di buona lama.

Però restò come una pecora che ha visto il lupo, che non può spostarsi né fiatare, fu così che fu trascinato nella casa dell'orca come un asino per la cavezza. Appena vi fu arrivato l'orca e l'avvisò:
- Cerca di lavorare come un cane se non vuoi cessare di vivere come un porco. E tanto per iniziare fai n modo che entro oggi sia zappato e seminato questo moggio d'appezzamento, spianato come questa camera e fai tutto come si deve che se torno questa sera e non trovo finito il lavoro, t'inghiotto!
Quindi, dopo aver ordinato alla figlia di sorvegliare la casa, se n'andò a far due pettegolezzi con le altre orche del bosco. Nardo Aniello guardandosi ridotto in quelle condizioni prese ad inondarsi il petto di lacrime, proferendo la sua fortuna che lo aveva trascinato in quel vicolo cieco. Filadoro, sì suo, lo confortava, dicendogli di stare di buon animo, giacché essa avrebbe dato il suo sangue per aiutarlo, e che non aveva l'obbligo chiamare il destino maligno se lo aveva portato in quella casa dove era così appassionatamente amato da lei, mostrando di non ricambiare il suo amore poiché era così sconfortato per quando era avvenuto.
Il principe le contestò:
- Non mi dispace tanto di essere calato dalla condizione da cavallo a quella d'asino, né di aver cambiato il palazzo reale con questa baracca, i banchetti apparecchiati con un tozzo di pane, il corteggio della servitù con il servire a cottimo, lo scettro con una zuppa, la facoltà di spargere terrore gli eserciti con vedermi atterrito da una brutta puzzolente, dato che considero positivamente delle fortune tutte le mie disgrazie se tu sei presente e posso osservarti con meraviglia con questi occhi. Ciò che invece mi ferisce il cuore è che ho l'obbligo zappare e sputarmi cento volte sulle mani quando prima disprezzavo di sputarmi una piaga, e, quod peius, che devo lavorare tanto quando non otterrebbero in un'intera giornata un paio di buoi. E se non termino stasera sarò mangiato da tua madre, e io non tanto patisco per il fatto di distaccarmi da questo mio corpo sfortunato, quanto all'idea d'allontanarmi dalla tua bella persona.
Così pronunciando versava lacrime a fiumi e singhiozzi a secchi. Tuttavia Filadoro, prosciugandogli gli occhi gli affermò:
- Non prestare fede, vita mia di dover lavorare altro podere che non sia l'orto dell'amore, né temere che mia madre ti torca un solo capello. Hai dalla tua Filadoro non essere in dubbio poiché, se non lo sai, io sono fatata e posso pietrificare l'acqua e rendere oscuro il sole, basta e sufficit! Perciò, stammi felice poiché stasera ritroverà zappato e seminato il terreno senza che tu ci dia un colpo.
Ascoltando ciò Nardo Aniello disse:
- Se tu sei una fata come affermi, oh bellezza del mondo, perché non ce n'andiamo da questo paese? Voglio, difatti, averti come regina nella casa di mio padre.
Filadoro rispose:
- Una certa unione di stelle fa opposizione questa riuscita, ma tra poco quest'influsso passerà e saremo felici.
Tra questi e mille altri dolci dimostrazioni trascorse la giornata, fino a quando, tornata l'orca da fuori, chiamò la figlia dalla strada, dicendo: - Filadoro, scendi i capelli.
Giacché essendo la casa priva di scale, saliva sempre sostenendosi alle trecce della figlia. Filadoro, percepiva la voce della madre, slegando i capelli li calò giù come una scala d'oro per un cuore di ferro, non appena salì la madre corse nell'orto e ritrovandolo ben curato rimase meravigliata, poiché le sembrava improbabile che un giovane così delicato avesse fatto quella lavoro da cane. La mattina successiva, ancora il sole non si era del tutto asciutto dall'umido del fiume indiano dal quale era riemerso, che la vecchia se ne uscì di nuovo, lasciando detto a Nardo Aniello che le facesse trovare la sera stessa sei misure di legna spezzati in quattro parti per ogni pezzo, che si trovava dentro uno stanzone, diversamente l'avrebbe affettato come un pezzo di lardo facendone stufato per cena.
Il principe sfortunato, dopo aver ascoltato quest'intimazione per decreto, stava per morire tra i dolori acuti se non che Filadoro, guardandolo pallido come un morto, gli dichiarò:
- Che pauroso! Povero te, avresti terrore anche della tua ombra!
- Ti pare una cosa da niente - replicò Nardo Aniello - dividere entro questa sera sei misure di legna, ogni pezzo in quattro parti? Ahimè, sarò prima spaccato io a metà per riempire la gola di quella vecchia malaugurata!
- Non essere in dubbio - rispose Filadoro - che senza qualcuna fatica la legna sarà ben spaccata, ma nel frattempo stai di buon umore e non mi spaccare l'anima con i tuoi lagni.
Ma non appena il sole chiuse la bottega dei suoi raggi per non percepire la luce alle ombre, ecco ritornare la vecchia che, fatta mandare giù la solita scala, se ne salì e, trovando la legna spaccata, incominciò a sospettare che la figlia desiderasse darle scacco matto. Il terzo giorno, come terza prova, gli dichiarò che doveva vuotare una cisterna di mille botti d'acqua, poiché voleva riempirla nuovamente, prima di sera, altrimenti n'avrebbe fatto salsa piccante e carne secca. Uscita la vecchia, Nardo Aniello cominciò nuovamente col suo lamento, Filadoro, osservando che soffriva sempre più spesso e che la vecchia con fare brutale proseguiva a caricare il pover'uomo di guai gli proferì:
- Taci, perché passata è ormai quella combinazione del cielo che m'impediva di mettermela in pratica mia arte, e oggi prima che il sole dica mi commiato, noi diremo a questa casa stammi bene. Basta, questa sera mia madre ritroverà il paese deserto, e io desidero venirmene con te, viva o morta.
Il principe, che era poco più che morto, ascoltando questa novità, si riprese e abbracciando Filadoro le disse:
- Tu sei il vento di settentrione di questa barca sofferente, anima mia! Tu sei il pungolo delle mie speranze!
Ora, quasi giunta la sera, Filadoro fece una buca una buca sottoterra che attraverso l'orto si univa ad un gran condotto, e così i due fuggirono, dirigendosi verso Napoli. Ma non appena arrivarono alla grotta di Pozzuoli, Nardo Aniello disse a Filadoro:
- Bene mio, non è dignitoso introdurti nel mio palazzo a piedi e vestita così. Dunque aspetta in quest'osteria, torno subito a prenderti con i cavalli, carrozze, seguito, vestiti e altri accessori.
Così, intanto che Filadoro restava là, egli s'avviò verso la città. Nel frattempo tornata l'orca da fuori, e non rispondendo Filadoro alla solita chiamata, allarmata corse nel bosco, tagliò una grand'asta, l'appoggiò alla finestra della casa e arrampicatasi come una gatta, s'introdusse in casa.
Cercando dentro e fuori, sopra e sotto e non trovando nessuno, s'accorse della fossa, guardando attentamente che andava a sbucare in una piazza, si strappò con impeto i capelli, maledicendo la figlia e il principe e implorando il cielo che al primo bacio che il suo innamorato ricevesse da chiunque, si dimenticasse di lei. Lasciamo la vecchia pronunciare i suoi paternostri selvaggi e ritorniamo al principe che, arrivato a palazzo, dove tutti lo credevano morto, mise la casa sottosopra, tutti difatti, gli correvano incontro e gli dichiaravano:
- Era ora! Bentornato! Sei sano e salvo! Come sei bello! - e mille altre parole amorevoli.
Ma mentre saliva di sopra, a mezza scala s'imbatté con la madre che lo abbracciò e lo baciò dichiarandogli:
- Figlio mio, mio tesoro, pupilla dei miei occhi, dove sei stato? E come mai hai ritardato tanto, tenendoci tutti preoccupati?
Il principe non sapeva cosa replicare, avrebbe voluto descrivere le sue vicende sfortunate, ma non appena la mamma lo aveva baciato con le sue labbra di papavero, per il malaugurio dell'orca aveva perso il ricordo tutto quello che gli era successo. Nel momento in cui la regina gli annunciò che per levargli quell'abitudine di andare a caccia e di sciupare la vita nei boschi, gli avrebbe dato moglie.
- Ben giunga - disse il principe - eccomi pronto e disposto a fare tutto ciò che la mamma, mia signora desidera.
- Così fanno i figli benedetti - confermò la regina.

