Messaggi del 15/09/2011

Non era buona a nulla

Post n°739 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Il giudice stava affacciato alla finestra, con i polsini inamidati, una spilla sullo sparato della camicia e tutto ben rasato; si era rasato lui stesso e in realtà si era fatto un tagliettino, ma lo aveva già coperto con un pezzetto di giornale.
«Senti, ragazzo!» chiamò.
Il ragazzo non era altri che il figlio della lavandaia, che stava passando di lì. Rispettosamente, si tolse il berretto, che si poteva piegare e era fatto apposta per essere messo in tasca. In quei vestiti miseri, ma puliti e rattoppati con cura, ai piedi pesanti zoccoli di legno, il ragazzo se ne rimaneva rispettosamente fermo come si fosse trovato davanti al re in persona.
«Sei un bravo ragazzo!» disse il giudice «e sei un ragazzo educato. Tua madre sta sciacquando i panni giù al ruscello, vero? e tu stai andando là a portarle quello che hai in tasca. Brutta storia, questa di tua madre! Quanto ne hai?»
«Mezzo quarto» disse il ragazzo spaventato, con una vocina debole.
«E stamattina ha avuto lo stesso?» continuò l'uomo.
«No, era ieri» rispose il ragazzo.
«Due mezzi quarti fanno un quarto! Non è buona a nulla: fa proprio pena questa gente! Di' a tua madre che dovrebbe vergognarsi, e non diventare anche tu un ubriacone; ma tanto lo diventerai di sicuro! povero ragazzo, vai adesso!»
E il ragazzo se ne andò; teneva il berretto in mano e il vento gli soffiava tra i capelli biondi che si sollevavano a ciuffi. Girò in una strada, entrò in un vicolo fino a che arrivò al ruscello; lì la madre era nell'acqua vicino a un cavalletto e batteva la pesante biancheria con una mazza. C'era una forte corrente nel ruscello, perché le chiuse del mulino erano aperte; il lenzuolo veniva trascinato dalla corrente e stava per ribaltare il cavalletto: la lavandaia doveva trattenerlo con forza.
«Non ce la faccio quasi più!» disse «per fortuna sei arrivato. Ho proprio bisogno di recuperare un po' le forze. Fa freddo nell'acqua, e sono già sei ore che sto qua. Mi hai portato qualcosa?»
Il ragazzo tirò fuori la bottiglia che la madre si portò alla bocca, bevendone un sorso.
«Ah, come va giù bene, e come riscalda! È come mangiare del cibo caldo, ma non è così caro! bevi anche tu, ragazzo mio! Sei così pallido, stai gelando con quei vestiti leggeri! E poi è già autunno. Uh, l'acqua è gelida! Speriamo di non ammalarmi! No, non c'è pericolo. Dammi un altro sorso e bevine anche tu ma solo un goccio, non ti devi abituare a bere, povero ragazzo mio!»
Salì sul ponte dove si trovava il ragazzo e raggiunse la riva; l'acqua colava dalla stuoia che aveva intorno alla vita e gocciolava dalla gonna.
«Sgobbo talmente che quasi mi esce il sangue dalle unghie, ma non mi importa, purché riesca a fare di te un bravo ragazzo, figlio mio!»
In quel momento arrivò una donna più anziana, scarna e poveramente vestita, zoppa da una gamba e con un grosso ricciolo fìnto che le scendeva su un occhio guercio, per nasconderlo, rendendo in realtà il difetto più appariscente, i vicini la chiamavano "la zoppa col ricciolo".
«Poveretta! Come ti affatichi nell'acqua gelida! Hai certo bisogno di qualcosa per riscaldarti, e pensare che la gente ti critica perché bevi un goccio!» e subito il discorso tenuto dal giudice al ragazzo venne riferito alla lavandaia, perché la vecchia lo aveva sentito e si era arrabbiata a sentir parlare in quel modo a un ragazzo di sua madre per quel poco che beveva; quando poi il giudice organizzava pranzi con vino a volontà. «Vini pregiati e vini forti, e quasi tutti bevono più del necessario! Ma per loro quello non vuol dire bere! Loro vengono rispettati, tu invece non sei buona a nulla!»
«Ti ha parlato così, figlio mio?» chiese la lavandaia, le labbra tremanti. «Tua madre non è buona a nulla! Forse ha ragione ma non dovrebbe dirlo al ragazzo. Certo che ricevo molti dolori da quella casa!»
«Già, hai servito da loro quando i genitori del giudice ancora vivevano! Quanti anni sono passati! E hai dovuto ingoiarne di bocconi amari da allora, puoi ben avere sete!» disse ridendo la vecchia. «Oggi c'è un pranzo importante dal giudice, doveva venire annullato ma ormai è troppo tardi e poi il cibo è già pronto. L'ho saputo dal servo. Meno di un'ora fa è arrivata una lettera che annunciava che il fratello più giovane è morto a Copenaghen.»
«Morto!» gridò la lavandaia, impallidendo.
«Come!» esclamò la donna «te la prendi tanto? Certo lo conoscevi dal tempo in cui prestavi servizio in casa.»
«È morto! era l'uomo migliore del mondo, il più buono! Il Signore non ne ha tanti come lui!» e le lacrime le scorrevano sulle guance. «Oh Dio! mi gira la testa! Forse perché ho finito la bottiglia. Non lo sopporto più! Sto così male!» e si appoggiò al cavalletto.
«Signore! stai proprio male!» disse la donna. «Cerca di riprenderti! No, stai proprio male. E meglio che ti porti a casa.»
«E la biancheria?»
«Me ne occupo io. Prendimi sottobraccio. Il ragazzo può restare qui a controllare finché non tornerò a lavare il resto: non è molto.»
La lavandaia non si reggeva in piedi.
«Sono stata troppo tempo nell'acqua gelata. Da stamattina non ho bevuto né mangiato. Mi sento la febbre in corpo! Oh, Signore Gesù, aiutami ad arrivare a casa! povero figlio mio!» e piangeva.
Il ragazzo si mise a piangere anche lui e sedette in riva a ruscello vicino alla biancheria bagnata. Le due donne si avviarono lentamente, la lavandaia vacillava, camminarono lungo il vicolo, poi per la strada proprio davanti alla casa del giudice, e la donna cadde a terra. La gente le si affollò attorno.
La vecchietta entrò in casa a cercare aiuto. Il giudice si affacciò alla finestra con i suoi ospiti.
«È la lavandaia!» esclamò «ha bevuto troppo. È una buona a nulla! È un peccato per il suo bel figliolo, voglio molto bene a quel ragazzo, ma la madre non è buona a nulla.»
La donna rinvenne e venne portata nella sua misera casa, e messa a letto. La vecchia amica andò a scaldare una scodella di birra con burro e zucchero, che secondo lei era la medicina migliore. Poi tornò al ruscello e sciacquò tutto molto male, ma con buona volontà, riportò la biancheria a terra e la mise in una cassa. Verso sera tornò nella misera casa della lavandaia. Aveva avuto dalla cuoca del giudice due patate rosolate con lo zucchero e un bel pezzo di prosciutto grasso per la malata, ma se lo mangiarono lei e il ragazzo; la malata si riprese sentendone l'odore. «È così sostanzioso!» disse.
Il ragazzo andò a dormire nello stesso letto dove si trovava la madre, ma il suo posto era di traverso dalla parte dei piedi, con una vecchia coperta ricavata da strisce di stoffa azzurra e rossa cucite insieme.
La lavandaia stava un po' meglio; la birra calda le aveva ridato forza e l'odore del buon cibo le aveva fatto bene.

