Messaggi del 09/09/2011

Pietropazzo

Post n°677 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

i racconta che una volta, tanto tempo fa, c'era nell'Isola dei Cavoli una casa piccina in cui viveva una vedova con un solo figlio un po' matto, ed erano così poveri che spesso non avevano nulla da mangiare. Il figlio, grande, grosso e sgraziato, si chiamava Pietro, ma tutti lo chiamavano Pietropazzo.
Siccome Pietro di mestiere faceva il pescatore, tutti i giorni andava a pescare e lo faceva dalla mattina alla sera, ma era tanto sfortunato che non pigliava mai nulla. Quando tornava a casa, di lontano cominciava a gridare:

Corri mammetta con pentoloni,
vasi, secchielli, boccioni,
ecco Pietro con tanti pescioni!


La sua mamma, credendo che finalmente avesse preso qualcosa, correva in casa a cercare i recipienti e li metteva in fila sull'uscio, ma Pietro non aveva nemmeno un pesciolino e la prendeva in giro piegandosi in due dalle risate, e facendo le boccacce tirava fuori la lingua che era lunga un palmo.
Lì vicino c'era il palazzo del re dell'Isola dei Cavoli, che aveva una figlia ancora bambina, la principessa Giulia, bellissima e piena di grazia. Quando sentiva Pietropazzo che arrivava gridando:

Corri mammetta con pentoloni,
vasi, secchielli, boccioni,
ecco Pietro con tanti pescioni!


correva alla finestra e si divertiva tanto che moriva dal ridere. Quando Pietro vedeva che lo prendeva in giro si infuriava e gliene diceva di tutti i colori, ma Giulia vedendolo così goffo e arrabbiato rideva ancora di più.
Questa scena si ripeteva ogni sera da tanto tempo, quando un giorno il povero Pietro pescò un enorme Pescetonno. Era tanto contento che saltellava e ballava sulla spiaggia, cantando:

Buona cenetta
a Pietro e alla mammetta!
Buona cenetta
a Pietro e alla mammetta!


Ma il pescetonno, quando si vide in trappola, parlò così:

Fratel Pietro, per cortesia,
libera me dalla prigionia!
Quando il mio corpo sfamato ti avrà,
avrai vinto la tua povertà?


Pietro scosse la testa: aveva bisogno di mangiare il pesce, non di stare a sentire le sue chiacchiere. Così se lo caricò sulle spalle e prese la strada di casa, ma dopo un po' che camminava il pesce gli disse:

Fratel Pietro, se mi volessi di grazia salvare,
ti darei tutti i pesci che nuotano in mare!


Pietro continuò a camminare verso casa, e il pescetonno che ormai si sentiva mancare il fiato, con un filino di voce gli parlò ancora:

Il pesce magico non devi ammazzare
se quel che desideri vuoi realizzare...


Pietropazzo sentiva un po' di compassione per il gran pesce moribondo, e incuriosito per i suoi discorsi tornò in riva al mare e spingendolo con le mani e con i piedi riuscì lo rimise in acqua. Lì per lì il Pescetonno scomparve, perché doveva riprendersi, ma poi tirò la testa fuori dall'acqua e disse:

Prendi la barca e comincia a remare
vedrai quanti pesci ti faccio pescare


Pietro lo fece, e quando si fu allontanato dalla riva il pesce gli disse di inclinare la barca finché il bordo sfiorasse il pelo dell'acqua: allora innumerevoli pesciolini e pescioloni di tutte le specie saltarono nella barchetta di Pietro riempiendola fino a farla quasi affondare, ma lui non pensava al pericolo e non stava nella pelle dalla gran contentezza. Tornato a riva, si caricò sulle spalle una enorme quantità di pesci e corse verso casa, gridando:

Corri mammetta con pentoloni,
vasi, secchielli, boccioni,
ecco Pietro con tanti pescioni!


Quella sera la mamma, che non ce la faceva più a sopportare gli scherzi del suo figliolo matto, voleva far finta di nulla, ma quando lo sentì avvicinarsi con la solita filastrocca cambiò idea, e corse a preparare i recipienti davanti all'uscio. Come fu contenta quando vide Pietro che li riempiva tutti! e siccome non bastavano, lui e la sua mamma correvano di qua e di là a prendere pentolini, tazze, bicchieri, vasi da notte, catinelle, mentre i pesci di ogni specie guizzavano dappertutto.
La principessa Giulia, che come al solito era alla finestra, vedendolo così goffo e indaffarato rideva ancora più del solito; Pietropazzo sentendo le sue risate alzò gli occhi, la vide e sentì una rabbia terribile, ma invece di dirle le solite parolacce corse in riva al mare e si mise a chiamare il Pescetonno.
Sentendo la sua voce il pesce accorse, mise la testa a fior d'acqua e disse: "Messer Pietro, gentil pescatore, che desideri?"
Pietro rispose:
"Che la principessa aspetti un bambino
e che sia proprio il mio figliolino"
Con un cenno della testa il Pescetonno gli fece capire che il suo desiderio era realizzato, e Pietropazzo tornò a casa, dove, scapato com'era, non ci pensò più.

Dopo qualche tempo alla principessa Giulia cominciò a crescere la pancia, ma sua madre non pensò che fosse incinta, perché era poco più che una bambina, e fece venire le donne più esperte in queste cose perché la visitassero e vedessero se aveva qualche grave malattia. Le donne non ebbero dubbi e dissero che Giulia stava benissimo e al momento giusto avrebbe avuto un bambino.
La regina si sentì morire, e dovette andare a dirlo al re, che per poco non svenne per questo duro colpo. Poi in segreto fece tutte le indagini per scoprire chi era stato, ma inutilmente; pensò di uccidere la principessa, ma la regina che le voleva tanto bene lo supplicò di aspettare almeno il parto, e siccome anche il re amava la sua unica figlia si lasciò convincere. Quando fu il tempo, nacque un bambino tanto bello che il re non ebbe cuore di far eseguire la sentenza di morte, e decise di aspettare un altro anno, avendo in mente di indagare ancora per scoprire chi era stato a violare la principessa. Il bambino cresceva bello e forte, ed era così allegro che non se ne trovava uno che gli stesse a pari; quando ebbe un anno il re, sperando di scoprire suo padre, ordinò che tutti i maschi dell'Isola dei Cavoli, belli e brutti, giovani e vecchi, poveri e ricchi, venissero a palazzo portando un frutto o un fiore, o qualche altra cosa che potesse far piacere al bambino.
Così arrivavano tutti portando qualcosa, passavano davanti al re e poi andavano a sedersi secondo la loro posizione.
Mentre andava al palazzo reale un giovane si imbattè in Pietropazzo, e gli disse:
"Dove vai Pietro? Perché non vieni al palazzo come tutti con un frutto o un fiore, e non obbedisci al comando del re?".
Pietro rispose: "E che vuoi che ci faccia io in mezzo a quella bella compagnia? Non vedi che sono povero, non ho nemmeno una veste per coprirmi, e vorresti che io mi mettessi fra tanti signori e cavalieri? Non voglio venire".
Allora il giovane prendendolo un po' in giro gli disse: "Vieni con me, ti darò io una veste: chissà che il bambino non sia tuo?".
Così Pietropazzo andò a casa del giovane e si vestì, poi colse una mela e andò con lui al palazzo, salì le scale ma si mise dietro un uscio, in modo da rimanere nascosto e non farsi vedere da nessuno. Quando tutti furono giunti e si furono messi a sedere, il re ordinò che portassero il bambino nella sala, pensando che se c'era il padre la voce del sangue lo avrebbe tradito. Venne la balia con il bambino in braccio e tutti lo accarezzavano, porgendogli chi un fiore, chi un frutto, chi l'uno e l'altro, ma il bambino li respingeva con la manina. La balia che passeggiava avanti e indietro passò anche vicino all'uscio del palazzo, e in quel momento a Pietro cascò di mano la mela, che rotolò in terra.
Il bambino ridendo si piegò con la testa e con tutto il corpo per prenderla, tanto che per poco non cascava dalle braccia della balia, ma lei non ci fece caso e continuava ad andare di qua e di là, finché non capitò ancora vicino all'uscio e il bambino rise festoso indicando la mela. La balia la raccolse e gliela diede, il re se ne accorse e domandò alla balia chi c'era dietro a quell'uscio, e lei rispose che c'era un mendicante. Il re lo fece chiamare e guardandolo da vicino lo riconobbe, mentre il bambino aprì le braccine e si buttò al collo di Pietropazzo coprendolo di baci.
Vedendo questo il re sentì che si raddoppiava il suo dolore, e mandati tutti gli altri a casa condannò a morte Pietropazzo con sua figlia e il bambino.
La regina allora, saggia e prudente, gli disse che non era bene che un re si macchiasse del sangue del suo sangue, era meglio che ordinasse una botte, grande il più possibile, per metterceli dentro e buttarli in mare, perché senza troppo patire andassero al loro destino.
Al re piacque il consiglio e dopo aver fatto fare la botte e averceli messi dentro tutti e tre con una cesta di pane, un fiasco di buona vernaccia e un barile di fichi per il bambino, li fece buttare in alto mare, pensando che battendo contro qualche scoglio sarebbero annegati.