Dunque si misero d'accordo che entro quattro giorni avrebbero portato la sposa in casa, una signora dall'alta aristocrazia che dalle Fiandre era giunta per caso in quella città. Organizzarono dunque una gran festa e i banchetti, ma nel frattempo Filadoro, vedendo che il marito tardava troppo e ronzandole non so come all'orecchio la voce di questa festa che si andava diffondendo dappertutto, osservato il garzone dall'oste che essendo sera, se n'era andato a letto, decise di asportargli i vestiti dal capo del letto, lasciati i suoi abiti, camuffata da uomo se n'andò alla corte del re dove i cuochi tanto erano impegnati e avevano bisogno d'aiuto che la presero come aiutante.
Arrivata la mattina dell'appuntamento, quando il sole sul banco del cielo mostra i privilegi sigillati di luce messi d'accordo dalla natura, e vende i segreti che rendono chiaro la vista, giunse la sposa a suono di cennamelle e di trombette. I tavoli erano apparecchiati e tutti si misero a sedere, lo scalco tagliò un grosso timballo all'inglese che Filadoro aveva preparato con le sue mani e ne fece uscire una colomba così bella che i commensali, dimenticarono di mangiare, restarono meravigliati a guardare con ammirazione la bellezza.
Ma la colomba, con voce misericordiosa, si rivolse al principe e disse:
- Hai mangiato forse cervello di gatta. Oh principe, perdendoti il ricordo dell'affetto di Filadoro? La tua memoria ha cancellato i favori che ti ha reso, oh sconoscente? Così contraccambi i benefici che ti ha procurato, oh irriconoscente? L'averti liberato dagli artigli dell'orca, l'averti offerto la vita e se stessa? È questo il gran pagamento che dai a quella disgraziata giovane per l'amore profondo che t' ha manifestato? Dì che si levi e se ne vada via, dì che spolpi l'osso prima che arrivi l'arrosto! Oh sventurata quella compagna che troppo s'ingravida con le parole degli uomini, che sempre portano con le parole l'ingratitudine, coi favori la sconoscenza, coi debiti la mancanza di memoria!
Ecco, l'infelice credeva di fare la pizza nella buona bocca e ora le tocca giocare a taglia casatiello, credeva di fare con te " addosso addosso " E ora tu fai " tana tana "! Pensava di poter spezzare un bicchiere con te e invece ha rotto il vaso da notte! Va, non ti angosciare, faccia da negadebirti, che ti colgano per diritto le bestemmie di tutto cuore che quella sciagurata ti fa giungere! Ti accorgerai di quel che costa imbrogliare una fanciulla, deludere una povera innocente facendole questo bel trucco mucco, portandola folio a tergo intanto che ella ti portava intus vero, collocandola sotto la coda mentre lei ti metteva sopra la testa, e mentre lei ti faceva da domestica, tenerla dove si fanno i clisteri! Ma se il cielo non si è messo la benda sugli occhi, se gli dei non si sono schiaffati il turacciolo nelle orecchie, guarderanno il torto che le hai fatto e, quando meno te lo aspetti, giungeranno la vigilia e la festa, il lampo e il tuono, la febbre e la dissenteria! Basta, pensa a mangiar bene, placa le tue voglie, spassatela con la sposa novella, la povera Filadoro, filando sottile, romperà il filo della sua vita e ti lascerà campo aperto per rallegrarti la nuova moglie.
Pronunciate queste parole se ne volò fuori dalle finestre e il vento la trascinò distante. Il principe, udita questo sfogo violento colombesca, restò confuso a lungo. Finalmente chiese di dove giungesse il pasticcio, quando venne a conoscenza dallo scalco che l'aveva preparato uno sguattero di cucina assunto per l'occasione, volle che questi gli comparisse davanti.
Ma Filadoro si buttò ai piedi di Nardo Aniello, sciogliendosi in una colata di pianto, non faceva che affermare:
- Cosa ti ho fatto, cagnaccio? Che ti ho fatto?
Il principe, in virtù della magnificenza dell'incantesimo di lei, si rammentò degli obblighi presi nel tribunale dell'amore, così che facendola subito alzare e sedere di fianco a lui, narrò alla madre il grande legame che lo legava a quella bella giovane, e quando essa avesse fatto per lui, e la parola datale, che andava conseguentemente mantenuta.
La madre, non possedendo altro bene che questo figlio, affermò:
- Fai quello che credi, purché sia salvo l'onore e il gusto di questa signorinella che hai preso in sposa.
- Non vi angosciate per me - rispose la sposa - giacché io, per dire le cose come stanno, sarei rimasta forzatamente in questo paese. Ma dal momento che il cielo me l' ha mandata buona, con il vostro concesso, me ne ritornerei alla volta della Fiandra mia, per ritrovare gli avi dei boccali in uso a Napoli, dove, considerando di accendere una lampada, s'era quasi spenta la lanterna della mia vita.
Il principe con immensa gioia le offrì vascello e compagnia, quindi, fatta vestire Filadoro da principessa e levate le tavole, fece venire i buttafuochi e s'iniziò il ballo che durò fino a sera.
Quando poi, essendo la terra vestita a lutto per l'estremo saluto del sole, furono accese le torce, per le scale si udì un gran rumore di campanelli, in seguito al quale il principe disse alla madre:
- Sarà qualche bella pagliacciata per onorare questa festa. I cavalieri napoletani sono molto ossequiosi e quando è necessario non badano a spese.
Nel tempo in cui dicevano queste cose, apparve in mezzo alla sala una maschera orribile che non era più alta che tre spanne, ma era larga più di una botte. Arrivata davanti al principe proferì:
- Vieni a conoscenza, Nardo Aniello, che i tuoi scherzi, le tue mascalzonate, ti hanno condotto a tutte le avversità che hai passato. Io sono l'ombra di quella vecchia cui hai rotto il tegame e che per la fame sono morta denutrita. Ti ho lanciato la maledizione d'incappare nei tormenti di un'orca e le mie preghiere sono state ascoltate. Ma grazie al potere di questa bella fata sei riuscito a sfuggire quei guai. Subisti un'altra maledizione dall'orca, che al primo bacio che ti fosse dato ti perdessi il ricordo di Filadoro. Tua madre ti ha baciato e lei è uscita dalla tua ragione, ma grazie alle sue arti ora te la ritrovi di fianco. Torno attualmente a scomunicarti, per richiamarti alla memoria il danneggiamento che mi hai fatto ti possa trovare sempre di fronte i fagioli che mi hai scaraventato in terra, e si rendi effettivo il proverbio " a chi semina fagioli, gli nascono corna".
Detto ciò, si liquefece come argento vivo, dal momento che non se ne vide il fumo.
La fata, che adocchiò il principe diventare pallido a queste parole, lo rinfrancò affermandogli:
- Non avere timore, marito mio, ascolta e dimentica: " se è una fattura, non sia considerata, io ti porto fuori del fuoco!".
Infine, detto ciò e terminata la festa, andarono a letto, e il principe per rafforzare l'impegno della nuova fedeltà promessa, fece sottoscrivere i due testimoni. Le tribolazioni passate fecero più gradevoli i piaceri presenti, e fu chiaro nel crogiolo degli avvenimenti del mondo che:

chi mette il piede in fallo e non cade, procede nel cammino.





 
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La camicia della trisavola

Post n°661 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un orfano detto Prataiolo, tardo e trasognato, era tenuto da tutti per un mentecatto.
Prataiolo mendicava di porta in porta ed era accolto benevolmente dalle massaie e dalle fantesche, perché tagliava il legno, attingeva al pozzo; e quelle lo compensavano con una ciotola di minestra.
Ma quando Prataiolo compì i diciott'anni, il vicinato cominciò ad accoglierlo meno bene ed a rimproverargli il suo ozioso vagabondare.
Tanto che egli decise di lasciare il paese e di mettersi pel mondo alla ventura.
Andò a salutare la sua sorella di latte, Ciclamina, e questa gli disse:
- Voglio darti una piccola cosa, per mio ricordo. Non sono ricca e non posso fare gran che. Aggiungerò al tuo fardello una logora camicia della mia trisavola, che era negromante.
Prataiolo non poté nascondere un sorriso di delusione.
- Non sdegnare il mio dono, o Prataiolo. Ti sarà più utile che tu non pensi. Ti basterà distendere la camicia per terra e comandare ciò che vorrai: e ciò che vorrai sarà fatto.
Prataiolo prese il dono, abbracciò la sorella, e partì. Verso sera sentiva appetito e trovandosi senza provviste e senza denaro, cominciava ad inquietarsi, perché aveva ben poca fiducia nella tela miracolosa.
Volle provare, tuttavia; la distese in terra e mormorò:
- Camicia della trisavola, vorrei un pollo arrosto!
Ed ecco disegnarsi a poco a poco l'ombra di un pollo, leggiera dapprima e trasparente, poi più densa e concreta, solida e dorata come un pollo naturale. E un profumo delizioso si diffondeva intorno.
Prataiolo non osava toccarlo, temendo un malefizio. Poi si chinò, lo palpò, ne strappò un'ala, la portò alla bocca.
Era un pollo autentico e squisito. Ordinò allora una torta allo zibibbo, un piatto di pesche, una bottiglia di Cipro.
E tutto si disegnava leggiero, si concretava a poco a poco sulla camicia miracolosa.
Prataiolo mangiava tranquillo, seduto sull'erba, quando vide sulla strada maestra un mendicante che lo fissava muto e supplichevole.
- Posso offrirti, compagno?
Il vecchio non si fece pregare e divise il banchetto con lui.
Ma quando vide la comparsa meravigliosa delle portate, pregò il ragazzo di donargli la tela magica.
- Ti darò questo mio bastone in compenso.
- E che vuoi che ne faccia?
- Se tu sapessi la virtù di questo mio bastone, accetteresti con gioia. Contiene mille piccole celle ed ogni cella racchiude un cavaliere armato e un cavallo bardato di tutto punto. Ogni volta che avrai bisogno d'aiuto ti basterà comandare: « Fuori l'armata!».
Prataiolo aveva sempre sognato d'essere generale e non poté resistere a quella tentazione: accettò il cambio e si mise in cammino. Ma dopo poche ore era già pentito.
- Ho fame e non ho più la mia camicia! A che può giovarmi un 'armata quando lo stomaco è vuoto?
L'appetito cresceva e per distrarsi egli puntò in terra il bastone e comandò:
- Fuori l'armata!
Ed ecco un fruscìo dal di dentro, poi aprirsi nel legno tante piccole finestre e da ogni finestra uscir fuori un cosino minuscolo come un'ape; poi crescere in pochi secondi, crescere, formare all'intorno una muraglia di cavalli scalpitanti e di cavalieri armati.
Prataiolo guardava trasognato.
- Che cosa comandate, signor generale?
Egli ebbe un'idea.
- Che mi sia riportata la camicia della trisavola!
L'armata partì di gran galoppo, sparve all'orizzonte, e poco dopo era di ritorno con la tela miracolosa.
- L'armata rientri in caserma! ...
Prataiolo puntò il bastone in terra. Cavalli e cavalieri presero a rimpicciolire, in pochi secondi ritornarono minuscoli come api, rientrarono nelle cellette che si rinchiusero sul legno senza lasciar traccia.
Prataiolo era felice.
Riprese la via e giunse ad un mulino.
Il mugnaio era sulla soglia e suonava il flauto: la moglie e i suoi nove figli danzavano intorno.
Prataiolo sentì che avvicinandosi gli cresceva una voglia irresistibile di muover le gambe; poi fu costretto da una forza ignorata a ballare con gli altri ballerini.
Sentiva intanto la moglie del mugnaio che danzando gridava furibonda al marito:
- Basta! Basta! Uomo senza cuore! Dacci del pane invece che costringerci a ballare!
Poi rivolgendosi a Prataiolo che ballava con loro:
- Vedete? Questo mascalzone di marito, quando lo si prega di sfamarci, prende il suo flauto dannato e ci costringe a ballare!
Il mugnaio, quando gli piacque, smise di suonare e la moglie, i figli, Prataiolo caddero sfiniti dalla ridda vertiginosa.
Prataiolo, riprese le forze, distese la camicia della trisavola e comandò un pranzo magnifico. Invitò il mugnaio e la sua famiglia sbigottita a dividere il pasto. Quelli non si fecero pregare, e giunti alle frutta il mugnaio disse:
- Cedimi la camicia ed io ti do il mio flauto.
Prataiolo accettò il cambio, già sicuro di ciò che doveva fare poco dopo. Giunto, infatti, a dieci miglia dal paese, spedì i mille cavalieri che gli riportarono la tela.
- Ed eccomi ora possessore della camicia, del bastone, del flauto magico... Non posso desiderare di più.
Arrivò verso sera in una città e vide grandi annunci a vivi colori.
Si accordava la mano della figlia del Re a chi sapeva guarirla della sua insanabile malinconia.
Prataiolo si presentò subito alla Reggia.
Il Re dava quella sera un banchetto di gala agli ambasciatori del Gran Sultano, ma, udita la profferta dello sconosciuto, lo fece passare all'istante.
Prataiolo entrò nella sala immensa, e fu abbagliato dallo sfolgorio degli ori e delle gemme.
Sedevano a mensa più di cinquecento persone, con a capo il Re, la Regina e la Principessa, bella ed assorta, pallida come un giglio.
Prataiolo fece legare da un servo le gambe della Principessa, senza che i commensali se n'avvedessero, poi si rifugiò in un angolo e cominciò le prime note.
Ed ecco un agitarsi improvviso fra i commensali, un fremere di gambe e di ginocchia... Poi tutti s'alzano d'improvviso, scostano le sedie, cominciano a ballare guardandosi l'un l'altro, spaventati.
Principi, baroni, ambasciatori panciuti, baronesse pingui e venerabili, servi e coppieri, e financo i veltri, i pavoni, i fagiani farciti nei piatti d'oro, tutti si animarono, cominciarono a ballare la danza irresistibile.
- Basta! Basta! Per pietà! - gridavano i più vecchi e i più pingui.
- Avanti! Avanti ancora! - dicevano i più giovani, tenendosi per mano.
La Principessa, legata alla sua sedia, tentava anch'essa d'alzarsi e guardava gli altri, e rideva giubilante.
Quando piacque a Prataiolo, il suono cessò e i cinquecento ballerini caddero sfiniti sulle sedie e sui tappeti, le dame senza scarpette e senza parrucca. La Principessa rise per un'ora e quando poté parlare disse al Re:
- Padre mio, costui mi ha risanata ed io sono la sua sposa.
Il Re acconsentì, ma Prataiolo esitava.
- Ho lasciata al paese la mia sorella di latte, bella come il sole e alla quale devo la mia fortuna; vorrei farvela conoscere.
- Partite, dunque, e portatela fra noi - dissero i commensali.
I mille cavalieri comparvero, occupando la sala immensa, fra lo stupore generale.
- Mi sia portata Ciclamina, la mia piccola sorella .
E l'armata attraversò la Reggia, le sale, gli scaloni, con gran fragore. Poco dopo era di ritorno con la sorella Ciclamina. La fanciulla fu trovata così bella, che un ambasciatore se ne innamorò all'istante.
E in uno stesso giorno furono celebrate le doppie nozze