«Grazie, amica mia!» disse alla vecchia. «Ti dirò tutto, quando il ragazzo si sarà addormentato. Credo anzi che dorma già. Non ha una espressione dolce e beata, con gli occhi chiusi? Non sa che vita fa sua madre, che il Signore non glielo faccia mai provare! Io ero a servizio nella casa del consigliere il padre del giudice, e un giorno tornò a casa il più giovane dei loro figli, studente all'università. A quel tempo ero giovane e impetuosa, ma onesta, questo lo posso affermare davanti a Dio» raccontò la lavandaia. «Lo studente era così allegro e felice, aveva un carattere tanto buono e sincero. Non è certo esistito un uomo migliore di lui sulla terra. Lui era il figlio del padrone e io ero solo una cameriera, ma ci fidanzammo, restando puri e onesti. Un bacio non è certo un peccato quando ci si vuol bene. Lo raccontò a sua madre, che per lui era come il Dio in terra, così intelligente, affettuosa e amabile. Poi lui ripartì, ma mi mise l'anello d'oro al dito. Quando era ormai lontano, sua madre mi chiamò da lei, seria, ma con molta dolcezza, mi parlò, come avrebbe fatto il Signore; mi spiegò la differenza che c'era tra me e lui. "Ora lui vede solo che sei bella, ma la bellezza sfiorirà! Tu non sei istruita come lui, non riuscirete a comprendervi sul piano spirituale e proprio qui sta il male. Rispetto il povero" riprese "presso Dio avrà forse un posto migliore di molti ricchi, ma sulla terra non si può seguire un binario sbagliato quando si va avanti, altrimenti il carro si ribalta, e voi con lui! So che un uomo onesto, un artigiano ti ha chiesto in sposa, è Enrico il guantaio; è vedovo e non ha figli; e se la passa bene. Pensaci!" Ogni parola pronunciata era come un coltello che mi trafiggeva il cuore, ma quella donna aveva ragione e questo mi ossessionava e mi opprimeva; le baciai la mano e piansi lacrime amare, ma piansi ancora di più in camera mia quando mi buttai sul letto. La notte che venne fu una brutta notte, il Signore sa che cosa ho sofferto. La domenica andai all'altare del Signore, per far luce dentro di me. Fu come un segno della Provvidenza: uscendo dalla chiesa incontrai Enrico il guantaio. Allora non ebbi più dubbi, eravamo adatti l'uno all'altra per ceto sociale e condizione, e lui era anche benestante, così andai diretta da lui, gli presi la mano e gli chiesi: "Pensi ancora a me?". "Sì, per sempre!" rispose. "Vuoi una ragazza che ti stima e ti rispetta, ma che non ti ama? L'amore potrà venire dopo." "Verrà!" replicò e così ci prendemmo per mano. Tornai dalla mia padrona; quell'anello d'oro che suo figlio mi aveva dato, lo portavo sul petto; non lo potevo certo mettere al dito di giorno, ma lo facevo di notte, quand'ero a letto. Baciai l'anello finché mi sanguinò la bocca e poi lo diedi alla mia padrona dicendo che la settimana dopo sarebbe stato annunciato dal pastore il matrimonio tra me e il guantaio. Lei mi abbracciò e mi baciò; non disse che non ero buona a nulla, ma forse allora ero migliore, anche se non avevo ancora provato tante tribolazioni. Così venne celebrato il matrimonio, il giorno della Candelora - e il primo anno andò bene, avevamo un aiutante e un garzone e tu ci servivi in casa.»
«Oh, eri un'ottima padrona!» le disse la vecchia «non dimenticherò mai quanto siete stati buoni, tu e tuo marito.»
«Furono anni felici quelli. Figli non ne avevamo. E io non rividi mai più lo studente. O meglio, lo vidi, ma lui non mi vide. Era venuto per il funerale di sua madre. Lo vidi vicino alla tomba, era bianco come il gesso e tristissimo, ma certo a causa di sua madre. Quando poi morì suo padre, si trovava all'estero e non tornò a casa, e da allora non è più tornato. So che non si è mai sposato, credo che sia diventato procuratore. Di sicuro non si ricordava di me, e se anche mi avesse rivista, non mi avrebbe certo riconosciuta, sono così brutta adesso. Forse è stato un bene!»
Poi raccontò dei duri periodi di sofferenza, della sfortuna che li aveva colpiti in continuazione. Possedevano cinquecento talleri e dato che nella loro strada c'era una casa che costava duecento talleri e che valeva la pena di demolire e ricostruire, la comprarono. Il muratore e il falegname fecero un preventivo di milleventi talleri: Enrico il guantaio aveva buon credito e ottenne un prestito da Copenaghen, ma la nave che lo doveva portare naufragò e con essa anche i soldi!
«In quel tempo nacque il mio caro figliolo che ora dorme. Suo padre si ammalò di una lunga e grave malattia, dopo nove mesi dovevo vestirlo e svestirlo io. Andò sempre peggio per noi, facemmo debiti sempre più grossi, tutta la nostra merce andò perduta e infine mio marito morì. Io ho faticato molto, moltissimo per questo figlio; ho lavato scale, biancheria fine e grossa, ma il Signore non vuole che le cose mi vadano meglio, così un giorno si libererà di me e avrà cura del ragazzo.»
Così dicendo, si addormentò.
Il mattino dopo si sentì guarita e abbastanza in forze per tornare a lavare, così almeno credeva. Era appena entrata nell'acqua gelida quando le vennero i brividi e si sentì debole. Annaspò disperatamente, fece un passo per risalire e cadde in acqua. Aveva la testa sulla terra asciutta, mentre i piedi stavano nel ruscello; gli zoccoli di legno che aveva quand'era in acqua e che aveva riempito di paglia per tenersi calda galleggiavano spinti dalla corrente. Venne trovata così dalla vecchia Marietta che le stava portando un caffè.
Il giudice le aveva detto che la lavandaia doveva recarsi immediatamente da lui, perché aveva qualcosa da dirle. Ma era troppo tardi. Venne chiamato il barbiere per fare un salasso; la lavandaia era morta.
«È morta per il troppo bere!» commentò il giudice.
Alla lettera che annunciava la morte del fratello era stata allegata copia del testamento: seicento talleri dovevano essere dati alla vedova del guantaio, che una volta era stata a servizio dai genitori. Il denaro poteva venir diviso, come meglio credevano, tra lei e il figlio.
«C'è stato certo qualcosa tra lei e mio fratello!» disse il giudice. «Per fortuna che lei ormai se n'è andata, il ragazzo riceverà tutta la somma e io lo metterò a lavorare da gente onesta, così diventerà un bravo artigiano.»
Il Signore benedisse quell'augurio.
Il giudice chiamò a sé il ragazzo, gli promise che avrebbe avuto cura di lui e gli disse che era un bene che sua madre fosse morta, dato che non era buona a nulla.
Fu portata al cimitero, al cimitero dei poveri. Marietta piantò una pianta di rose sulla tomba e il ragazzo le stava vicino.
«La mia cara mamma!» esclamò tra le lacrime «è proprio vero: non era buona a nulla!»
«Ti sbagli, era buona, invece» rispose la vecchia guardando verso il cielo. «Lo so da tanto tempo e soprattutto dall'ultima notte. Te lo dico io che era buona! e lo dice anche Nostro Signore che sta nel regno dei cieli. Lascia che gli altri dicano: "Non era buona a nulla!".»