La povera principessa si sentiva sbattere violentemente dalle onde del mare in tempesta, e non vedendo né il sole né la luna piangeva a dirotto per la sua sciagura. Non avendo latte per il bambino che spesso si metteva a piangere, gli dava da mangiare i fichi, e così lo addormentava, Pietro invece non si preoccupava di nulla e pensava solo a mangiare pane e a bere vernaccia, finché vedendolo così Giulia disse:
"Oh, Pietro! Tu vedi come io che sono innocente subisco questa pena per colpa tua, e tu ridi come un pazzo, e mangi e bevi, senza pensare che pericolo corriamo".
Pietro le rispose: "Non è colpa mia se ci è successo quello che ci è successo, la colpa è tua, perché mi ridevi dietro e mi prendevi sempre in giro. Ma sii contenta, perché presto usciremo dalla botte".
"Credo che tu dica bene", disse Giulia, "che usciremo dalla botte, perché si romperà su uno scoglio e noi annegheremo".
"Zitta," disse Pietro, "perché io ho un segreto, che se tu lo sapessi resteresti a bocca aperta dalla meraviglia, e forse ti piacerebbe".
"Ma che segreto hai Pietro," disse lei, "che possa tirarci su e liberarci da questo pericolo?"
"Io ho un pesce," disse Pietro,"che fa quello che io comando e non c'è nulla che non farebbe se sapesse che si rischia di morire, è stato lui a farti rimanere incinta del mio bambino".
"Questa cosa è proprio bella", disse Giulia, "se davvero è come dici. Ma come si chiama il pesce?",
"Si chiama Pescetonno", rispose Pietro,
"Comandagli di obbedire a me come obbedisce a te", disse la principessa, "digli di fare quello che io gli dirò".
"Sia fatto secondo i tuoi desideri", disse Pietro, e immediatamente chiamò il Pescetonno e gli comandò che eseguisse tutto ciò che Giulia gli chiedeva.
La principessa, appena ebbe la virtù di comandare il Pescetonno, prima chiese che facesse approdare la botte su uno degli isolotti più belli e più tranquilli che c'erano nel reame di suo padre, poi volle che Pietro, da brutto e pazzo, diventasse il giovane più bello e saggio che ci fosse al mondo. E poi chiese ancora che sullo scoglio fosse costruito un ricchissimo palazzo, con logge, sale e stanze meravigliose, e che dietro avesse un giardino ameno e ricco di alberi sui quali al posto dei frutti crescessero gemme e preziose perle, infine comandò che in mezzo al giardino ci fosse una fontana dalla quale si potessero attingere alternatamente acqua freschissima e vino prelibato.
In un batter d'occhio tutti i comandi furono eseguiti.
Intanto il re e la regina erano pieni di malinconia per la solitudine in cui si trovavano senza la loro unica figlia, e pensavano che col suo bambino fosse già stata divorata dai pesci, così decisero di partire per un pellegrinaggio sperando di alleggerire un po' il peso che sentivano in cuore. Fecero preparare una bella nave con tutto il necessario e si misero in mare, spinti da un vento favorevole. Non era tanto che erano partiti quando videro di lontano un palazzo ricco e nobile eretto su un isolotto, e siccome era nel loro reame vollero visitarlo, fecero accostare la nave, gettare l'ancora, e scesero a terra.
Appena li videro arrivare, Pietropazzo e Giulia corsero loro incontro, e li accolsero bene, ma il re e la regina non li riconobbero, perché erano molto cambiati. Entrarono nel palazzo e lo visitarono dappertutto, ammirandolo e lodandolo molto, poi scesero per una scala segreta e andarono nel giardino, che colmò di meraviglia il re e la regina dell'Isola dei Cavoli: dissero che in tutta la loro vita non avevano mai visto nulla di tanto incantevole.
Nel giardino c'era un albero dal quale pendevano tre mele d'oro che scintillavano al sole, custodite a vista da un guardiano per ordine della principessa, ma chissà come una mela d'oro finì in seno al re senza che se ne rendesse conto.
Quando il re voleva ripartire, il guardiano andò da Giulia e le disse:
"Signora, manca una delle tre mele d'oro, la più bella, e non riesco a capire chi l'ha rubata".
Allora Giulia ordinò al guardiano di frugare tutti con attenzione, perché era una cosa troppo preziosa; il guardiano lo fece, ma inutilmente, e Giulia fingendosi in collera disse:
"Maestà, perdonami ma si dovrà cercare anche addosso a te, perché la mela d'oro che manca ha un valore immenso, per me superiore a quello di qualunque altro frutto".
Il re che non sapeva cos'era successo, essendo sicuro di non averlo preso, si sciolse subito la veste: ed ecco che ne uscì la mela d'oro rotolando ai suoi piedi. Vedendo questo il re rimase attonito e non riusciva più a parlare, non sapeva come il frutto prezioso gli fosse entrato in seno.
Allora la principessa disse: "O re, noi ti abbiamo festeggiato e accolto molto cortesemente, con tutti gli onori che merita la tua maestà, e tu per ricompensarci di questa accoglienza ci rubi di nascosto un frutto del giardino. Io dico che mi sembri molto ingrato".
Il re che era innocente si sforzava per convincerla che lui non aveva rubato nulla, e Giulia, vedendo che era il momento di svelarsi si commosse, e con le lacrime agli occhi disse:
"Mio signore, sappi che io sono Giulia, la tua sola figlia, che infelice buttasti in mare con Pietropazzo e il suo bambino condannandoci crudelmente a morte. Questo è il bambino innocente che ho avuto senza colpa, e questo è Pietropazzo, diventato molto saggio per la virtù di un pesce che si chiama Pescetonno, che ha fatto costruire questo nobile e meraviglioso palazzo. E' stato lui a farti scivolare, senza che te ne rendessi conto, la mela d'oro in seno. E' stato lui che senza abbracciarmi, ma per effetto di un incantesimo mi ha messo incinta, e io ne ero innocente, come tu sei innocente del furto della mela d'oro".
Allora tutti scoppiarono a piangere di gioia e abbracciandosi e baciandosi fecero una grande festa. E dopo qualche giorno di festa salirono insieme sulla nave e tornarono all'Isola dei Cavoli, dove Pietropazzo per prima cosa volle andare ad abbracciare la sua mammetta.
Nessuno può dire la gioia della povera vecchia, che lo piangeva morto annegato, e invece se lo vide davanti bellissimo e saggio, e da allora andò a vivere nel palazzo reale.
Per molto tempo durarono le feste per il loro ritorno nell'Isola dei Cavoli, e da allora Pietropazzo e Giulia vissero felici e di buon accordo, ascendendo al trono e regnando a lungo in pace e prosperità.