di Guido Gozzano

 
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Il superpoliziotto

Post n°660 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Settimana di passione qualche tempo fa per il nostro ispettore Cuccurullo,alle prese con un poliziotto piuttosto zelante,Ma facciamo un passo indietro.
Tempo fa a S.Tobia è arrivato Giona Quaglioni che,smanioso di far carriera,ne ha combinate di cotte e di crude.
Non ci credete?Leggete qua
LUNEDI'- Berengario passeggiava con la famiglia quando,fra il lusco e il brusco,si èritrovato sotto il tiro di una mitraglietta,ammanettato e schiaffato in cella.Per fortuna Ercolino è corso a casa Cuccurullo ed ha avvisato Telesforo,che si èrecato in caserma col tovagliolo al collo e la forchetta in mano.Un orgogliosissimo Quaglioni lo ha informato di aver finalmente arrestato il pericolosissimo latitante Totonno O'Scornacchiato.
Non vi dico la sua faccia quando il suo superiore lo ha informato (ed ha informato anche pratesi e fiorentini) che
O'Scornacchiato è stato arrestato 15 anni prima e che Berengario gli assomiglia quanto un pidocchio somiglia a una foca.
Quaglioni,miope come una talpa,aveva dimenticato di mettersi le lenti a contatto.
MARTEDI'- In pattuglia notturna il Quaglioni ha visto che la porta della cantina dei Trombettoni era aperta e che da lì provenivano rumori sospetti.
Pensando a dei ladri ha fatto irruzione armato della fedele mitraglietta ed ha sorpreso Alfredino in compagnia della sua amante,Rosmunda Cornacchioni,sorella di Ireneo.
I legittimi consorti volevano levarli dal mondo e solo il provvidenziale intervento di Cuccurullo ha evitato un macello
MERCOLEDI'- Il Quaglioni passava dai giardinetti quando ha visto l'uomo più vecchio di S.Tobia,Melchiorre Scozzagalli,intento a inalare una misteriosa polverina.
Convinto di aver a che fare con un cocainomane,Giona gli è zompato addosso.Dato che era in borghese,Melchiorre lo ha preso per un rapinatore e lo ha preso a bastonate.
Quando è arrivato Cuccurullo si è scoperto che lo Scozzagalli,come fa da 85 anni,usava tabacco da naso
GIOVEDI'- Smontando dal servizio alle una di notte,Giona ha notato l'Armida che stazionava sotto l'unico lampione di S.Tobia,passeggiando nervosa avanti e indietro,
Convinto di aver a che fare con una peripatetica, il Quaglioni si è avvicinato mentre lei stava per salire su un'auto,ed ha arrestato ragazza e conducente.
In casema Cuccurullo ha informato lui (e anche i senesi e i grossetani) che quei due erano i suoi cognati.
L'Armida era smontata dal lavoro e Orestino era andato a prenderla
VENERDI'- Dalla finestra Giona ha notato un individuo armeggiare intorno a una macchina,
Scapicollatosi in strada,gli è arrivato alle spalle e lo ha tramortito.
Il presunto ladro era ireneo,che stava cercando di riparare la portiera difettosa della macchina.
Le urla di Cuccurullo si sono sentite fino a Bologna.
SABATO- Una telefonata anonima ha informato il Quaglioni che in casa Trogoloni c'era una bisca clandestina.
Giona ha fatto irruzione in casa,armato fino ai denti.
In cucina ha trovato Astorre,l'Anarchico,lo Sgozzaloca e il Cuccurullo impegnati nella loro solita partita settimanale di poker.
Le urla di Cuccurullo stavolta si sono sentite fino a Messina.
L'Astorre,presolo a fagotto, lo ha scaraventato nella stalla di Cesarone ed è tornato alla sua partita.
DOMENICA-Giona è stato trasferito d'urgenza a Scivolamonte.
Sono passate due settimane.
Berengario è ricoverato nella clinica Luminaris:lo spavento lo ha convinto di essere davvero Totonno O' Scornacchiato.
La Rosmunda e il Trombettoni hanno lasciato S.Tobia.
Melchiorre sta benissimo.
Lui,l'Armida,Orestino e ireneo si recheranno presto a Scivolamonte in visita non proprio di cortesia,visto che il primo ha con sè un bastone rinforzato,la seconda una doppietta, il terzo un paio di bombe a mano e l'ultimo viaggia con kalashnikov,Uzi e Belva al seguito.
L'autore della telefonata,manco a dirlo,era Bernabò,che è di nuovo sparito.
Del Quaglioni non si sa nulla.
Cisa succederà ancora a S.Tobia?Con questo angosciante interrogativo,passo e chiudo