 

Hans Christian Andersen




 
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La mamma cattiva

Post n°738 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Si racconta dunque che c'era una volta una donna tanto bella, ma tanto bella, che una più bella era impossibile trovarla. E per via della sua bellezza era molto altezzosa. D'altra parte, come darle torto?
Il suo volto era più bianco della neve, ma sfumava nel rosso; gli occhi erano più neri delle more mature, ma lanciavano scintille; e i capelli - Dio santo! - a che cosa li potrei paragonare? Erano come un pennacchio di seta nera che sfavillava e cadevano giù sulle spalle formando migliaia di anelli, alcuni più grandi, altri più piccoli; la sua boccuccia, avresti pensato che fosse una ciliegia spaccata in due; il collo, le mani, i piedi e tutto il corpo erano così belli, che vantarsi di aver visto una bellezza del genere è un fatto assai raro.
Lei sapeva bene che la gente la ammirava per la sua bellezza e proprio di ciò andava molto orgogliosa, tanto che ogni mattina usciva di casa all'alba e chiedeva:
«O sole risplendente dimmi tu chiaramente dimmi sinceramente: hai tu veduto mai, mentre in giro ten vai, faccia pari alla mia? Una faccia di donna altrettanto piacente? Una faccia di sposa altrettanto armoniosa?»
Il sole la stava a guardare per un attimo, pensava un po' e le rispondeva:
«Ho girato molto per il mondo, ho visto molte donne belle, ma più bella di te non ce n'è nessuna, tranne tua figlia ».
Cosi la donna interrogava il sole, e il sole le rispondeva sempre allo stesso modo, sicché pian piano scomparve l'amore materno che questa donna aveva per la propria figliola. Giorno e notte pensava al modo per poterla annientare. Non riusciva a dormire, non trovava nessun gusto nel cibo e nella bevanda, non le piaceva più niente; aveva un unico desiderio: di non avere più quella ragazza, o almeno che non fosse così bella.
Una notte ebbe una gran febbre, mal di capo e pulsazioni di cuore. Senza attendere l'arrivo dell'alba, chiamò il servo e gli disse:
«Toader, conduci la ragazza da qualche parte e non riportarmela più a casa; portami solo il suo cuore e il dito mignolo, hai capito?».
«Ho capito, padrona.»
Il servo andò con la ragazza, finché arrivarono a un gran bosco; là egli le disse quale ordine avesse ricevuto dalla sua padrona. Allora la ragazza cominciò a piangere e a pregarlo:
«Sii buono, non togliermi la vita, perché non è colpa mia se Dio mi ha fatta più bella di mia madre. Tagliami pure il mignolo, ma il cuore non levarmelo dal petto; prendi quello del cagnolino che viene con noi, portalo alla mamma e dille che è il mio. Io a casa non ci tornerò più».
Il servo si rivelò assai più umano della madre: uccise il cagnolino, gli prese il cuore, tagliò il mignolo della ragazza e ritornò a casa dalla sua padrona.
La ragazza pensò che era meglio rimanere nel bosco: meglio essere divorata dalle belve, che essere uccisa dagli uomini.
Cercò dunque di farsi coraggio e si mise a cantare; e cantando continuò a camminare nelle tenebre del bosco. A un certo punto si ferma. Vede davanti a sè un palazzo, più bello di quello dell'imperatore.
«Di chi sarà mai? Un palazzo così bello nel cuore del bosco? Sia di chi sia», dice tra sé e sé «io entro, ché certo non mi mangeranno i signori del palazzo.»
La ragazza entra nel palazzo, guarda in tutti gli angoli, ma non scorge nessuno. Infine, vedendo che nel palazzo non c'è anima viva e considerando che le stanze non sono del tutto vuote, crede che sia bene pulirle come si deve; può darsi che la massaia del palazzo sia morta e che gli uomini non siano in grado di fare i lavori femminili .
E così la ragazza va ad attingere acqua, spazza e lava i pavimenti, toglie la polvere dalle sedie e dalle tavole, poi si ficca dietro il forno, perché gli abitanti del palazzo non la vedano.
Non passa molto tempo, che arrivano i giganti, perché il palazzo era loro. Dio, come furono contenti quando videro le stanze ben rassettate, così belle che sembrava aspettassero i pretendenti. E cominciarono a domandarsi chi mai poteva aver fatto quel bel lavoro, mentre loro erano a caccia.
Uno di loro disse che poteva essere stata soltanto la loro mamma o la loro sorella. E, cercando, la trovarono e la chiamarono "la loro sorella".
Il giorno dopo la donna superba si presentò al sole e gli chiese nuovamente se c'era al mondo una donna più bella di lei. Il sole non restò a parlare con lei, ma continuando per la sua strada le rispose:
«Fosti bella quando fosti, ma ora vali molto poco. Sei stata la più bella delle donne, ma adesso sei la più brutta. Hai pensato di disfarti di tua figlia, perché nessuno potesse superarti in bellezza. Ma ti sei sbagliata di grosso, scellerata che non sei altro, perché lei è ancora viva ed è molto più bella di te, anzi, adesso è nel palazzo dei giganti».
Il mattino seguente, la donna superba si mise in viaggio e camminò finché non giunse al palazzo dei giganti. Là si sedette accanto alla porta e cominciò a lamentarsi, a piangere e a sospirare.
«Sii buona, figlia mia, non lasciarmi qui davanti alla tua porta ma fammi entrare! Altrimenti, apri un pochino la porta, ch'io ti possa vedere per l'ultima volta! Poi, non mi importa se morirò.»
La ragazza aprì un poco la porta, ma sua madre le si avventò contro come una dragonessa ficcandole il dito in bocca e facendola cadere a terra morta. Poi la madre ritornò a casa.
Quando i giganti ritornarono a casa dalla caccia, la trovarono morta. La piansero e si lamentarono a lungo, come una loro sorella. Infine le fabbricarono una bara d'oro e la collocarono sulla cima di un sicomoro, affinché il vento la cullasse e gli uomini la vedessero e si meravigliassero del cuore indemoniato dÌ sua madre.
E i venti la cullavano per tutta la giornata, insieme con le fronde del sicomoro; e la gente la vedeva e si meravigliava dicendo che una ragazza così bella il sole non l'aveva mai veduta; altri ancora si facevano il segno della croce e dicevano:
«Signore, proteggici dalla follia! Il diavolo ha spinto quella madre a uccidere sua figlia! E che figlia! Ah, cervello delle donne, quando mai funzionerai per il verso giusto?».
La donna superba, l'assassina di sua figlia, si presentò di nuovo al sole e gli chiese:
«O sole risplendente dimmi tu chiaramente, dimmi sinceramente: hai tu veduto mai, mentre in giro ten vai una faccia leggiadra bella come la mia?»
E il sole: «Sparisci, pazza! Sparisci, maledetta ignobile, miserabile! Di folli e miserabili ne ho viste parecchie, ma una come te non saprei dove trovarla, nemmeno se la cercassi anche di notte, e non solo di giorno, secondo la mia abitudine. Ignobile che non sei altro! Ammazzare la propria figliola, perché si è fatta più bella di lei! Ma non lo sapevi, balorda, che Dio ha voluto che i giovani fossero più belli dei vecchi, e che i vecchi fossero più assennati dei giovani?».
La notizia di questo fatto si diffuse dappertutto; e così la venne a sapere anche il figlio dell'Imperatore, il quale andò subito in quel luogo e pregò i giganti che gli permettessero di farla scendere giù di là.
Dopo molte preghiere, i giganti acconsentirono.
Il figlio dell'Imperatore fece scendere la ragazza dal sicomoro giocò con lei come se fosse stata viva. Per caso, solo Dio sa come la colpì sul capo; subito il dito le saltò fuori dalla gola e la ragazza resuscitò.
Vi potete immaginare la gioia dei giganti e del figlio dell'Imperatore; tutti la coprivano di baci.
Poi il figlio dell'Imperatore la prese con sé e se la portò a casa, nel palazzo imperiale, dove si sposarono e celebrarono uno sposalizio grandioso, come lo possono fare solo gl'imperatori.
E, se non sono morti, sono ancora vivi Si dice che sua madre impazzì per la rabbia, quando venne a sapere che la ragazza era diventata imperatrice.