di Gianfrancesco Straparola

 
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La pietra del gallo

Post n°676 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta nella città di Grottanera un tale che si chiamava Mineco: tutta la sua ricchezza era un galletto, ma un giorno, che aveva una fame da non vederci più, decise di andare a venderlo al mercato.
Là trovò due maghi che glielo comprarono: gli dissero però di portarlo fino a casa perché non avevano soldi con loro. I due maghi si avviarono, lui era dietro ed il gallo in mano e li sentiva parlare tra loro:
"Chi l'avrebbe detto che avremmo avuto quest'incontro. Questo gallo sarà la nostra fortuna, con la pietra che ha in testa; la faremo subito montare su di un anello e potremo avere quello che vogliamo".
"Zitto", disse l'altro, "che ancora non ci credo. Siamo ricchi! Non vedo l'ora di spaccar la testa al gallo!".
Mineco, capito di che si trattava, voltò per una stradina, prese il largo, e arrivò dritto dritto a casa sua. Qui torse il collo al gallo e, apertali la testa trovò una pietra; la fece montare su di un anello di ottone, e poi chiese:
"Voglio diventare giovanotto".
Appena pronunziate queste parole il sangue gli tornò più vivo, i nervi più saldi, i muscoli più forti, le gambe più ferme, i capelli d'argento si fecero d'oro, la bocca si riempì di bei denti bianchi, insomma divenne un bellissimo giovane. Allora continuò:
"Desidero un palazzo magnifico e la figlia del re per sposa".
Ed ecco comparire un palazzo ricchissimo con statue e colonnati, l'argento riluceva dappertutto, l'oro si calpestava a terra, brulicava di servitori, cavalli e carrozze a bizzeffe. Tanto che il re che si era accorto di tanta magnificenza decise di dare in moglie sua figlia a quel signore.
Ma i maghi, che conoscevano l'origine di tanta fortuna, decisero di toglierla di mano a Mineco. Costruirono una bella bambola che si muoveva tutta, rideva e piangeva, e andarono dalla figlia di Mineco, per venderla. La bambina chiese quanto volevano, loro risposero che non c'era prezzo che poteva pagarla, ma gliel'avrebbero data se avesse fatto loro il piacere di mostrare come era montato l'anello del padre, che ne volevano uno uguale.
La bambina accettò subito e disse di tornare l'indomani che si sarebbe fatta dare l'anello.
Così la sera la bambina disse al padre tante cosine dolci e gli fece tante carezze che lui acconsentì a prestargli l'anello.
Il giorno dopo i maghi avuto l'anello sparirono in un baleno, andarono in un bosco e tolsero l'incantesimo al vecchio ringiovanito.
Mineco che in quel momento stava chiacchierando con il re, cominciò ad arruffarsi tutto, poi i capelli sbiancarono, la faccia raggrinzì, la bocca si sdentò,la gobba si alzò e gli abiti divennero stracci.
Il re vedendo quel vecchio pezzente conversare con lui lo fece cacciare a male parole e quando il povero Mineco andò dalla figlia e si sentì raccontare la burla che gli avevano fatto, per poco non si buttò giù dalla finestra per la disperazione.
Poi decise di andare a cercare i maghi per riprendersi il suo anello.
E cammina cammina arrivò nel regno dei topi, Buconero; ma lì fu preso per una spia dei gatti e fu portato davanti al re, che gli chiese chi era e da dove veniva.
Mineco tirò fuori dalla sua bisaccia un gran pezzo di lardo per il re, poi, raccontò tutta la sua storia e concluse che non avrebbe avuto pace finché non trovava i due maghi col suo anello, che lo avevano derubato tutto insieme della bellezza, della gioventù e dell'amore.
A questo racconto il re si sentì muovere a pietà e chiamò i topi più vecchi a consiglio chiedendo il loro parere attorno alla disgrazia di Mineco. Per fortuna c'erano lì due topi che avevano vissuto a lungo nelle cantine di una locanda che dissero:
"Stai allegro amico, le cose vanno meglio di quanto tu creda. Un giorno che eravamo nell'osteria passarono due uomini che raccontavano di uno scherzo fatto a un vecchio di Grottanera, a cui avevano trafugato una pietra di grandi virtù".
Mineco chiese ai due topi di accompagnarlo nel paese dei maghi per fargli recuperare l'anello, e per ricompensa avrebbe dato loro un'intera forma di formaggio e carne salata in quantità. I due furono d'accordo e partirono.
Dopo un lungo viaggio arrivarono alla casa dei maghi e videro che il più vecchio non si toglieva mai l'anello dal dito.
Quando sopraggiunse la notte, i maghi dormivano, i topi entrarono nella casa e cominciarono a rosicchiare il dito su cui era infilato l'anello. Il mago, sentendosi dolere si tolse l'anello dal dito e lo ripose sul comodino; il topo allora se lo mise in bocca e in quattro salti fu da Mineco; questi subito subito fece tramutare i due maghi in asini: su uno montò e l'altro lo caricò di formaggio e carne per i topi, e tornò a Buconero.
Dopo aver ringraziato il re e suoi consiglieri ritornò a Grottanera più bello di prima e fu accolto dal re e dalla principessa con le migliori carezze del mondo.


 
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Un grattacielo in mare

Post n°675 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Forse non sarò creduto: ho visto, una notte, a Genova, un grattacielo partire per mare come un transatlantico.
Stavo sulla terrazza del mio albergo e guardavo il porto. Nel porto un transatlantico, alto come un grattacielo, spiccava con le sue mille luci sulla folla più bassa dei mercantili, dei rimorchiatori, dei vaporetti.
Una sirena ululò, da qualche punto di quell'immenso groviglio di alberature, di ciminiere, di scafi oscuri ed immobili.
Non si può udire quel suono senza desiderare di partire per il mondo, incontro ai larghi spazi del mare e del cielo. E' un desiderio struggente, che riempie il corpo e l'anima. Lo si sente perfino nei piedi. Ma stavo per dire "nelle radici". Viene voglia di strappar su le proprie radici e di andare a ripiantarsi altrove, lontano, lontano.
Non ho mai potuto dormire tranquillo, di notte, a Genova.
Così, me ne stavo sulla terrazza e la sirena chiamava, chiamava.
I grattacieli hanno orecchie per sentire? Non so, non domandatelo a me. Hanno in cima, proprio sulla testa, sopra l'ultimissimo piano, una foresta di antenne televisive. Captano le onde elettromagnetiche. Perché non dovrebbero captare il richiamo di una sirena?
La sirena chiamava, chiamava.
Il grattacielo si scosse sulle sue radici.
Hanno radici i grattacieli? Mi figuro di sì. Debbono averle. Forse sono le tubature dell'acqua e del gas, i cavi elettrici, i cavi telefonici: tutto un groviglio metallico che serpeggia dentro e sotto le loro fondamenta.
Sulle prime credetti che fosse il transatlantico. Una colonna immensa, bucata qua e là, disordinatamente, a diverse altezze, da finestre illuminate, scivolava lenta e solenne sull'acqua cupa prendendo il largo.
Guardai meglio. Il transatlantico era sempre al suo posto. Il grattacielo non spiccava più sui tetti della città. Il gran pastore di cemento armato e di vetro aveva abbandonato il suo gregge di case. Il grattacielo se ne andava per mare.
Forse avrei dovuto chiamare il portiere dell'albergo, avvertire la polizia, i vigili del fuoco, non so. Invece rimasi lì, incollato al parapetto, affascinato dallo spettacolo.
Il grattacielo uscì dal porto e si diresse, così mi parve, verso la Riviera di Levante. Ma quasi subito, con un'ampia curva, mutò direzione e puntò verso Ponente.
- Se ne va in Francia? - mi chiesi. - Senza passaporto?
Mi venne da ridere. Mi figuravo il motoscafo dei doganieri inseguire il grattacielo, domandargli i documenti.
- Ha qualcosa da dichiarare? Trasporta merci preziose?
- Preziosissime, direi: mezzo migliaio di persone addormentate, tra cui non pochi bambini.
- Ci dispiace: dobbiamo fare una perquisizione a bordo.
- Sì, ma non fate rumore: al quindicesimo piano c'è un signore ammalato, è appena riuscito a prender sonno. Al ventesimo c'è uno studente che prepara un esame difficile: vedete un po' se potete convincerlo a mettere da parte i libri e a farsi una dormitina. Prima la salute, non vi pare?
- Insomma, fermate le macchine e fateci salire.
- Quali macchine? Guardate pure: c'è solo la caldaia termosifone.
- Gettate le ancore!
- Ci mancherebbe che gettassi via tutti i miei cavi: lo sapete che al decimo piano aspettano una telefonata importante da New York? Questi genovesi sono così: levategli il gusto di lavorare a qualsiasi ora, e subito per il dolore gli verrebbe, a dir poco, il mal di gola.
- Alt! Alt! Non potete tornare indietro!
- Non posso? Vorrei vedere anche questa. Date un'occhiata al cielo, per favore. No, non da quella parte: dalla parte di Levante. Vedete quel pallido grigiore laggiù? La notte sta per finire. Debbo entrare in servizio prima che arrivi il garzone del lattaio. Se si accorge che di notte me ne vado a spasso per mare, prima di sera lo saprà tuta Genova. Io non ci tengo, sapete? Sono un grattacielo disciplinato e rispettoso. Almeno di giorno, si capisce.
- E di notte?
- Di notte è un'altra cosa. Di notte mi figuro di essere un transatlantico anch'io. Mi figuro di partire, di andare lontano. Noi genovesi siamo famosi per andare lontano. Avete mai sentito parlare di Cristoforo Colombo?
Il grattacielo stava tornando in porto, filando, a occhio e croce, i suoi dieci nodi. Aveva fretta di rincasare, si vede.
Mi aggrappai al parapetto quasi temendo che qualcuno mi portasse via: per nulla al mondo avrei voluto perdere lo spettacolo del grattacielo che tornava a prendere posto sulle sue fondamenta, per aspettare l'arrivo del lattaio, del giornalaio, del garzone panettiere con la cesta della focaccia fresca: la famosa "fugassa" ligure.
Purtroppo alle mie spalle, nella stanza, squillò il telefono.
- Pronto, - dissi meccanicamente, senza lasciare il mio posto di osservazione.
Il telefono continuò a squillare. Se non volevo che si svegliassero i vicini di camera, dovevo rispondere. Corsi ad alzare la cornetta:
- Buongiorno, signore, sono le sei.
La sveglia. Maledizione, ero stato proprio io ad avvertire il portiere che mi svegliasse alle sei. Mica che io mi alzi così presto. Ma mi piace leggere un'oretta o due a letto, la mattina, prima di cominciare la giornata.
Ringraziai e tornai di corsa sul terrazzo.
Il grattacielo era già al suo posto, alto sulla folla dei tetti comuni: e ammiccò furbescamente nella mia direzione, con una finestra che proprio in quel momento si accese e tornò a spegnersi. Qualcuno certo si era destato, aveva dato un'occhiata alla sveglia e aveva deciso che gli restava il tempo per schiacciare un altro sonnellino.
Insomma, non avevo visto nulla.
Il grattacielo era là come sempre: l'avevo visto, perifno sulle cartoline di Genova. Tra poco la vita avrebbe ripreso i suoi traffici tra le sue altissime pareti: ora pareva sonnecchiare, in attesa dell'alba.
Un'altra finestra si accese e tornò a spegnersi. Era il grattacielo che mi strizzava l'occhio, come un monello che l'ha fatta franca?
Non lo saprò mai