 
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Disdetta (Pirandello)

Post n°659 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Perbacco!
E rimettendomi in capo il cappello mi volto a guardar la bella sposina tra il fidanzato e la vecchia madre.
Dri dri dri... ah come strillavano di felicità sul lastrico della piazza assolata le scarpe nuove del mio amico! E la fidanzata, con l’anima tutta lucente e ridente negli occhi, nelle guance infocate, nei denti bianchissimi, sotto l’ombrellino di seta rossa si faceva vento vento vento, quasi per smorzar le vampe del suo pudor di fanciulla, la prima volta che si mostrava così per via alla gente con a fianco il promesso sposo. Dri dri dri...
Rimettendosi in capo il cappello (piano, che la pettinatura non si guastasse) si voltò anche lui, l’amico mio, a guardar me. O che c’entrava? Mi vide fermo in mezzo alla piazza, e chinò il capo con un sorriso impacciato. Risposi con un altro sorriso che voleva dire: - Mi rallegro! Mi rallegro!
Fatti pochi passi, mi volto di nuovo. Non m’aveva colpito tanto la figura simpatica ed elegante della fidanzata, quanto l’aria, dell’amico mio, che non vedevo più da circa tre anni. O non si volta anche lui a guardarmi per la seconda volta?
Che sia geloso? - pensai, incamminandomi subito a capo chino. - Ne avrebbe ragione: è proprio carina... Ma lui lui!
Non so, mi era sembrato anche più alto di statura, Prodigi dell’amore! E poi tutto ringiovanito, negli occhi specialmente, nella persona quasi carezzata da certe cure affettuose di cui non l’avrei mai stimato capace, conoscendolo nemico di quegli intrattenimenti che ogni giovanotto suole avere con la propria immagine per ore e ore innanzi a uno specchio. Prodigi dell’amore! Bravo Tito Bindi!
Dov’era stato egli in questi ultimi tre anni? Qui a Roma, prima, abitava in casa di Renzi suo cognato, ch’era poi il vero amico mio. Infatti egli, per me, propriamente, si chiama più «il cognato di Renzi», che Bindi di casa sua. Era partito per Forlì due anni avanti che Renzi lasciasse Roma, e non l’avevo più riveduto. Ora, eccolo a Roma di nuovo, e fidanzato.

Ah, caro mio, - seguitai a pensare tu non fai più certamente il pittore! Dri dri dri... le tue scarpe strillano troppo. Di’ che ti sei voltato ad altro mestiere, il quale ti deve fruttar bene. Come pittore, abbi pazienza, amico mio, eri somaro; bel giovine, ma somaro. Hai cambiato strada? Bravo Bindi! Vai lodato anche di questo.

Lo rividi due giorni appresso, quasi alla stess’ora, di nuovo insieme con la promessa sposa e con la futura suocera. Altro scambio di saluti accompagnati da sorrisi. Inchinando lieve e pur con tanta grazia il capo, mi sorrise anche la sposina.
Evidentemente Tito - pensai - le ha narrato la mia famosa avventura con sua sorella, la moglie di Renzi. E figuriamoci come e quanto avrà riso a le mie spade la cara sposina, e come sarà stato felice lui di averla fatta ridere così.
Per le due famiglie Renzi e Bindi e loro affini e amici e conoscenti io son condannato a essere argomento di riso chi sa fino a quando! Sarò morto, e Renzi vecchione, nel canto del fuoco, conversando con la moglie Secchissima (auguro come si vede a entrambi di campar più di me), le dirà: - Pitagora, ricordi? - E tutti e due, senza denti, rideranno ancora di me... È una bella sodisfazione!
Renzi mi chiama Pitagora perchè non mangio fagioli. Mi chiamerà pure Pitagora la cara sposina, suppongo... Cose che fan tanto piacere!
Ma che poi ci sia molto, proprio molto da ridere nell’avventura mia, dico la verità, non so vederlo. Si tratta semplicemente di questo. Sei anni fa (mica un giorno!) la mia disgrazia volle che per tanti e tanti giorni di seguito dovessi inconttar sola per via una bellissima signora, dada quale, fin dal primo vederla, tah! - ero rimasto straordinariamente colpito. È chiaro però che dell’impressione fattami si era accorta anche lei, in prima, e che anche lei anzi aveva dovuto rimanerne colpita così che, due o tre giorni dopo, scorgermi improvvisamente e lasciarsi cader di mano il porta fazzoletti fu tutt’uno. Io, naturalmente, interpretai a modo mio quel turbamento; supposi che l’oggetto le fosse caduto ad arte, e mi precipitai a raccoglierlo e glielo porsi con l’accompagnamento immancabile d’un inchino sorridente e d’una frase graziosa.
Chi non avrebbe fatto così? E fin qui, mi pare, non c’è nulla da ridere. È vero tuttavia, e non lo nego, che ella, a le mie parole, impallidì in un modo che mi parve anche allora eccessivo, e che mi ringraziò del piccolissimo servigio resole con un: - Insolente! - ma pensai: - Insolente! dunque ti seguo!

La seguii; ella si sentì inseguita: tanto che, più volte, inquieta, volse rapidamente il capo indietro a guardare e alla fine, non potendone più, salì in una vettura e via. Io, cocciuto, salto in un’altra dico al vetturino: - Dietro a quella, a qualche distanza! - Si va su pe’ quartieri Ludovisi, poi, in Via delle Finanze, la vettura della signora s’arresta; la vedo smontare, pagare, vedo la casa in cui entra. Ma abita davvero colà? o vi abita qualche sua amica? Se è così penso - tra poco discenderà. Aspettiamo. E poi può darsi che or ora s’affacci a qualche finestra. Aspettiamo.
Licenzio la vettura e mi metto a passeggiare innanzi alla casa alzando di tanto in tanto gli occhi alle finestre. Passa un quarto d’ora: niente! Invece bel bello mi vedo venire incontro per la stessa via Quirino Renzi, che conoscevo da poco tempo.
Ah ci vuol poco, lo so, a darmi dell’imbecille adesso, dopo il fatto - bella forza! Che ragione avevo io allora di supporre che quella signora poteva essere la moglie di Renzi, se non sapevo neppure ch’egli fosse ammogliato?

- Che fai qui? mi domanda lui.

Rispondo ridendo:

- Aspetto...

Lui strizza un occhio:

- Qualche avventura?

- No, ti giuro, un amico coi calzoni.