E io dico che fu la ricompensa per il cuore malvagio di quella madre.

 
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La tartaruga stregata

Post n°737 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

’era una volta un imperatore con tre figli. Giunta l’età giusta per sposarsi, l’imperatore disse:
“Bambini miei, siete diventati grandi, è tempo di andare a cercare le vostre promesse spose e così anche voi farete parte del mondo degli adulti!”
“ Le tue parole sono sante come una icona” risposero i figli.
Dopo aver baciato la mano del padre andarono a preparasi per la partenza.
Il primogenito indossò i migliori vestiti che aveva, prese con se molto denaro e accompagnato da un piccolo esercito si diresse all’Est. Arrivò al castello dell’ imperatore dell’Est che aveva una figlia unica. La chiese in sposa e la risposta fu positiva.
Anche il secondo figlio che era partito verso Ovest ed aveva fatto tutto come il fratello maggiore: tornò fidanzato con la figlia dell’imperatore di Ovest.
Il terzo fratello non aveva voglia di fidanzamenti ma visto che il padre insisteva tanto partì anche lui, ma senza sapere dove andava, un poco di qua, un poco di là. Non mise vestiti speciali ma quelli che indossava normalmente. Camminava in modo svogliato mettendo un piede di fronte all’altro, tanto per dire che si muoveva…
Il sentiero che seguiva lo portò in riva ad un laghetto. Tanto per fare qualcosa raccolse un rametto poi si sedette. Cominciò a muovere il bastoncino nell’acqua creando sulla superficie del laghetto delle onde a forma di cerchio. Guardava i cerchi che si allargavano sempre più fino a sparire del tutto.
Dall’acqua spuntò una tartaruga che lo guardava teneramente. Egli continuò a fare cerchi nell’acqua e la tartaruga era lì ma sprofondato nei suoi pensieri non la vide. Finalmente si accorse che una tartaruga seguiva la punta del suo bastone e la guardò.
Sentì una strana sensazione come se il cuore gli dicesse qualcosa. Dimenticandosi della ricerca della sposa tornò al laghetto nei due giorni successivi. Il terzo giorno si ricordò finalmente perché si trovava in viaggio!
Quando decise ormai di partire la tartaruga saltando fuori dall’acqua gli lancio uno sguardo profondo. Voleva partire ma le gambe non rispondevano…era bloccato.
”Sarebbe questa la mia fidanzata?!” disse a voce alta.
“Ti ringrazio amore mio” rispose la tartaruga. “Le tue parole hanno rotto l’incantesimo che mi teneva incatenata. Tu sei il mio promesso sposo e ti seguirò finché vivrò."
Il giovane si spaventò a sentire la tartaruga parlare e sarebbe scappato via se la voce non fosse stata dolce come il miele. La tartaruga si capovolse tre volte e diventò una stupenda e delicatissima fata.
Il ragazzo se ne innamorò perdutamente ma non si mosse per paura di non far svanire la straordinaria apparizione.
Si misero a parlare e neanche loro sapevano cosa stessero dicendo… Qui cominciava una cosa, là veniva dimenticata un’altra…finché si accorsero che era calata la sera.
Visto che l’indomani i due fratelli maggiori avevano l’intenzione di presentare a corte le loro fidanzate, il giovane disse che sarebbe tornato al palazzo per avvisare l’imperatore che anche lui aveva trovata la sua futura sposa.
La tartaruga tornò nel laghetto e il principe si diresse al castello di suo padre.
Mentre camminava gli sembrava che qualcuno lo tirasse per la giacca all’indietro. Egli si girava ma non vedeva niente.
Quando giunse trovò tutti riuniti da suo padre. Lui racconto la sua avventura ma quando disse di aver rivolto alla tartaruga le parole: “tu sarai la mia fidanzata” scoppio una risata fragorosa e cominciarono a prenderlo in giro. Lui pensò: “ridete pure, vediamo chi ride per ultimo.”
L’indomani ogni ragazzo andò a cercare la propria ragazza e l’imperatore ordinò di adornare il palazzo a festa. Tutto il popolo era venuto al castello per vedere le principesse.
Arrivarono l’uno, poi l’altro i due fratelli maggiori con le loro fidanzate. Per dire il vero anche loro erano bellissime. I vestiti stavano loro a pennello. Portavano tesori come dote: schiavi, cavalli, carri forzieri.
L’imperatore le ricevette così come un imperatore deve ricevere i figli di imperatori.
Quando furono tutti presenti tornarono a parlare della tartaruga e a sparlare del fratello più giovane. L’imperatore era addolorato poiché amava tutti figli e non voleva che il più giovane fosse preso in giro dai fratelli. Di fronte al padre i due grandi non osavano ma quando il padre non era presente lo deridevano allegramente.
Anche il minore era andato a prendere la sua fidanzata, la tartaruga. Uscita dall’acqua dopo essersi capovolta per tre volte tornò umana. Parlarono molto poi lui le disse di prepararsi per andare.
Lei rispose: “Carissimo fidanzato, sappi che pure io sono figlia di un grande imperatore ricco e potente ma il nostro regno è stato stregato: il nostro palazzo ricoperto dall’acqua sporca del lago e l’impero portato via dai nemici.”
La sua voce dolce, le cose che diceva avevano completamente fatto girar la testa al principe.
Riscuotendosi egli disse: “Sarai la mia sposa e non ha importanza quel che dice la gente, Vai a vestirti per partire, ci aspettano mio padre, i fratelli e le cognate.”
La fata aggiunse:“Si usa fare il bagno prima delle nozze!”
“Lo faremmo al castello di mio padre”
“Perché disturbare lì?” e facendo un segno con la mano le acque si ritirarono e al loro posto si poterono vedere dei palazzi meravigliosi coperti d’ oro luccicanti al sole del mattino.
La fata lo prese per mano ed entrarono nel palazzo.
Egli era sbalordito della bellezza e la ricchezza dei luoghi. Il principe aveva timore di calpestare i pavimenti fatti con marmi preziosi. Finito il bagno uscirono nel giardino immerso in un atmosfera ricca di profumi inebrianti. La principessa fece portare all’ingresso una carrozza tempestata di gemme preziose con struttura in oro.
Sedettero nella carrozza e fra i capelli della ragazza si accesero le luci di mille stelle. I loro vestiti erano fatti con meravigliosi tessuti.
I cavalli si mossero: sembravano volare…In un attimo giunsero al castello del padre che già si preoccupava per il ritardo.
Quando li videro, tutti capirono che la sposa veniva da un mondo di favola e si affrettarono a congratularsi con lo sposo. Nessuno aveva mai visto riunite tanta bellezza e ricchezza.
I fratelli maggiori si pentirono delle loro risate. L’imperatore non stava più nella pelle dalla felicità.
La fata dimostrò amicizia e bontà con tutti. I presenti vedevano e ascoltavano solo lei. I fratelli maggiori consigliarono alle loro spose di imparare i modi della loro cognata.
L’imperatore vedeva esaudito il suo desiderio di far sposare i tre figli tutti nello stesso giorno.
Usciti dalla chiesa cominciò la musica e tutti ballarono ma nessuno era bravo come la sposa del figlio minore.
La sera l’imperatore dette un gran banchetto per tutti: dai nobili all’ultimo popolano.