 
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La ragazza mela

Post n°674 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C’erano una volta un re e una regina che non avevano figli. La regina camminando per il giardino e vedendo un bellissimo melo, si chiedeva sempre perché lei non potesse fare figli, come il melo faceva le mele.
Successe che alla regina nacque una mela, così bella e colorata come non se n’erano mai viste. Il re la mise in un vassoio d’oro sul suo terrazzo. Di fronte al palazzo di questo re ce n’era un altro, abitato anche questo da un re. Questi, un giorno che stava affacciato alla finestra, vide, sul terrazzo del re di fronte, una bella ragazza bianca e rossa come una mela che si lavava e pettinava al sole.
Lui rimase a guardarla a bocca aperta, perché non aveva mai visto una ragazza così bella. La ragazza però, appena si accorse di essere guardata, entrò in una mela e sparì.
Il re se n’era innamorato.
Pensa e ripensa andò a bussare al palazzo:
“Maestà, avrei da chiederle un favore “
“ Volentieri !Se tra vicini si può essere utili “ disse la regina
“Vorrei quella mela che avete sul terrazzo “
“Ma che dite maestà ? Non sapete che io sono la madre di quella mela e che ho sospirato tanto perché nascesse? “
Il re tanto insistette che non gli si potè dir di no, per mantenere l’amicizia. Così lui portò la mela a casa sua e le preparò tutto perlavarsi e pettinarsi.
La ragazza tutti i giorni usciva dalla sua mela per lavarsi e pettinarsi; il re la guardava. Altro non faceva la ragazza: non mangiava e non parlava, solo si lavava e si pettinava, poi tornava nella sua mela.
Quel re abitava con una matrigna, la quale, vedendolo sempre chiuso in camera, incominciò ad insospettirsi e a chiedersi perché il figlio stesse sempre nascosto.
Venne l’ordine di guerra e il re dovette partire; gli piangeva il cuore al pensiero di lasciare la sua mela. Chiamò il suo suddito più fedele e gli lasciò la chiave della sua camera raccomandandogli di non far entrare nessuno nella stanza.
Il servitore preparò tutti i giorni l’acqua e il pettine per la ragazza della mela. Appena il re fu partito la matrigna si diede da fare per entrare nella sua stanza. Fece mettere dell’oppio nel vino del servitore e, quando si addormentò, gli rubò la chiave. Aprì e frugò tutta la stanza e più la frugava meno trovava. C’era solo quella mela in una fruttiera d’oro. La regina prese lo stiletto e si mise a trafiggere la mela. Da ogni trafittura uscì un rivolo di sangue.
La matrigna si prese paura, scappò e rimise la chiave nella tasca del servitore addormentato. Quando il servitore si risvegliò, non si raccapezzava di cosa fosse successo. Corse nella camera del re e la trovò allagata di sangue.
"Povero me! Cosa devo fare?"
Andò da sua zia, che era una fata e aveva tutte le polverine magiche. La zia gli diede una polverina magica che andava bene per le mele incantate e un’altra che andava bene per le ragazze stregate e le mise insieme.
Il servitore tornò dalla mela e le passò un po’ di polverina su tutte le ferite.
La mela si spaccò e ne uscì fuori la ragazza tutta bendata e incerottata.
Tornò il re e la ragazza per la prima volta parlò e raccontò cosa era successo:
"Ho diciotto anni e sono uscita dall’incantesimo, se mi vuoi sarò tua sposa".
La ragazza mela sposò il re con gran gioia dei due regnanti.
Mancava solo la matrigna che scappò e nessuno ne seppe più niente.

 
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La biscia

Post n°673 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un contadino andava a segare il prato tutti i giorni, e a mezzogiorno le sue tre figlie gli portavano da mangiare.
Un giorno andò la prima, e quando fu nel bosco, essendo stanca, si sedette su una pietra a riposare. Appena si sedette, sentí dare un gran picchio sottoterra, e da sotto la pietra uscí una biscia.
La ragazza lasciò il cesto e, gambe aiutami!, scappò via: e quel giorno il padre restò a pancia vuota. Tornò a casa e sgridò le ragazze.
L'indomani ci andò la seconda. Si sedé sulla pietra e capitò lo stesso: gambe aiutami!
Allora la terza disse: - A me, a me! io non ho paura. - e invece d'un paniere di roba da mangiare se ne portò due. Quando sentí dare il picchio e vide la biscia, le diede un paniere di roba e la biscia le parlò:
- Portami a casa con te, - disse, - farò la tua fortuna! - e la ragazza se la mise nel grembiule.
Portò l'altro paniere al padre nel prato, poi tornò a casa e mise la biscia sotto il letto.
La biscia ogni giorno diventava piú grossa, tanto che sotto il letto non ci stava piú.
Andò via, ma prima di partire lasciò in dono alla ragazza tre sorti: che piangendo le cadessero lacrime di perle e argento, che ridendo le cadessero dal capo chicchi di melagrana d'oro, e che lavandosi le mani le uscissero di tra le dita pesci d'ogni qualità.
Quel giorno in casa non c'era nulla da mangiare, e il padre e le sorelle erano disperati dal digiuno, ma lei subito provò a lavarsi le mani, e la catinella si riempí di pesci. Le sorelle diventarono invidiose e persuasero il padre che c'era qualcosa sotto, ed era meglio chiudere la ragazza nel solaio.
Dalla finestra del solaio, la ragazza guardava nel giardino del Re, e c'era il figlio del Re che giocava alla palla. Giocando alla palla, fece uno scivolone e cadde in terra, e la ragazza scoppiò a ridere.
Ridendo le cadde giú una pioggia di chicchi di melagrana d'oro.
Il figlio del Re non riusciva a capire da dov'erano caduti, perché la ragazza aveva subito chiuso la finestra.
L'indomani, tornando in giardino per giocare alla palla, il figlio del Re vide che c'era nato un melograno, già alto e carico di frutti. Fece per cogliere le melagrane, ma l'albero cresceva a occhiate, e bastava alzare una mano perché i rami s'alzassero d'un palmo.
Visto che nessuno riusciva a cogliere neanche una foglia da quell'albero, il Re fece radunare i Savi perché gli spiegassero l'incanto. E il piú vecchio di tutti i Savi disse che poteva cogliere quei frutti solo una ragazza, e quella sarebbe stata la sposa del figlio del Re.
Allora il Re mandò fuori il bando che tutte le ragazze da marito venissero al giardino, pena la testa, per provare a cogliere le melagrane.
Vennero ragazze d'ogni semenza, ma per raggiungere quei frutti non bastavano scale né scalette. Vennero anche le due figlie piú grandi del contadino e cascarono dalla scala a gambe all'aria.
Il Re mandò a frugare nelle case se si trovavano altre ragazze, e cosí scovarono quella chiusa nel solaio.
Appena accompagnata alla pianta, i rami s'inchinarono e le porsero in mano le melagrane.
Tutti gridarono: - Ecco la sposa! Ecco la sposa! - e il figlio del Re per primo.
Furono preparate le nozze, e le sorelle sempre invidiose erano invitate anche loro alla festa.
Andando tutte e tre sulla stessa carrozza, in mezzo a un bosco si fermarono. Le due grandi fecero scendere la piccola, le tagliarono le mani, le cavarono gli occhi e la lasciarono per morta in un cespuglio. La piú grande si mise la veste da sposa e cosí si presentò al figlio del Re.
Il figlio del Re non capiva come mai fosse tanto imbruttita, ma siccome un po' le assomigliava, credette d'essersi sbagliato lui a crederla cosí bella.
La ragazza senz'occhi e senza mani rimase a piangere nel bosco. Passò un cavalcante che ne ebbe compassione e la fece salire sul suo asino per portarla a casa sua.
Lei gli disse che guardasse in terra: c'era pieno di perle e argento, che erano le lagrime della ragazza.
Il cavalcante le andò a vendere e fece piú di mille lire: cosí viveva contento, anche se quella ragazza senz'occhi e senza mani non poteva lavorare e aiutare la famiglia.
Un giorno la ragazza sentì una biscia che le si attorcigliava a una gamba: era la biscia sua amica.
- Sai di tua sorella che ha sposato il figlio del Re ed è diventata Regina perché il Re vecchio è morto? Ora aspetta un bambino e ha voglia di fichi.
La ragazza disse al cavalcante: - Caricatevi una soma di fichi e andateli a portare alla Regina.
-Come faccio a trovare dei fichi di quest'epoca? - disse il cavalcante.
Difatti, era d'inverno. Ma la mattina dopo andò nell'orto il fico era carico di frutti, cosí senza foglie com'era. Lui ne riempí due corbe e le caricò sull'asino.
-Chissà quanto posso chiedere per dei fichi d'inverno? - disse il cavalcante.
- Dovete chiedere un paio d'occhi, - disse la ragazza.
Lui cosí fece, ma né la Regina, né il Re, né sua sorella si sarebbero mai cavati gli occhi. Allora parlottarono un po' tra sorelle e dissero:
- Diamogli pure quelli di nostra sorella, tanto cosa ce ne facciamo? - e comprarono i fichi con quegli occhi.
Il cavalcante riportò gli occhi alla ragazza che se li rimise al loro posto, e tornò a vederci come prima.
Poi la Regina ebbe voglia di pesche e il Re mandò a chiamare quel cavalcante, se mai potesse trovare pesche come aveva trovato fichi.
La mattina dopo, nel suo orto, il pesco era carico di pesche, e lui con l'asino ne portò subito una soma in Corte. Gli chiesero quanto ne voleva e lui disse:
- Un paio di mani.
Ma nessuno si voleva tagliare le mani, neanche per far piacere al Re.
Allora le sorelle, parlando tra loro: - Diamogli quelle di nostra sorella.
Quando la ragazza riebbe le sue mani se le riattaccò alle braccia e guarí.
Dopo poco tempo, la Regina partorí e fece uno scorpione. Ma il Re fece dare lo stesso una festa in cui tutto il mondo era invitato.
E la ragazza si vesti da Regina ed era la piú bella della festa. Il Re se ne innamorò e innamorandosene s'accorse che era la sua sposa di prima.
Lei rise e caddero chicchi d'oro, pianse e caddero perle, si lavò le mani e faceva pesci nel catino.
E cosí ridendo e piangendo e facendo chicchi, perle e pesci gli raccontò tutta la storia.
Le due cattive sorelle e lo scorpione furono bruciati in una catasta di legna alta come una torre.
Lo stesso giorno ci fu il gran pranzo di nozze.