Lo vidi entrare, è vero, nello stesso portone dov’era entrata lei, ma quella, perdio, era una torre, una casa a sei piani. Ammesso che Renzi fosse ammogliato (ripeto non lo sapevo); ammesso che la signora fosse una legittima moglie (e stavo nell’idea che non fosse), in quella casa dovevano abitare per lo meno venti mariti: giusto il Renzi doveva essere?
Ma la probabilità che lui potesse entrarci in qualche modo non mi passò allora per il capo, nè anche lontanamente. Seguitai ad attendere ancora un pezzo, poi me ne andai senz’alcun sospetto della commedia che marito e moglie avevano architettata per punirmi innocente!
Eravamo insieme il giorno dopo io, Renzi e l’amico Barbarelli, anche lui ora scomparso. Fino, il Renzi! S’era procurato in persona del Barbarelli il prologo della commedia sapendo che questo ottimo giovane aveva, e non so se ha ancora, il vezzo di sospirar comicamente: - Ahimè! - dietro ogni bella donnina. Infatti, ne passa una, ed ecco Barbarelli emettere il suo sospiro. Allora, subito Renzi:

- Vedi? - gli dice - io, al posto di quella signora, parola d’onore, t’avrei lasciato andare un solennissimo schiaffo a edificazione di tutto un popolo.

Barbarelli sorride:

- Ma io sospiro per conto mio... Non è più permesso neanche di sospirare vedendo una bella signora?

Lascia andare! - incalza Renzi. - A Roma siamo ridotti al punto che una povera donna non può più uscir sola per via. È una vergogna! Giusto jersera una signora, amica di mia moglie, che abita su, al piano superiore, nella stessa casa dove abito io, ci narrava, vi assicuro proprio con le lagrime agli occhi, di un affronto patito nella stessa giornata. Schiaffeggiare, schiaffeggiare! - le ho detto io. - Lei, signora mia, doveva voltarsi e, al cospetto di tutta la gente, appioppare un sonoro schiaffo a quel mascalzone: - Le ho detto insolente... - m’ha risposto lei. Ah sì, ci vuol altro per voi, caro Barbarelli! Pitagora, tu che ne dici?

Io? Figuratevi come ero rimasto io. Aspettai che Barbarelli ci lasciasse, e poco dopo domandai al Renzi:

- Di’ un po’, come si chiama quella signora, amica di tua moglie?

- Perchè?

- Vorrei saperlo...

- Un’elettissima signora! - esclama Renzi. - È francese, ma da parecchi anni in Italia, si chiama Eulalia Dupuis...

E mi sciorina lì per lì una storia complicatissima e dolorosa, certamente combinata avanti (non stimo Renzi capace d’una improvvisazione di quel genere): il marito della signora morto per stravizi, dopo averla fatta soffrire crudelmente per sei anni; liti per l’eredità d’uno zio straricco con un cugino dissoluto aspirante alla mano di lei; persecuzioni, disperazione; fuga in Italia, dove la disgraziata signora, in attesa che la lite ancora pendente si risolva, è costretta a vivacchiare impartendo lezioni di lingua francese.
Confesso (trionfa, o Renzi!) che questa storia mi commosse tanto, che provai rimorso di quel che avevo fatto il giorno avanti. E poiché Renzi stimò opportuno di ripeter l’affronto di quel mascalzone ch’ero io, aggiungendo tra gli altri particolari che la signora, al suo consiglio di schiaffeggiare, gli aveva risposto che di gran gusto l’avrebbe fatto, se ne avesse avuto il coraggio.

- Davvero? Ci avrebbe gusto? - proruppi. - Ebbene se lo passi! Senti Renzi: quel mascalzone sono io.

- Tu? - E sgranò tanto d’occhi dalla meraviglia, il commediante!

- Io, io, sì: vedi che mi accuso... Ieri ti ricordi? tu mi hai visto...

- Ah, l’hai finanche inseguita?

- Sì, sì, confesso che ho scambiato quella signora per... tu m’intendi.

Renzi si fermò di botto a guardarmi; ma seppe contenersi; ingoiò la pillola e sghignò:
Perdio, che occhio fino e che fiuto!

- Hai ragione... Sono stato uno sciocco, anzi peggio... Ma tu sai, Renzi mio, ch’io piglio fuoco come uno fascio di paglia. Che penseresti, se ti dicessi che son mezzo innamorato, sul serio, di quella signora? È francese, hai detto? sarà donna di spirito... Ebbene, senti: voglio farmi dare lo schiaffo che tu le hai consigliato. Trova tu il modo; io poi troverò il modo di farmi perdonare.

E così il topolino andò a porsi da sè tra le granfie del gatto appostato. Il giorno dopo Renzi venne a dirmi ch’egli aveva ottenuto dalla signora la grazia di ricevermi quella sera stessa e che l’avrei trovata ben disposta a perdonarmi. Il brigante s’era messo d’accordo con una vecchia signora che abitava al piano di sopra la quale si era acconciata a rappresentar la parte di zia deva finta signora Eulalia Dupuis.
E la sera stessa, verso le otto, eccomi innanzi alla porta di lei, con la carta da visita in mano, già pentito, ma troppo tardi, dell’impiccio in cui m’ero messo. Le mie intenzioni? i miei progetti? Visto che la mia parte nella commedia era quella de l’imbecille, e che il Renzi e la sua signora avevano lavorato un bel po’ di fantasia per procurarsi vita natural durante quest’argomento di riso, ho voluto finanche dichiarar loro in seguito quali fossero le mie intenzioni nel recarmi a chieder perdono alla signora Dupuis. Ci avevo pensato nella notte e avevo finito per concludere: - Se tutto andrà bene e sarà sì, butto via quell’aula che non mi piace per niente e la chiamerò Lia, Lia! Lietta! bel nome... E me l’ero vista lì, accanto, nel letto: moglie, Dio ne liberi e scampi!
Ah come parla bene il francese la moglie di Quirino Renzi! E come fu amabile quella sera la signora Eulalia Dupuis! Tanto amabile, che, a un certo punto - figuratevi - non volendo ella darmi lo schiaffo che insistentemente io, già mezzo ebro, le chiedevo (eravamo soli nell’umile salottino della vecchia signora), le chiesi invece un bacio. Una donna che a tal richiesta si mette a ridere, non vi sembra una donna che vi dica: baciatemi? Ebbene, così feci io; ma ahimè, senza sentire nell’eccitazione, che mentre la baciavo ella divincolandosi strillava:

- Quirino! Quirino!

E Quirino irruppe nella stanza ridendo:

- Ah questo è un pò troppo, perbacco!

La mia faccia, in quel punto, s’immagina: non si descrive. Ma ora io dico, sì, ci sarà da ridere non lo nego: è un fatto però, caro Renzi, che tua moglie io l’ho baciata.