Ero anch'io da quelle parti. Visto che ho avuto anch'io un osso da spolpare, ho pensato di raccontarvi, vostri signori, cose che se credute, mi farebbero passare per bugiardo..... …







 
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Lieto evento a S-Tobia 2

Post n°736 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,gli abitanti del paesino aumentano! E' nato Aristotele Piripicchi,figlio di Sigismondo e di Andromaca Scozzagalli,nipote del Melchiorre.La sua nascita,però,è stata però preceduta da infinite tribolazioni a causa dell'apprensione paterna.
Ma bando alle ciance e veniamo ai fatti.
LUNEDI'- Era questione di giorni e il Piripicchi aveva i nervi a fior di pelle.Stamattina,quando ha sentito urlare l'Andromaca in cucina,l'ha caricata in auto ed è partito a razzo.
Dopo mezz'ora l'Andromaca è riuscita a spiegargli che l'urlo era dovuto al fatto che si era scottata la lingua con il caffè bollente.Intanto però sono stati fermati dalla stradale per eccesso di velocità (260 km/h).Sigismondo si è beccato una multa salatissima e gli hanno ritirato la patente per sei mesi.
MARTEDI'- Tornato a casa in pausa pranzo,Sigismondo ha trovato la moglie piegata in due in salotto e ha chiamto il 118.L'Andromaca aveva perso un orecchino e lo stava cercando..
Il Piripicchi èstato quasi strangolato con uno stetoscopio.
MERCOLEDI'- Sigismondo ha piantato in asso trenta persone (lavora all'anagrafe) per correre a casa:al telefono aveva sentito la moglie un po' strana.In realtà l'Andromaca gli aveva risposto masticando un boccone di pane.
Solo l'intervento di Cuccurullo ha salvato i Piripicchi.
GIOVEDI'- I Piripicchi erano al cinema quando l'Andromaca si è accasciata sulla poltrona tenendosi la pancia.
Sigismondo ha mobilitato tutti quanti,per scoprire poi che sua moglie si era fatta venire il mal di pancia da ridere.
Sigismondo è vivo solo grazie al suo passato di centometrista.
VENERDI'- La moglie era pallida e sudava.In preda al panico,il Piripicchi ha chiamato gli Scozzagalli.
Quelli si sono scapicollati,hanno scoperto che l'Andromaca aveva fatto indigestione di cozze e hanno ricoperto d'insulti il Sigismondo.
SABATO-Tornato a casa Sigismondo,non trovanod la moglie,ha pensato che si fosse sentita male,avesse chiamato l'ambulanza e fosse in ospedale,così ha inforcato la bicicletta.
Due ore dopo ,arrivato ed appreso che la moglie non c'era, ha dato in escandescenze ed ha passato la notte in guardina.
L'Andromaca era andata dal parrucchiere.
DOMENICA- Durante la notte sono cominciate le doglie.L'Andromaca ha tentato di svegliare il marito,ma quello dormiva come un sasso,per cui ha dovuto chiamare Virgilio.
Sigismondo ha saputo di essere diventato padre solo 8 ore dopo,quando la suocera è riuscita a svegliarlo.
Sono passate due settimane.
Madre e figlio stanno benissimo.
Il Piripicchi è uccel di bosco:dopo quel che ha combinato per lui a S.Tobia tirava un'aria tale che si è ricordato di un impegno improrogabile nel Burundi meridionale.
Come sempre,passo e chiudo