Fecero tanto lusso e spatusso Ma io ero dietro l'uscio. Per mangiare andai all'osteria. E cosí finisce la storia mia.
(Monferrato).


 

 
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Il re dei pavoni

Post n°672 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un Re e una Regina avevano due figli maschi e una bambina a cui volevano un ben dell'anima, e la tiravano su a baci e a carezze, con la balia in casa.
Ora avvenne che il Re un giorno s'ammalò e mori. La Regina mandava avanti il Regno, ma dopo pochi anni cadde anche lei malata; in punto di morte raccomandò ai due figli la loro sorellina, e spirò.
La bambina intanto s'era fatta grandicella, sempre stando nel palazzo senza mai uscire, e tutto il suo spasso era guardare dalla finestra la campagna, cantarellare, ciarlare con la balia che adesso le faceva da aia, e ricamare.
Un giorno che stava alla finestra, per la campagna comparve un pavone, prese il volo e si posò sul davanzale. La ragazza si mise a fargli festa, gli dette dei chicchi da beccare e lo fece entrare in casa.
- Quant'è mai bello! - esclamò - Finché non trovo il Re dei Pavoni non piglio marito! - e si tenne il pavone sempre con sé, e quando veniva gente lo chiudeva in un armadio.
Intanto i fratelli dicevano fra loro: - Questa benedetta sorella nostra non vuole mai uscire di casa. Se dura di questo passo, dà in cattiva disposizione. Sentiamo se vuole marito -. Vanno a trovarla, e le dicono il loro pensiero.
- Finché non ti sarai accasata tu non ci sposiamo noi. Te la senti di pigliar marito?
- No, non me la sento.
- È un'idea che ti sei messa in testa. Guarda qui i ritratti di tutti i Re, scegli quello che ti piace e gli domanderemo se ti vuole.
- Vi dico che io non voglio marito...
- Ma facci questo piacere...
- Se proprio lo volete a tutti i costi, vi contenterò, ma voglio esser io a scegliere.
- D'accordo.
Allora la sorella aperse l'armadio e fece uscire il pavone.
- Vedete questo?
- Sí, è un bel pavone.
- Finché non trovo il Re dei Pavoni non mi sposo.
- E dove l'hanno il Re i pavoni?
- Non lo so davvero, ma o lui o nessuno.
- Quand'è cosí vedremo di trovartelo.
Raccomandarono alla balia di badare alla ragazza, elessero un governatore di fiducia per il Regno, e partirono uno di qua e uno di là.
Domanda domanda, del Re dei Pavoni nessuno ne aveva mai sentito parlare, e li pigliavano per matti. Ma i due giovani non si perdevano d'animo e ognuno dalla parte sua, continuavano le loro ricerche. Una sera il maggiore trovò un vecchierello che era mezzo mago.
- Ditemi, sapete che ci sia un Re dei Pavoni?
- Esserci c'è di sicuro, - rispose quello.
- E com'è? Dove abita?
- È un bel giovane che veste come i pavoni. Il suo Regno è il Perú e per vederlo bisogna andare fin là.
Il giovane lo ringraziò, gli diede una mancia e s'avviò verso il Perú. Camminò e camminò finché non si trovò in un prato con intorno tanti alberi d'un genere mai visto, e da ogni parte senti delle voci che dicevano:
- Eccolo! Eccolo! È il giovane che viene a portare sua sorella in sposa al Re! S'accomodi! Fate largo!
Il giovane si guardò intorno, ma non si vedeva nessuno, tranne che uno svolazzare di penne di tutti i colori per l'aria.
- Ma dove sono? - domandò.
- Al Perú, - risposero le voci, - allo Stato del Re dei Pavoni.
- Mi sapreste dire dove sta?
- Con gran piacere: prenda a dritta, troverà un bel palazzo, dica alle guardie: " Segreto reale! " e lo faranno passare.
- Vi ringrazio!
- Di niente!
" Questi alberi sono molto garbati, - pensò il giovane, - ma certe ci dev'essere di mezzo una magia ". Andò avanti, ed arrivò a un palazzo, tutto foderato di penne di pavone azzurre, bianche e violette, che splendevano al sole come l'oro. Al portone c'erano guardie vestite da pavone, che non si capiva se erano uomini o uccelli.
- Segreto reale! - disse il giovane e lo lasciarono entrare. In mezzo a una sala c'era un trono di pietre preziose con una raggiera di penne di pavone dagli occhi d'oro splendenti come stelle. E sul trono c'era il Re, vestito tutto di penne, che anche lui non si capiva se era uomo o uccello. Il giovane si inchinò. Il Re fece un cenno e tutti i cortigiani uscirono.
- Parlate, io v'ascolto, disse.
- Sire, io sono il Re di Portogallo, - disse il giovane, - e vengo achiedervi se accettate in sposa la mia sorellina. Perdonate il mio ardire, ma mia sorella s'è messa in testa di non avere per sposo nessun altro che il Re dei Pavoni.
- Ce l'avete il suo ritratto?
- Eccolo, Maestà.
- È, bella! Mi piace! Acconsento a questo sposalizio!
- Maestà, vi ringrazio! Mia sorella sarà molto contenta, e cosí tutti noi, - e s'inchinò per accomiatarsi.
- Fermatevi, - disse il Re. - Dove andate?
- A prenderla, Maestà.
- No, dal Regno dei Pavoni chi ci è entrato non può piú uscire. Io non vi conosco: chi mi assicura che non siate uno spione venuto per conto d'un Re nemico, o un ladro che vuole derubarmi? Scrivete a casa, mandate il ritratto e aspettate la risposta.
- Farò cosí, - disse il giovane, - e aspetterò. Ma ditemi, Maestà, dove alloggerò nel frattempo
Il Re fece un cenno, accorsero le guardie e il giovane fu afferrato per le braccia.
-In prigione, alloggerete, - disse il Re. - Finché vostra sorella non sarà arrivata.
Intanto, il secondo fratello era tornato a casa senza aver trovato nulla. E appena arrivò la lettera dal Perú, corse dalla sorella e le mostrò il ritratto del Re dei Pavoni.
- Eccolo il mio sposo, disse la ragazza, - ecco quello che io volevo! Presto, sbrighiamoci a partire, mi pare mill'anni di vederlo! - E si misero a incassare il corredo, a preparare i bagagli e i cavalli, e ordinarono il piú bel bastimento della flotta.
-Per andare al Perú bisogna passare il mare, - disse il fratello alla balia. - Come si fa a proteggere mia sorella dal vento, dall'umido e dai colpi di sole?
-Ci vuole poco, - disse la balia. - La si porta in carrozza fino alla riva del mare, si fa avvicinare il bastimento, e si fa salire la carrozza sul bastimento per un ponte di tavole. Cosí potrà fare il viaggio stando comoda dentro la sua carrozza, senza prender aria né sciuparsi il vestito di nozze -. E in questo modo fu tutto predisposto.
Bisogna sapere che questa balia aveva una figliola brutta come un demonio e per giunta invidiosa e maligna. Appena seppe che la Principessa andava a nozze cominciò a piagnucolare con la madre:
- Lei marito e io no, lei un Re e io niente, lei tutti la guardano e me non mi guarda nessuno...
-Già, - disse la balia, - ci avevo pensato anch'io -. E cominciò ad almanaccare tutto un piano per far si che quel bel Re, invece della Principessa, sposasse sua figlia. Pensa e ripensa, le parve d'aver trovato; allora ordinò per sua figlia una carrozza e un vestito di nozze uguale a quello della Principessa, poi disse al Capitano del bastimento:
- Eccoti due milioni, sta' a sentire cosa devi fare. Nell'ultima carrozza che salirà sulla nave c'è dentro mia figlia. La notte, quando tutti dormono, tu devi prendere la Principessa le buttarla in mare, e mettere mia figlia al suo posto.
Il Capitano aveva paura d'accettare, ma due milioni erano tanti e pensò: " Quando li avrò in tasca, potrò scappare e andarmeli a godere lontano ". Cosí contrattò ancora un po' sul prezzo, e poi accettò.
Giunta l'ora di partire, tutte le carrozze furono poste in fila sulla nave, ma la Principessa all'ultimo momento cominciò a piangere che voleva con sé il suo canino.
- È stato il mio compagno per tanto tempo e non lo voglio abbandonare! - Il fratello allora corse a riva, prese il canino e glielo portò nella carrozza. Il canino s'accovacciò sul materasso e il bastimento partí, le vele al vento.
Quando fu buio, la balia andò alla carrozza della sposa.
- Il tempo è buono, il vento è propizio, domani saremo al Perú. Dormi e riposati.
E la Principessa s'addormentò sognando il Re dei Pavoni e le feste che l'avrebbero accolta al suo arrivo.
A mezzanotte, adagio adagio, il Capitano aperse la carrozza, sollevò il materasso con sopra la Principessa e il canino e li buttò nell'acqua.
Lí vicino, nell'ombra, c'era già la figlia della balia che aspettava, e il Capitano la fece entrare nella carrozza della sposa.
Cascando nell'acqua, la Principessa si svegliò e si vide in mezzo al mare col bastimento che s'allontanava via per il suo viaggio. Ma il materasso, invece d'andare a fondo, siccome era leggero leggero, galleggiava; e un venticello fresco lo spingeva anch'esso verso il Perú, con sopra la ragazza vestita da sposa e il suo canino.
Quando fu verso il giorno, un marinaio del paese del Perú, che aveva la sua casa sulla proda del mare, sentí abbaiare lontano lontano.
- Lo senti questo cane? - disse alla moglie.
- Sí, ci dev'essere qualcuno in pericolo.
- Ci pensavo anch'io. È, quasi giorno e voglio andare un po' a vedere -. Si vesti, prese un rampone e andò sulla sponda. E lí, tra il lusco e il brusco, vide qualcosa che galleggiava leggero leggero, con quel rumore di abbaio. Quando quel qualcosa gli fu piú vicino, il marinaio entrò nell'acqua, allungò il rampone e lo tirò a sé. Figuratevi come ci rimase quando vide che c'era una ragazza addormentata col vestito da sposa, ed un canino che faceva le feste! La tirò pian piano a riva perché non si svegliasse, ma lei si riscosse e disse:
- Oh! Dove sono?
- In casa di poveri marinai, - le dissero, - ma di buon cuore. Venite, che vi terremo con noi.
In quel momento, la bruttaccia maledetta sbarcava nel Perú chiusa nella sua carrozza. Appena il corteo giunse al prato degli alberi strani, si senti da tutte le parti:

"Cucú! Cucú!
Com'è brutta la Regina del Perú!


E per aria volavano migliaia di penne di pavone. Il fratello che l'aveva accompagnata nel viaggio, veniva dietro a cavallo, e a sentire quelle grida che non si sapeva da dove venissero, provò una stretta al cuore. " Questo mi pare un brutto segno, - si disse. Che ne sarà di noi! " Corse alla carrozza, aperse lo sportello, e al vedere quella bruttaccia restò come istupidito.
- Ma come mai ti sei fatta tanto brutta? Cos'è stato? Il mare, il vento, il sole? Dimmi!
- E che vuoi che ne sappia? - rispose la bruttaccia.
- Ecco il Re! Ora ci taglia la testa a tutti quanti!
In mezzo a una schiera di soldati vestiti di penne, era apparso il Re dei Pavoni. I soldati alzarono lunghe trombe d'oro e lanciarono uno squillo. Gli alberi gridarono: e per aria si vedeva uno svolazzare di penne fitto fitto che pareva una nebbia.
- Dove è la sposa? - disse il Re.
- Eccola, Sire...
- E questa sarebbe la bella ragazza tanto decantata?
- Che vuole, Maestà... sarà il vento, l'aria del mare...
- Che vento e che mare! Chetatevi, impostori! Avete voluto ingannarmi, ma vedrete che col Re dei Pavoni non si scherza! Siano messi in galera tutti e due e si prepari una forca per ciascuno -. E il Re dei Pavoni s'allontanò triste in volto: non era solo l'affronto che credeva gli avessero voluto fare, a disperarlo, ma ancor piú l'amore per la bella ragazza di cui teneva il ritratto al collo e che non si saziava di guardare.
Lasciamo il Re e quei disgraziati in prigione, e torniamo alla bella Principessa in casa del povero marinaio. La mattina dopo disse alla moglie del marinaio.
- Ce l'avreste un panierino?
- Sí, signora.
- Datemelo, che al pranzo ci penso io -. Chiamò il cane, gli diede il panierino e gli disse:
- Va' dal Re e prendi il pranzo.
Il cagnolino reggendo il manico del paniere coi denti, corse alla cucina del Re, afferrò un pollo arrosto, lo cacciò nel paniere e lo portò di corsa alla padroncina. A casa del marinaio quel giorno si fece un bel pranzo, e anche il cane ebbe da rosicchiare la sua parte d'ossi.
L'indomani, il cagnolino col paniere tornò alla cucina del Re, afferrò un pescione, e via di corsa. Il cuoco stavolta andò dal Re a denunziare la cosa, e il Re ordinò di pigliare il cane a tutti i costi, o almeno di vedere dove andava.
Difatti, il giorno dopo il cane acchiappò una bella coscia d'agnello, ma il cuoco gli corse dietro, e vide che entrava nella casa del marinaio. Andò a riferirlo al Re.
-Domani gli andrò dietro io, - disse il Re. - 0 che sarò diventato lo zimbello di tutti, adesso?
La Principessa, la mattina dopo, appena il cane fu partito col panierino, si mise il vestito da sposa, e stette nella sua stanza ad aspettare.
- Se viene qualcuno a cercare del cane, - disse al marinaio e alla moglie, - fatelo passare da me.
Difatti, dopo poco, arrivò il cane col pranzo nel paniere, e dietro di lui venivano il Re con due soldatí-pavoni.
- Avete visto un cane? - chiesero al marinaio.
- Sí, Maestà.
- Perché mi ruba sempre il pranzo?
- Fa cosí di sua voglia, per darci da mangiare; non gliel'abbiamo insegnato mica noi.
- E dove l'avete trovato?
- Non è nostro. E' di una sposa che è qui con noi.
- Voglio vederla.
- Passi, passi, Maestà. Scuserà: è casa di poveri -. Lo fecero passare, e il Re si vide davanti, vestita da sposa, la ragazza del ritratto.
- Io sono la figlia del Re di Portogallo, e voi, Sire, tenete i miei fratelli in prigione.
- Possibile mai? - disse il Re dei Pavoni.
- Guardate: questo è il ritratto che mi mandaste; l'ho tenuto sempre sul cuore.
- Io non ci raccapezzo nulla, - disse il Re. - Aspettate qui che torno subito -. E andò via come una saetta. Arrivò al palazzo, fece uscire di carcere i due fratelli.
- La vostra sorella è stata trovata, vi rimetto la mia stima, ma ditemi come andò il fatto.
- Cosa vuole che si sappia noi? Piú ci pensiamo meno ci raccapezziamo.
Il Re allora chiamò la balia e sua figlia, le minacciò e seppe tutto il loro intrigo. Le fece mettere in prigione al posto dei due fratelli, armò tutti i soldati, si mise il piú bello dei suoi vestiti di penne, e a suon di banda, alla testa del suo esercito, andò alla casa del povero marinaio a prendere la sposa.

Ora sí! Ora sí!
La Regina è questa qui!


gridavano gli alberi e per aria volavano milioni di penne di tutti i colori che coprivano il sole e pareva che tutto il cielo avesse messo penne.
Giunti al palazzo furono fatte le nozze con un gran banchetto. La balia e la bruttaccia maledetta furono appese alle due forche che erano state preparate per i fratelli. Il Capitano della nave non riuscirono piú ad acchiapparlo perché era andato a godersi i suoi due milioni lontano lontano.

 






 
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Ritenta,sarai più fortunato!