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NOVELLE PER UN ANNO - 1938 - "APPENDICE" - TESTI ESTRAVAGANTI

33. Disdetta (Continuazione e fine) (1898)

 

 

«Ariel», anno I, numero 13, 14 marzo 1898. Fernando [pseudonimo di Luigi Pirandello]

 


 

L’ho scontato, quel bacio, è vero; lo sconto tuttavia: ma l’ho baciata, ripeto.
Gli anni che Renzi passò a Roma, dopo il mio sciagurato equivoco, furono per me tanti anni di tortura. Marito e moglie vollero che frequentassi assiduamente la casa, e s’intende! Potevano rinunziare al divertimento che offrivo loro? Mi avevano, per così dire, vestito di ridicolo; dovevano rifarsi delle spese dell’abito, e del bacio.
E la signora Renzi fu chiamata Tupì, cara Tupì, dal marito, perchè pare che io pronunciassi così il cognome Dupuis, assunto da lei nella commedia. Il francese (non me ne vanto) lo conosco discretamente, ma forse lo pronunzio male: il naso non mi suona bene, un po’ intasato, come l’ho sempre. E Pitagora e Tupì fu il grazioso titolo d’un brutto scherzo comico in versi martelliani perpetrato da Quirino per render famosa negli annali della famiglia la memoria dell’avventura. Versi ZOppl ce n’erano parecchi, quaranta su cento per lo meno, ma che importa? Anche la gobba del figlietto sembra carina al padre; e Renzi ci teneva tanto a quella sua birbonata e la leggeva a tutti e la comentava in mia presenza; e tutti ridevano e ridevo anch’io, come una lumaca al fuoco.
V’immaginate poi l’imbarazzo mio, specialmente nei primi tempi di fronte alla signora? Quella donna sapeva bene, perdio, quanto mi piacesse le avevo fatto la mia brava dichiarazione d’amore (imbecille!), ero anche arrivato più in là, e avevo per giunta vagheggiato un’intera notte l’idea di farne la compagna della mia vita. E gli occhi, nel guardarla (o tentazione!) mi andavano sempre lì, nel posto in cui, tra lo schermirsi di lei, era caduto il mio bacio: su la guancia destra, presso l’occhio. E impallidivo.
Non è vero, domando io ora che non c’è poi tanto da ridere, in tutta questa storia? Eppure, ecco lì Tito Bindi e la sposina: saluti e sorrisi espressivi quasi ogni giorno. E anche la madre, la futura suocera, bruttò; arcigna vecchia, mi sorrideva ora.
Avrei voluto imbattermi qualche giorno da solo a solo nel Bindi, per domandargli se la presente felicità non gli offrisse alcun’altra cagione di riso, e in questo caso compatirlo ma non mi venne mai fatto. Desideravo inoltre da lui qualche notizia di Renzi e della signora.

Ma ecco, un bel giorno, arrivarmi da Forlì questo telegramma: «Brutti guaj, Pitagora! Sarò a Roma domattina. Pregoti accogliermi stazione, ore 8.20.» Firmato Renzi.
O come! pensai - ci ha qui il cognato, e vuol essere accolto da me? Feci su quel «brutti guaj » un mondo di supposizioni, tra le quali la più ragionevole mi parve questa: che Tito stesse per contrarre un pessimo matrimonio, e che Renzi venisse a Roma per tentare di mandarlo a monte.
Dopo circa tre mesi di saluti e di sorrisi confesso che per quella sposina nutrivo già un’antipatia irresistibile e qualcosa di peggio per la vecchia, arcigna madre.
Il domani, alle otto, ero alla stazione. E ora giudicate voi, se io non son davvero perseguitato da un destino buffone. Arriva il treno, ed ecco Renzi al finestrino d’una vettura: mi precipito... ah, maledizione! le gambe mi si piegano, mi cascano le braccia, come se qualcuno a un tratto mi avesse dato un gran pugno su gli occhi...

- Ho con me il povero Tito... - mi fa Renzi additandomi pietosamente il cognato!

Tito Bindi, quello lì? Come? E chi avevo io dunque salutato tre mesi per le vie di Roma? Eccolo là, Tito! Ah, Dio mio, in quale stato ridotto!

- Tito, Tito... ma come!... tu... - balbetto.

Egli mi butta le braccia al collo e scoppia in pianto dirotto... Perchè? Guardo a bocca aperta Renzi. Mi sento impazzire. Ma Renzi mi accenna con una mano alla fronte e sospira, chiudendo gli occhi, come per dirmi: «È leso di mente... ». Chi? lui, io o Tito? Chi è leso di mente?

- Su, via, Tito, sii buono! - fa Renzi al cognato. - Aspetta un po’ qui tieni d’occhio queste valige... Io vo con Pitagora a ritirare il tuo baule.

E, andando, mi narra sommariamente la storia miseranda del povero cognato, che da circa due anni e mezzo aveva preso moglie a Forlì: gli eran nati due bambini uno dei quali dopo quattro mesi era accecato; questa disgrazia, l’impotenza di provvedere adeguatamente con l’arte sua ai bisogni della famiglia, le continue liti con la moglie sciocca ed egoista gli avevano sconcertato il cervello. Ora Renzi lo conduceva a Roma per farlo visitare dai medici e divagarlo un po’.
Se non avessi visto con gli occhi miei Tito ridotto in quello stato, avrei senza dubbio creduto che Renzi volesse giocarmi qualche altro tiro. Tra lo stordimento e la pena gli confesso allora il nuovo equivoco in cui ero caduto, come io cioè, fino al giorno avanti, avessi salutato Tito promesso sposo per le vie di Roma. Renzi si mette a ridere.

- T’assicuro! - gli faccio io. - Tal quale! Tito purus et putus! Da tre mesi ci salutiamo e ci sorridiamo: siamo divenuti amiconi... Ora sì, ora noto la differenza! Ma perchè Tito, poveretto, s’è ridotto in quello stato... Quello che saluto io quasi ogni giorno è invece Tito com’era prima che partisse per Forlì, tre anni or sono... Figurati l’impressione che mi ha fatto vederlo così, ora, dopo averlo veduto jeri, verso le quattro, felice e raggiante con la sposina accanto...

La mia disdetta vuole che di quello che sento io nessuno mai debba o voglia tener conto: l’impressione provata da me alla vista del povero Tito era dolorosa, è vero? ebbene Renzi il cognato stesso, innanzi al bagagliajo, si teneva i fianchi dai troppo ridere. E poco dopo, per distrarre il malato, gli volle raccontare quest’altra avventura mia. E ci ho gusto: ne nacque quel che ne nacque.
Il poveretto, alienato. rimase in prima stranamente colpito dal mio abbaglio; ci lavorò su un pezzo con la fantasia sbalestrata, durante il tragitto dalla stazione all’albergo, e alla fine, afferrandomi un braccio, con tanto d’occhi sbarrati, confitti nei miei, mi gridò:

- Pitagora, hai ragione!

Io mi spaventai; mi provai a sorridergli:

- Che cosa, caro Tito?

Hai ragione! - ripetè egli senza lasciarmi, ilarandosi in volto. - Non ti sei ingannato! Quello che tu saluti sono io, Pitagora, proprio io, che non ho mai lasciato Roma; io giovane, bello, libero e felice, come tu ogni giorno mi vedi e mi saluti... Ah sì sì, abbiamo fatto un brutto sonno, Quirino mio! Dammi un bacio! Io non ho moglie, non ho figliuoli... Qui c’è Pitagora che te lo può dire... È vero Pitagora? È vero che tu m’incontri ogni giorno per le vie di Roma? E che faccio io a Roma? Dillo a Quirino... Faccio il pittore, ad onta della gente cretina che non mi vuol mai comprare un quadro... Ma non importa! Viva la gioventù! Noi due siamo scapoli... ancora scapoli...