Tornare in alto

 
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La favola del maiale

Post n°735 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Si racconta che c’erano una volta un vecchio e una vecchia. Lui aveva cento anni e lei novanta. Erano bianchi come l’inverno e tristi come una giornata grigia perché non avevano bambini. Dio come desideravano almeno un figlio! Tutto il giorno stavano soli e gli fischiavano le orecchie per il silenzio della solitudine. Non avevano nessun motivo di essere contenti: una baracca mal ridotta arredata con stracci su assi di legno. Da un po di tempo nessuno bussava più alla loro porta.
Un giorno la vecchia dopo un profondo sospiro disse:
-Vecchio, mai nessuno ci ha chiamato Mamma o Papà. Forse non c'è ragione di vivere ancora in questo mondo...ormai da noi non si sente neanche un PADRE NOSTRO.
-Hai ragione nessuno dice una preghiera per noi...cosa faremo di fronte a Dio?
-Sai cosa ho pensato stanotte?
-Lo saprò se me lo dirai.
-Domani con le prime luci dell'alba alzati e cammina finche non incontri qualcosa. Qualsiasi bestiola, ma non un serpente, mettila nel sacco e portala a casa: Lo alleveremo come un figlio.
Il giorno dopo, il vecchio stufo di tanta solitudine e con tanta voglia di avere figli, usci presto di casa e camminò dritto davanti a sè fino a che arrivò ad una pozzanghera nella quale vide una scrofa con dodici maialini che si crogiolavano al sole. Quando si accorsero dell' arrivo del vecchio, scapparono tutti. Soltanto un maialino malridotto fece fatica ad uscire dalla pozzanghera. Il vecchio lo prese di corsa e lo mise nel sacco, così com’era coperto di fango.
“Sia lodato il Signore che posso portare alla mia Vecchia un conforto.”
Non ho idea se sia stato Dio o il diavolo a mettergli in testa questo pensiero! Arrivato a casa disse:
-Ecco che bel giovanotto ti ho portato…Somiglia tutto a te! Adesso abbi cura di lui poiché come vedi è mal ridotto!
-Non prenderlo in giro, anche lui è una creatura di Dio disse la vecchia e con l’agilità di una bambina si mise ad accudire il maiale.
Grazie alle cure ricevute il maiale crebbe e scoppiava di salute.
La vecchia era tanto felice di avere un figlio così grande, grosso e prestante. Non ascoltava la gente che diceva di lui che era brutto e maleducato. Era suo figlio e non c’era un altro come lui. La vecchia aveva un solo dispiacere: il maiale non li chiamava Mamma e Papà.
Un giorno il vecchio tornato dal mercato raccontò alla moglie le ultime notizie: l’imperatore aveva deciso di far sposare sua figlia a chi sarebbe stato capace di costruire un ponte magnifico tra la città e il castello. Doveva essere fatto in oro con addobbi in pietre preziose. Chi fosse riuscito nell’impresa oltre alla sposa avrebbe ricevuto anche metà del reame...ma chi non fosse riuscito avrebbe avuto la testa mozzata.
Il maiale stava ascoltando e all’improvviso si sentì una voce:
- Mamma, Papà lo costruisco io!
La vecchia fu felice di sentirlo parlare, il vecchio spaventato, sapendo che già molti principi avevano perso la testa nell’impresa.
Allora il maiale rassicurò i due vecchi e mandò il padre a dare la notizia all’imperatore.
Arrivato al portone del castello il vecchio venne fermato da una guardia :
-Cosa vuoi?
– Devo parlare con l’imperatore. Mio figlio s’impegna di fare il ponte.
Senza fare altre domande il guardiano accompagnò il vecchio dall’imperatore.
-Cosa posso fare per te vecchio mio?
-Lunga vita a te Imperatore!!Avendo saputo del ponte, mio figlio mi ha mandato per dirti che lui è capace di costruirlo.
-Allora lo costruisca se è capace e fallo venire al palazzo. Ma se non è capace si ricordi dei principi che non sono riusciti nell’impresa.
Dopo un profondo inchino il vecchio riprese la strada verso casa.
Dopo aver sentito la risposta dell’imperatore il maiale non vedeva l’ora di andare al castello.
La vecchia era triste sapendo che sarebbe restata un’altra volta da sola. Il maiale invece era impaziente.
-Andiamo Papà che mi deve vedere l’imperatore!- grugnì il maiale.
Arrivati al castello le guardie non riuscirono a trattenere le risate:
-Ma vecchio cos’è questa cosa?
-Ma è mio figlio che s’impegna a costruire il ponte! Un soldato anziano disse: -O ti manca qualche rotella, o sei stanco di vivere!
-Non è compito vostro di giudicarci- rispose il vecchio.
Allora l’imperatore venne informato della comitiva che chiedeva di entrare. Una volta dentro il vecchio timidamente non si allontanava dalla porta. Il maiale invece scorrazzava per la reggia in modo impertinente.
-Ma vecchio mio, quando sei venuto la volta scorsa sembravi lucido! Ma adesso non mi sembri con tutte le rotelle a posto.
L’imperatore non sapeva se doveva ridere o arrabbiarsi:
-Ma vecchio stai prendendo in giro proprio me, tuo imperatore!
-Non sia mai detto, ma è questo il figlio che si era impegnato a fare il ponte.
-E lui costruirà il ponte?
-Con l’aiuto di Dio così speriamo.
-Va porta fuori il tuo maiale e se entro domani non vedrò il ponte, la sua testa sarà all’altezza delle suole delle tue scarpe.
Il vecchio e il maiale ripresero la strada verso casa inseguiti da una compagnia di soldati incaricati dall’imperatore di sorvegliarli.
- Cosa hai fatto per venire coi soldati?- disse la vecchia.
- Ho fatto quel che volevi tu quando mi hai mandato in giro a cercare il nostro figlio sui campi.
Mentre i vecchi litigavano, il maiale girava per cercare di mangiare. Verso mattina, quando i genitori ormai si erano addormentati, il porcello si arrampicò sull’armadio e con una pedata ruppe il vetro della finestra e soffiando dalle narici due vampate di fuoco unì la casetta dei vecchi con il palazzo imperiale. Spento il fuoco, il ponte era fatto.
La capanna dei vecchi era diventata un palazzo più grande e luccicante di quello dell’imperatore.
Il vecchio e la vecchia si ritrovarono vestiti di porpora e tutte le ricchezze del mondo si trovarono nel loro castello. Il porcello ruzzolava in mezzo ai tesori.
Tutti questi prodigi spaventarono l’imperatore e i suoi consiglieri. Dopo un consiglio della corona si decise di inviare la principessa al palazzo del maiale senza perdere altro tempo.
Alla ragazza piacquero molto il palazzo e i suoceri. Restò di sasso alla vista dello sposo ma poi si disse: “Se questo è il volere di Dio e dei miei genitori…Così sia!” e si mise ad accudire il palazzo
Il maiale durante il giorno, come al solito girava per la casa. La sera, prima di andare a letto si toglieva la pelle di maiale e diventa un bellissimo principe.
La sposa si abituò. Dopo una, due settimane sentì nostalgia dei suoi genitori. Decise di fare visita al palazzo imperiale da sola vergognandosi di far vedere il marito.
I genitori chiesero informazioni sull’andamento della nuova coppia. Il padre consigliò la figlia di non contrariare il marito, visto che egli aveva dimostrato di avere poteri fuori dal comune.
La madre e la figlia andarono a passeggiare in giardino. La madre diede alla figlia dei consigli diversi da quelli dati dal padre.
-Devi accendere un gran fuoco nel camino e quando tuo marito si addormenta fai bruciare la pelle di maiale.
Tornata a casa la giovane eseguì ciò che aveva consigliato sua madre.
La pelle bruciò con molta puzza e rumore che svegliarono il marito. Per punizione egli racchiuse il ventre della moglie in un cerchio di ferro che sarebbe stato tolto solo quando lui vi avrebbe passato sopra la mano destra e solo allora sarebbe nato il loro figlio.
Si chiamava “Belfiglio” e andò a vivere nel monastero dell’Incenso! Un gran vento lo portò via.
Il ponte e il palazzo dei suoceri sparirono. Questi sgridarono la nuora. La ragazza non voleva tornare dal padre che non aveva ascoltato e decise di partire per il mondo alla ricerca del marito.
La ragazza camminò un anno per luoghi sconosciuti. Finalmente arrivò in un deserto mai visto prima. Bussò alla porta di una vecchissima casetta tutta coperta di muschio. Una voce di donna chiese
-Chi è?
- Sono una viandante!
– Se sei una brava persona vieni avanti, altrimenti ho un cane cattivissimo!
– Sono brava.
La porta si aprì e la ragazza entrò.
-Come hai fatto arrivare qui dove non viene nessuno?
-Cerco il monastero dell’INCENSO” e nessuno sa dirmi dove trovarlo.
- Forse sei fortunata…io sono Santa Mercoledì.
La Santa interrogò tutti gli esseri viventi nel suo regno ma nessuno conosceva il monastero. Prima di ripartire la ragazza ricevette un cornetto e un bicchiere di vino e inoltre un arcolaio d’oro.
Dopo un altro anno la ragazza giunse alla casa di Santa Venerdì e ricevette un fuso d’oro.
Dopo un altro anno arrivò alla casa di Santa Domenica e anche qui nessuno conosceva il monastero. Alla fine una vecchia cicogna si fece avanti: conosceva la strada ma era molto difficile seguirla. La Santa la pregò di accompagnare la ragazza.
Con l'aiuto della cicogna che ogni tanto la portava sulle sue ali, dopo aver attraversato luoghi pieni di pericoli, la ragazza arrivò all'ingresso di una grotta: la strada per il Paradiso. Qui la luce era abbagliante e la ragazza faceva fatica a vedere. Quando gli occhi si abituarono alla gran luce vide il ponte e il palazzo dove per troppo poco era vissuta con suo marito.
-Ecco il monastero dell'Incenso. Lì si trovava Belfiglio...ma aspetta a precipitarti verso il palazzo.
La cicogna le mostrò una fontana dove doveva andare a sedersi tre giorni di seguito portando con se i doni delle tre Sante. La cicogna la salutò e tornò da dove era partita.
La principessa si sedette sul bordo della fontana, e cominciò a filare un filo d'oro finissimo. Alla fontana vennero le cameriere del palazzo e una di loro, vista la strana ragazza, corse ad avvertire la governante del palazzo che era una strega.
La strega mandò a chiamare al palazzo la donna sconosciuta.
-Ho sentito che usi attrezzi magici d'oro. Sono forse in vendita?
-No, ma se mi lasci passare una notte nella camera dove dorme l’imperatore, l’arcolaio sarà tuo.
La seconda notte successe lo stesso con il fuso, ma la vecchia strega aveva fatto bere all’imperatore un potente sonnifero. La terza notte la ragazza riuscì finalmente a parlare a suo marito. Belfiglio la liberò dal cerchio di ferro e subito nacque un bellissimo bambino.
Si scopri che la strega era la scrofa che aveva trasformato il principe in maiale tramite un incantesimo e l’imperatore ordinò di tagliarle la testa.
I due giovani vissero per tantissimi anni felici e contenti.