Post n°671 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Come tutti sanno,lettori miei,il tempo è un gran medico.Dopo i terribili mesi passati in seguti all'abbandono di Matelda Vitellozzi,Caino Trogoloni ha ritrovato il sorriso grazie ad una deliziosa fanciulla di S.Pancrazio,Ludovica Zompacchioni.
Non rallegratevi,però, perchè non sapete quel che è successo la fatidica sera in cui il Trogoloni ha proposto alla fanciulla dei suoi sogni di sposarlo.
Ecco,ora per ora,la cronaca di quella giornata.
19.00- Per sfortuna del Caino,gli ha aperto la porta la nonna materna della Ludovica,donna dal carattere infamerrimo.
In 10 minuti la vecchiaccia ha
1) Gettato nella spazzatura le orchidee del Caino (lei è allergica)
2) Trovato il suo taglio di capelli orrendo,la cravatta disgustosa,le scarpe vomitevoli
3) Assestato una bastonata in mezzo agli occhi di Caino quando quello si è azzardato a baciarle la mano
Per fortuna la Ludovica lo ha salvato da altre sevizie
19.15- Rincretinito dalla botta,Caino ha tamponato l'adoratissima Porsche dello Zompacchioni,che per poco non gli ha staccato la testa a morsi.
20.15-Sfuggiti allo Zompacchioni,i due colombi si sono recati nell'esclusivo ristorante "Il Mangione",dove Caino aveva prenotato.
Lì hanno scoperto che la prenotazione era stata presa dalla suocera svanita del proprietario,che non l'aveva segnata.Il Trogoloni e la Ludovica sono stati cacciati via.
21.00- Dopo tre quarti d'ora di ricerca (4 ristoranti erano chiusi per ferie,2 per turno) i nostri alla fine sono approdati alla trattoria "Dal lercio sbilercio".
La cena era a dir poco indescrivibile e il Trogoloni ha protestato con veemenza...finchè non è arrivato il cuoco,un energumeno alto oltre due metri e pesante circa 180 kg con un coltellaccio in mano e lo sguardo da Jack lo Squartatore.Vista l'aria che tirava,Caino e la Ludovica hanno pagato il conto (120.000 lire) e sono andati via più svelti che potevano
22.30-Caino ha fermato l'auto e ha fatto la sua richiesta alla Zompacchioni.Peccato che si sia fermato di fronte alla discarica abusiva sotto il cavalcavia dell'autostrada.
Fra il fetore,le mosche e le zanzare e le pantegane che scorrazzavano allegramente,Caino ha aperto il suo cuore alla Ludovica,che però gli ha risposto prima con una sghignazzata e un pernacchione,poi col perentorio invito ad andare a quel paese con biglietto di sola andata.
23.30- Devastato,Caino ha messo in moto la macchina,che non è partita manco a pagare.Dopo 263 tentativi,a lui e alla sacramentante Ludovica non è restato altro da fare che scendere e spingere (la strada,manco a dirlo,era in salita).Una volta in cima,la macchina è partita da sola,schiantandosi contro un palo della luce,mentre i due disgraziati sono finiti a rotoloni nella monnezza.
2.00-Stravolti,sudici e puzzolenti Caino e la Ludovica sono riusciti a guadagnare la strada,e hanno cominciato a fare l'autostop.
3.30- Finalmente si è fermata una BMW.A bordo c'era il cuoco di cui sopra,che ha fatto salire la Ludovica e lasciato a piedi il Caino.
7.00- Dopo essersi fatto tutta la strada a piedi,Caino è arrivato a casa ed è svenuto sulla soglia.
Sono passate due settimane.
Caino è ricoverato nella clinica Luminaris.
La Ludovica sposerà il cuoco ed aprirà a Malindi un ristorante italiano che sarà chiamato "Il grande sudicione"
Stretta la foglia,larga la via,dite la vostra che ho detto la mia

*

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Romolo (Pirandello)

Post n°670 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Nelle società così dette civili. o dette anche storiche, la leggenda – si sa – non può piú nascere. Potrebbe nascere, e spesso anche nasce, ma umile, e striscia timida tra il popolino: lumachella che ha gli occhi nelle corna e subito li ritira tra il bollichìo della vana bava, appena col dito rigido e sporco d’inchiostro un professore di storia glieli tocchi.
Crede, il professore di storia, che in quel suo dito rigido e sporco d’inchiostro sia la santa verità, e che sia un bene far ritirare le corna alla lumachella. Disgraziato! E piú disgraziati i posteri che avranno minuto per minuto documentati i fatti degli avi e dei padri, che forse, abbandonati alla memoria e all’immaginazione, a poco a poco, come ogni cosa lontana, s’inazzurrerebbero di qualche poesia.
Storia, storia. Finiamola con la poesia.
Ecco qua, senza lupa, senza il fratello Remo, senza volo d’avvoltoj, Romolo, come ce lo fanno conoscere gli storici; come l’ho conosciuto io, jeri, vivo.

Romolo: un fondatore di città.

E dire che, a guardarlo bene negli occhi di lupo, peccato! si poteva credere benissimo che davvero una lupa lo avesse allattato, bambino, circa novanta anni fa. Il suo Remo di fronte. rivale. quantunque non fratello, lo aveva avuto davvero. Non l’aveva ucciso, solo perché Remo aveva pensato lui di morire prima a tempo, da sé. Ma non andate ora a cercare nelle carte geografiche la città fondata da questo Romolo. Non la trovereste. La troveranno i posteri di sicuro, di qua a tre o quattrocento anni, e anche segnata vi so dire con uno di quei cerchietti che indicano le città capoluogo di provincia e il suo bravo nome accanto: Riparo, che ciascuno dentro ci potrà immaginare le belle cose che vi saranno, vie, piazze, palazzi, chiese, monumenti, col signor prefetto e la signora prefettessa, se dureranno ancora questi saggi ordinamenti sociali e se un terremoto prima (con l’ajuto di Dio che castiga le ambizioni degli uomini) non l’avrà fatta crollare dalle fondamenta; ma speriamo di no.
Per ora, è piú che un casale; di già una bella borgata, con presto due chiesine.
Una è questa qua. Stalla un tempo, per consiglio di Romolo adattata a chiesina; con un solo altarino dentro, di vecchio legno ingrassato al tanfo caldo del letame, e una stampa del sacro cuore di Gesú attaccata al muro coi chiodini; alla meglio, si sa, ma che importa? Gesú ce la respira davvero, qui dentro, la sua natività.
Da miglia e miglia lontano, ogni domenica, ci viene con la mula un prete a dir messa, tutto sudato e impolverato, d’estate; intabarrato fino agli occhi e con l’ornbrellone di seta verde, d’inverno, come nelle oleografie. La mula, legata per la cavezza all’anello accanto alla porta, aspetta, sbuffando e scalciando per le mosche culaje. Ecco qua in terra il segno delle scalciature. Povera bestia, non lo sa che è ufficio divino. Le pare una gran seccatura e mill’anni che finisca.

L’altra, la nuova, sarà presto terminata e sarà una vera galanteria, col campanile e tutto, tre altarini e il pulpito e la sagrestia; tutto insomma; chiesa, per davvero, levata di pianta per chiesa, con un tanto a testa di tutti i borghigiani.
Ora, quando qui sarà città, nessuno dei tanti figli di essa saprà di questo Romolo primo loro padre; come, perché sia nata la città; perché qui e non altrove. Su la terra, in un luogo, non si riesce piú a vedere questa terra e questo luogo com’erano prima che la città vi sorgesse. Cancellare la vita è difficile. quando la vita in un luogo ci sia espressa e imposta con tanto ingombro di pesanti aspetti: case, vie, piazze, chiese.
C’era il deserto, un beato deserto, qua. Uomini che come un nastro svolgevano la vita da lontano lontano, passarono allungando il nastro per questo, deserto. Uno stradone. E carri cominciarono a poco a poco a passare, nella solitudine, per questo stradone, e qualche uomo a cavallo, armato, che volgeva attorno gli occhi guardinghi, dallo sgomento che si scoprisse per la prima volta a lui solo la vista di tanta solitudine così lontana e ignota a tutti. Silenzio intorno e aperto, sotto la vastità cupa del cielo.
Quando, di qui a quattrocent’anni, campanelli di tram elettrici, trombe d’automobili squilleranno, streperanno tra la confusione delle vie affollate, illuminate da lampade ad arco, con luccichii e sbarbagli di vetri, di specchi negli sporti, nelle vetrine delle ricche botteghe, chi penserà a una lampada sola, in cielo, la Luna, che nel silenzio e nella solitudine, guardava dall’alto il nastro bianco dello stradone in mezzo al deserto sterminato, e ai grilli e alle raganelle che qui scampanellavano soli? Chi penserà tra le chiacchiere vane nei caffè alle cicale che qui arrabbiate tra le stoppie segate segavano la vasta e ferma afa nell’abbagliamento delle eterne giornate estive?
Carri, uomini a cavallo, qualcuno raro a piedi, passavano e tutti sentivano di quella solitudine uno sgomento che a mano a mano diveniva oppressione intollerabile. Che era per essi quello stradone? Lunghezza di cammino; via da fare. Chi poteva pensare di fermarcisi?

Un uomo. Questo vecchio qua. Allora sui trent’anni, andando un giorno d’estate appresso ai pensieri che lo traevano fuori del consorzio degli altri uomini a cercare nella solitudine la sua ventura, ebbe il coraggio di fermare in mezzo a questo stradone l’ombra del suo corpo. Senti forse che in quel punto tanti come lui, passando, avevano, avrebbero sentito il bisogno d’un poco di riposo, d’un poco di conforto e d’ajuto. E disse qua.
Si guardò attorno a osservare ciò che prima aveva soltanto guardato con l’occhio distratto di chi passa e non pensa a fermarsi: guardò col senso della sua presenza, non per un solo momento qua, ma stabile; e si provò a respirare l’aria allora deserta, a vedere intorno le cose, come quelle che dovevano essere la sua aria e la sua vista di tutti i giorni. E col coraggio che gli sorgeva dentro per distendersi e imporsi attorno comparò la tristezza infinita di quella solitudine, se il suo coraggio avrebbe saputo resisterle e durarvi, quando – non ora – d’inverno, col cielo aggrondato e il freddo, nell’eterne giornate di pioggia, si sarebbe fatta piú squallida e paurosa.
Parla per apologhi il vecchio; e narra che da ragazzo aveva una sorellina malatuccia e disappetente, che faceva tanto penar la madre per contentarla.
Ora un giorno, mentr’egli giocava per istrada coi compagni a un gioco furioso, la madre, che se ne stava seduta allo scalino davanti la porta, lo chiamò perché piano piano con un sorsellino cauto si sorbisse da un uovo, ch’ella teneva in mano la chiara soltanto, non ben cotta, la chiara soltanto, di cui la sorellina malatuccia e disappetente aveva schifo.
Ebbene, con quel sorsellino che avrebbe dovuto scoronar l’uovo appena appena, egli, nella furia del gioco interrotto, senza farlo apposta, s’era tirato dentro tutto l’uovo, chiara e torlo, tutto quanto, lasciando con tanto d’occhi sbarrati per la sorpresa e il guscio in mano, vuoto, la madre e la sorellina.