- E la sposina? - mi lasciai scappare disgraziatamente, senza avvertire che Renzi, per prudenza, poco fa, nel raccontargli l’equivoco, aveva tralasciato questo particolare.

Il volto di Tito s’abbujò a un tratto. Mi riafferrò, questa volta per tutt’e due le braccia:

- Come! Prendo moglie un’altra volta?

- Ma che! - gli faccio io, subito, a un cenno di Renzi. - Ma che, caro Tito! So bene che tu scherzi con quella fanciulla...

- Scherzo? e faccio male! malissimo! - incalzò Tito. - Non bisogna scherzare... Si comincia sempre così, Pitagora mio! E poi... e poi...

Scoppiò di nuovo in pianto, coprendosi il volto con le mani. Invano io e Renzi cercammo di quietarlo, di consolarlo: - No, no! - ci rispondeva egli. - Se prendo moglie anche qui a Roma, che sarà di me? Vedi come mi sono ridotto a Forlì, caro Pitagora? A ogni costo a ogni costo bisogna impedirlo, subito! Anche lì ho cominciato scherzando...

- Ma noi siamo qui per pochi giorni, - gli disse Renzi. - Il tempo di contrattare con due o tre signori per l’acquisto dei tuoi quadri, come s’era rimasti. Ce ne torneremo subito a Forlì...

- E non giova a nulla! - rispose Tito con un gesto disperato delle braccia. - Ce ne torneremo a Forlì, e Pitagora continuerà pur sempre a vedermi qui a Roma... Né può essere altrimenti! Perchè standomene lì, io vivo sempre a Roma, Quirino mio, sempre. Negli anni miei belli, scapolo, libero, felice... come Pitagora appunto m’ha visto, jeri stesso, è vero?... Eppure jeri noi eravamo a Forlì: vedi che non dico bugie...

Commosso, esasperato Quirino Renzi squassò il capo e strizzò gli occhi per frenar le lagrime: fin adora la pazzia del cognato non gli si era rivelata in così disperate proporzioni.
Lo conducemmo fuori per divagarlo; ma per via, man mano che egli si calmava riconoscendo i luoghi, un’inquietudine angosciosa s’impossessava di me. Se per disgrazia - pensavo - ci avvenisse d’imbatterci in quell’altro! E la mia inquietudine cresceva di punto in punto, nel vedere che Tito già in preda a un’affliggente gaiezza, girava gli occhi di qua e di là per ogni verso, instancabilmente. Lo riconoscerebbe senza dubbio, - dicevo tra me guardandolo: - La somiglianza è straordinaria! E poi con quelle scarpe che strinano a ogni passo quel bestione lì fa voltar tutta la gente... - E mi pareva di sentir da un momento all’altro dietro a me il dri dri dri di quelle scarpe.
Poteva il caso non avvenire? Manco a dirlo! Avvenne il domani, quando meno me l’aspettavo. Renzi era entrato in un negozio, e io e Tito lo aspettavamo innanzi al Caffè Aragno. Io guardavo impaziente il negozio donde Renzi doveva uscire, e ogni minuto d’attesa, lì fermi, mi sapeva un’ora: a un tratto mi sento tirar per la giacca e vedo Tito con la bocca aperta a un sorriso muto di beatitudine e con due grosse lagrime che gli gocciavano dagli occhi chiari e lucenti. Lo aveva scorto! e me l’additava lì, a due passi, solo, fermo su lo stesso marciapiedi.
Mettetevi un po’ una volta nei panni miei, senza ridere! Quel signore, nel vedersi guardato e additato a quel modo, si turbò; ma poi, accorgendosi di me, mi salutò al solito. Io mi provai a fargli un cenno, mentre coll’altra mano cercavo di portarmi via Tito. Non ci fu verso!
Per fortuna colui aveva compreso il mio cenno e sorrideva; aveva però compreso soltanto che il mio compagno era pazzo: non si era affatto riconosciuto nelle fattezze di Tito, mentre questi, sì, subito, in quelle di lui. E gli si era accostato e lo contemplava estatico e lo accarezzava nelle braccia e nel petto, pian piano, susurrandogli: - Come sei bello... come sei bello... Questo è il nostro caro Pitagora...
Quel signore mi guardava e sorrideva nell’imbarazzo; io per tranquillarlo gli sorrisi addolorato. Non l’avessi mai fatto! Tito notò quel nostro sorriso e, sospettando subito qualche inganno, si rivolse minaccioso a colui:

- Non prender moglie, imbecille: mi rovini! Vuoi ridurti come me? Lascia quella ragazza, non ci scherzare... Tu non hai esperienza...

E giù un diluvio di parole, tra gesti concitati... La gente cominciava a far siepe intorno quando Renzi accorse e a viva forza si trascinò via il cognato.
Vi risparmio le risa di quel signore, allorchè io, poco dopo, gli spiegai ogni cosa. Eppure, non so, mi parve ch’egli ridesse male, che non ridesse tanto di cuore... Quasi ferito nell’amor proprio, mi domandò:

- Ma mi somiglia proprio tanto?

- Ah ora no! - gli risposi. - Ma se Lei lo avesse visto prima, tre anni fa, scapolo, qui a Roma...

- Speriamo allora, che fra tre anni, - fece il signore - io non debba ridurmi come lui.

- Ah, no davvero! - gli augurai io. - Intanto guardi: finora io La ho salutata per Tito Bindi... vorrei aver l’onore, or che l’equivoco è chiarito, di salutarla col Suo vero nome. Eccole la mia carta da visita.

E sono stato sciocco una volta di più!
Prima almeno questo signore rideva di me senza sapere come mi chiamassi. Ora lo sa, e può dire: Rido proprio di te, Camillo Bandoni!
E meno male, alla fin fine, che non mi chiama Pitagora anche lui!

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Difetti (Teasdale)

Post n°658 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Vennero ad elencarmi i tuoi difetti_
ad uno ad uno, li dissero tutti;
risi forte quando ebbero finito:
li conoscevo tutti a menadito.
Erano troppo ciechi per capire
che i tuoi difetti accrescono il mio amore.

 
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Libri dimenticati:La Storia

Post n°657 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Protagonista di questo bellissimo romanzo della Morante è Useppe,un bambino furtto dello stupro di un soldato tedesco ai danni di Ida,maestra elementare vedova e già madre di un ragazzo,Nino.
Attarverso gli occhi di Useppe assisitiamo alla guerra,alle varie traversie di questa famiglia,alla tragedia della morte di Nino.
Memorabile la figura di Bella,il cane fedele compagno di questo bambino dolcissimo e dal destino segnato

 
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Frase del giorno

Post n°656 pubblicato il 08 Settembre 2011 da odette.teresa1958

L'uomo non concede se stesso agli angeli e nemmeno interamente alla MOrte se non quando si indebolisce la sua volontà (Glanvill)

 
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