Lo stesso ora qua, per lo stradone.

Quando disse "qua", non aveva certo in mente questa borgata d’oggi, la città di domani. Pensava che sarebbe restato sempre lui solo a offrire ajuto a tutti quelli che sarebbero passati di là. Ma dentro quel suo primo respiro, tratto in mezzo allo stradone, non c’era soltanto aria per un solo tetto di paglia; c’era dentro l’aria per tutta questa borgata d’oggi, per la città di domani. E tanto era stato il suo coraggio nel levare quel primo tetto di paglia, che altri per forza dovevano sentirsene attirati.
Quando però una necessità non pensata si para davanti a una illusione, questa necessità ci sembra un tradimento.
Ecco qua: dopo che lui, sfidando gli orrori della solitudine, per mesi e mesi solo, era riuscito a far fermare davanti a quel suo tetto di paglia i carri che passavano, e poi, levata a poco a poco la casetta di pietra e fatta venir la moglie coi figliuoli, era riuscito a far sedere sotto la pergola i carrettieri a bere il vino, di cui una bottiglina di saggio pendeva appesa con una frasca d’insegna alla porta, e a mangiare in rozze scodelle campestri i cibi cucinati dalla moglie, mentr’egli attendeva a riparare una ruota o una molla a qualche carro o a ferrar la mula o il cavallo; un altro era venuto su lo stradone, un po’ piú in giú, a levare contro alla sua casa un’altra casa.
Perché un paese (ora il vecchio lo sa bene e lo può dire per esperienza) un paese nasce così.
Non è mica vero che gli uomini si mettono insieme per darsi conforto e ajuto a vicenda. Insieme si mettono per farsi la guerra. Quando una casa sorge in un punto, l’altra casa non le si mette mica accanto come una compagna o una buona sorella; di fronte le si mette, come una nemica, a toglierle la vista e il respiro.
Egli non aveva il diritto d’impedire che un’altra casa gli sorgesse di fronte. La terra su cui sorgeva, non era sua. Ma questa terra prima era un deserto. Che vita aveva? La vita gliel’aveva data lui. E l’usurpazione e la frode che quell’altro era venuto a commettere, non era della terra, ma della vita che egli a questa terra aveva dato.

– Qua non è tuo! – poteva soltanto dirgli quell’altro.

– Sì. Ma che era qua prima per te? – poteva gridargli lui. – E ci saresti tu venuto, se prima non ci fossi venuto io? Qua non c’era nulla; e tu vieni adesso a rubarmi quello che ci ho messo io!

Troppo, però, veramente – doveva riconoscerlo – troppo ci aveva messo per uno solo.
Tutti i carri che passavano, spesso in lunga fila, si fermavano la ora. per una sosta abituale. La moglie non riparava a sentir tutti e non si reggeva piú in piedi dalla fatica; anch’egli, quelle due braccia sole che Dio gli aveva date, non se le sentiva piú, la sera, dalla stanchezza. C’era dunque posto e lavoro non solo per un altro, ma anche forse per tre o quattro altri.
Il vecchio ora dice che l’avrebbe preferito. Tre o quattro altri insieme sarebbero stati compagni e si sarebbero diviso il lavoro; e sua moglie forse, allora, non sarebbe morta di fatica. Ma quell’uno fu per forza nemico, un nemico da respingere, anche col coltello in pugno, dalla vita che egli aveva fatto nascere su quello stradone, e ch’era sua. Di fronte a tre o quattro altri insieme, egli avrebbe cercato e stabilito un accordo; e certo sarebbe stato da essi riconosciuto e rispettato come il primo e come il capo. Da quell’uno dovette invece accanitamente difendersi la vita, da non lasciargliene prendere nulla o quel poco soltanto che alle sue braccia non riusciva piú di contenere. Ma l’effetto fu questo: che gli morì la moglie dalla troppa fatica.

– Dio! – dice il vecchio, adesso, alzando una mano con l’indice teso.

E lascia nell’ombra i casi e gli eventi passati, di cui riconosce in Dio la causa, e dunque l’obbligo per gli uomini d’accettarli con obbedienza e rassegnazione, per quanto dolorosi e crudeli possano parere. I casi passano e vanità è ricordarli di fronte a questa certezza: che la giustizia di Dio trionfa sempre.
Romolo non può parlare altrimenti. Deve riconoscere, Romolo, che fu giustizia di Dio la morte della moglie: che Dio, cioè, con questa morte lo volle punire del suo voler troppo. Perché alla fine il trionfo della giustizia divina Romolo deve additarlo in lui che – morto Remo – ne sposò in seconde nozze la moglie. E perché morì Remo? Ma anche lui per punizione di Dio, per una gran paura che Dio gli mise addosso; morì perché comprese che l’uomo. a cui egli era venuto a mettersi contro, ora, stroncato dalla morte della moglie, avrebbe certo rovesciato su lui il furore della sua disperazione.
Poteva Dio permettere che una sua punizione diventasse soverchia e dunque ingiusta lasciando che quell’altro profittasse di quanto ora a lui era venuto a mancare con la morte della moglie? La punizione ch’era dolore per lui, doveva essere paura per quell’altro; e tanta fu, che ne morì. Romolo non dice altro
Soggiunge però, che allora, nelle due case di contro, popolate tutte e due di figliuoli, a cui finora non era stato mai concesso d’accostarsi gli uni agli altri per mettere insieme i loro giuochi; nelle due case di contro restarono, qua un uomo senza donna, là una donna senza uomo. E l’uno vestito di nero vide l’altra vestita di nero; e nel cuore dell’uno e dell’altra ecco che Dio allora fece sbocciare la carità, un reciproco bisogno d’ajuto e di conforto. E la prima guerra finì.

Romolo tentenna il capo e sorride.

Vede in mente come, dopo le prime due, nacquero le altre case di questa borgata, quando i figliuoli da una parte e dall’altra crebbero, e alcuni fecero nozze tra loro e altri portarono da lontano chi la moglie, chi il marito.
Ah, una di qua, una di là, quelle case! Non propriamente nemiche. No. Scontrose. Le spalle non se le voltavano; ma l’una s’era messa un po’ di fianco e l’altra un po’ di traverso, come se tra loro non volessero vedersi in faccia. Finché, con l’andare degli anni, tra questa e quella una terza non sorse in mezzo, come paciera, a riunirle.

– Per questo, – dice Romolo, – le strade antiche dei piccoli paesi sono tutte storte, che ogni casa vi scantona.

Per questo, sì. Ma poi viene, o Romolo, la civiltà coi piani regolatori, che obbligano le case a stare in riga.

– La guerra allineata, – tu dici.

Sì; ma civiltà vuol dire appunto il riconoscimento di questo fatto: che l’uomo, tra tanti altri istinti che lo portano a farsi guerra, ha anche quello che si chiama istinto gregario, per cui non vive se non coi suoi simili.

– E or dunque vedi da questo, – tu concludi, – se l’uomo può mai essere felice!

 
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Crepuscolo a febbraio (Teasdale)

Post n°669 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Ero sulla collina accarezzata
dalla pallida breve nevicata.
Solitaria una stella mi guardava
nella sera che gelida brillava.
Altra creatura a parte me non v'era
che vedesse quel che vedo io.
Contemplai la mia stella nella sera,
finchè il suo sguardo s'incontrò col mio.

 
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Libri dimenticati:Un caso di coscienza

Post n°668 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Jean Scofield è una valente pediatra con una tragedia alle spalle:suo marito,Cliff, è morto in Vietnam nell'ospedale da campo che dirigeva e lei per le ferite ha perso il bimbo che attendeva.
Tornata in patria,ora Jena lavora presso un grande ospedale ed è nel reaprto pediatria che un giorno,in preda ad un attacco epilettico,viene ricoverato il piccolo Bobby,figlio di un promettente dirigente e di un'ex modella.
Gli esami rivelano che Bobby ha un ematoma cerebrale,e ben presto Jean scopre che il piccolo viene anche maltrattato in casa.
Inizia così per lei una durissima battaglia,sia professionale che privata,per ristabilire la verità,che sarà sconvolgente.
Per chi ama i libri di ambiente medico,è  da non perdere

 
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Frase del giorno

Post n°667 pubblicato il 09 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Tante teste,tanti pareri!

 
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