 
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La principessa e i sette cavaleri

Post n°734 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un tempo, molto anni fa, in un angolo solitario della steppa russa, vivevano lo zar e la sua giovane sposa. Abitavano in un castello rosso con tante torri, circondato da un fiume che scorreva mormorando tra i prati coperti di fiori. D’inverno il fiume, gelato, scintillava al sole, e gli alberi si drizzavano verso il cielo, irrigiditi dal gelo.
Lo zar e la zarina erano molto felici perché si volevano bene. Ma un brutto giorno, un messaggero venne ad annunciare allo zar che era scoppiata la guerra ed egli dovette balzare a cavallo e partire a gran galoppo verso la lontana capitale. Così la giovane sposa rimase sola nel grande castello.
Trascorsero giorni e giorni e mesi, le stagioni mutarono lentamente: l’erba si colorì di fiori primaverili, i grandi girasoli volsero il capo verso il sole d’estate, il vento d’autunno fece cadere le foglie e ne coprì tutta la terra; e infine, sugli alberi, gli aghi di ghiaccio rifulsero al pallido sole d’inverno.
Fu proprio in una limpida notte d’inverno, in cui tante stelle scintillavano in cielo e tutta la natura taceva come se attendesse qualcosa, che il silenzio del castello fu rotto da un vagito di un bimbo.
Alla zarina era nata una bimba bellissima, dagli occhi turchini come il cielo di quella notte e dalla pelle candida come i cristalli di neve che si posarono sul davanzale della finestra. La zarina si chinò teneramente sulla culla e cantò una dolce ninnananna: ma la gioia era stata troppo grande per il suo cuore di mamma e, quando i primi raggi del sole del mattino illuminarono la sua stanza, ella si addormentò per sempre.
Le campane del castello sonarono a morto, e un messo venne inviato subito nelle lontane terre dove lo zar stava combattendo contro i nemici, per avvisarlo della sciagura che l’aveva così duramente colpito.
Lo zar corse e corse nella notte sul suo nero cavallo; corse senza mai concedersi riposo, più veloce del vento e del fulmine, ma, quando arrivò, la giovane zarina riposava già sotto la neve e la bambina piangeva agitando le manine nella culla di trine.
Così lo zar e la principessa restarono soli nel grande castello in mezzo alla steppa.
Trascorsero gli anni e la bimba cresceva buona e gioiosa e riempiva il castello dei suoi canti. La sera, attorno al fuoco scoppiettante nel cammino, lo zar le raccontava storie fantastiche di maghi, guerrieri ed eroi, e la bimba stava ad ascoltare assorta, sgranando gli occhi e tenendosi il volto tra le mani. Passarono ancora alcuni anni: la bimba crebbe e divenne una fanciulla bella come una Rosellina appena sbocciata, e tutti i principi dei dintorni vennero a chiedere la sua mano. Ella li accoglieva con gentilezza, ma rifiutava di sposarli. Solo il principe Elisseo, il più prode e generoso di tutti, ottenne il suo amore.
Intanto lo zar si sentiva sempre più solo e più triste e un giorno decise di scegliere un’altra sposa. La nuova zarina era una donna molto bella, ma fredda e altera; ella non amava la giovane principessa e cercava ogni mezzo per farla soffrire. A volte, la notte, quando già tutti dormivano, si udiva schiudersi piano piano una porta e si vedeva un’ombra furtiva uscire dalla stanza. Era la zarina! Tutta avvolta nella sua veste da camera, ella camminava con passi felpati fino a una stanzetta isolata in cima alla torre più alta e, qui giunta, accostava silenziosamente l’uscio dietro di sé e ne tirava il catenaccio.
Che faceva mai la malvagia zarina, a quell’ora di notte, in quella parte del castello? Seguitemi in punta di piedi e guardiamo dallo spiraglio della porta. Ecco, la zarina tira una tenda di velluto nero e mette allo scoperto uno specchio grande quando lei, poi fa una solenne riverenza e comincia a cantare questa nenia:
- Dimmi, specchio fatato: al mondo c’è qualcuno che sia bello al par di me?
Guardate! Appena la zarina ha terminato la sua nenia, lo specchio si mette a scintillare come se fosse colpito dai raggi del sole, e una voce, simile al vento nella foresta, risponde cantando:
- Bella tu sei, zarina, bella come una rosa, e del reame intero tu sei la più graziosa.
Allora l’ambiziosa zarina ha un sorriso soddisfatto, fa un’altra riverenza profonda fino ai piedi, ricopre lo specchio con la tenda e riapre la porta della stanza. Silenzio, scappiamo! Avvolta nel rosso mantello, la zarina torna nella sua camera. La tenue luce della candela ch’ella regge in mano scompare dietro la porta e tutto ritorna nel buio.
Tutto era pronto per la festa di nozze tra la principessa ed Elisseo. Lo zar aveva concesso in dote alla figlia cinquanta città e centosessanta castelli. Nelle cucine del maniero, i cuochi erano affaccendati a scovare nuovi manicaretti, nella grande sala i sarti davano gli ultimi ritocchi all’abito da sposa, i messi correvano a briglia sciolta verso i castelli dei dintorni per recare gli inviti ai principi. Tutti aspettavano il gran giorno.
Ma una triste mattina in cui il cielo era coperto di nubi scure e minacciose nessun uccello cantava sugli alberi, la zarina salì ancora nella stanza in cima alla torre, scoperse lo specchio e ripeté la domanda.
- Dimmi, specchio fatato: al mondo c’è qualcuno che sia bello al par di me?
Lo specchio si appannò, un lampo lo attraversò, illuminando per un attimo di una livida luce, poi, in mezzo a uno scroscio di tuoni che squarciavano l’aria, esso cantò così:
- Bella tu sei, zarina, bella come una rosa, ma la principessina è ormai la più graziosa.
A queste parole la zarina divenne verde di rabbia, i suoi occhi mandarono scintille e un urlo così stridulo le uscì dalla bocca che la sua cameriera, Dorina, che attendeva nella camera accanto, si precipitò da lei tutta spaventata. Vi assicuro che non era affatto bella in quel momento la zarina!
- Dorina, - ella gridò – porta immediatamente la principessa nel più folto del bosco, legala a un albero e abbandonala; così questa notte, i lupi verranno e la sbraneranno.
La povera ancella si buttò in ginocchio e pianse e supplicò finché il pavimento fu inondato di lacrime; ma la zarina fu irremovibile. Dorina dovette recarsi dalla principessa, che stava provandosi il suo meraviglioso abito da sposa.
- Principessa, - le disse, trattenendo a stento le lacrime – vuoi venire con me nel bosco a cogliere un mazzolino di fiori per adornare domani i tuoi capelli biondi?
La fanciulla acconsentì con entusiasmo, discese le scale del castello e s’inoltrò nel prato cantando gaiamente. Percorse danzando un lungo tratto di strada, senza accorgersi del tempo che passava. Ma, a un tratto, s’avvide che il sole era scomparso all’orizzonte e che lunghe ombre scure s’annidavano ai piedi degli alberi e più nessun uccello cantava tra i cespugli. Allora si volse per interrogare la fedele ancella e vide che lacrime silenziose le rigavano il volto. Stretta da un’angoscia improvvisa, la principessa si getto tra le braccia della donna, supplicando:
- Dimmi, Dorina, ti prego, che vuoi fare di me? Perché piangi così? Che hai?
- La malvagia zarina mi ha dato ordine di legarti a un albero e di farti sbranare dai lupi, principessa – singhiozzò la donna . – ma il mio cuore si spezza a questo pensiero.
- Non farlo, Dorina, non farlo! Abbi pietà di me!
- Come posso disubbidire alla zarina, principessa? Senza dubbio mi ucciderebbe!
- Lasciami andare libera per il bosco. Ti prometto che non tornerò mai più al castello. Nessuno mi vedrà più, Dorina…potresti raccontare che un lupo mi ha sbranata sulla via del ritorno.
- Si, farò così, principessa. E tu vai e che il cielo ti assista!
- Grazie, Dorina. Addio!
E la fanciulla s’inoltrò sola, per il sentiero del bosco. Già da tempo le ombre della sera erano scese sul castello.
- Che cos’è successo alla principessa? – si sussurravano gli invitati.
Lo zar e il principe si guardavano smarriti. La zarina volgeva lo sguardo inquieto verso il ponte levatoio. A un tratto echeggiò un urlo e una donna avanzò correndo dal bosco. Era Dorina!
- E’ scomparsa! E’ scomparsa! – ella gridò. – La mia povera principessa è scomparsa nella foresta! A quest’ora ormai i lupi l’avranno divorata!
Un mormorio d’orrore si levò tra gli invitati; poi mille e mille fiaccole si sparsero tra gli alberi alla ricerca della principessa. Una scura figura balzò a cavallo e scomparve nell’oscurità della notte. Era il principe Elisseo che andava a cercare la sua dolce fidanzata.
La principessa errò senza meta finché tutto il bosco fu immerso nel buio: solo un piccolo raggio di luna continuò a illuminare il sentiero ed ella corse e corse, mentre gli alberi sembravano stringersi attorno a lei in un groviglio di braccia tese e minacciose. Una paura terribile le mozzò il respiro. Dove mai avrebbe trovato rifugio per la notte? Chi l’avrebbe difesa dagli assalti delle belve?
Ma ecco, laggiù in fondo in fondo, un lumino brillare nell’oscurità della notte. Che cosa sarà mai? Forse la fiaccola di qualche buon eremita che vive assorto in preghiera? La principessa riprese animo e si incamminò verso quella tenue luce. Ogni tanto doveva fermarsi un poco, vinta dalla stanchezza. Via , via che si avvicinava al lume sempre più nitida, tra il fitto fogliame, si delineava la forma di una piccola casa. La principessa si fece coraggio, allungò il passo, e poco dopo si trovò davanti a una casetta di legno, in mezzo agli alberi, con una lanterna accesa sulla soglia. La fanciulla bussò leggermente, ma nessuno venne ad aprire. Allora si fece coraggio, spinse l’uscio ed entrò. Nessuno le si fece incontro. La casa era immersa nel silenzio. Un raggio di luna illuminava una grande stufa di cotto decorata con complicati fregi e una lunga tavola di quercia apparecchiata per sette persone.
” Che cosa debbo fare? “ pensò la fanciulla. “ Se ritorno nel bosco i lupi mi divoreranno in un attimo! Mi conviene fermarmi qui.”
Si sedette su una panca e si guardò attorno. “ I padroni della casetta hanno apparecchiato la tavola: certamente hanno intenzione di ritornare per la cena. Ma che disordine! Forse, invece di star qui a far niente potrei cercare di rendermi utile in qualche modo”.
Così pensando la principessa si alzò, riassettò la stanza, attizzò le braci sopite nel caminetto, accese i lumini sotto le immagini sacre, poi salì una scaletta di legno e si trovò in una piccola stanza sotto il tetto, con un giaciglio di paglia per terra. Si sdraiò sulla paglia ed era così stanca che s’addormentò immediatamente.
Era trascorso poco tempo quando uno scalpitio e un suono confuso di voci la fecero balzare in piedi, spaventata. Chi mai si stava avvicinando alla casa? Doveva fuggire! E in tutta fretta anche! Si lanciò verso la porta, l’aperse e … sette giovani gagliardi e vigorosi le stavano davanti, ai piedi della scala, e la guardavano con occhi spalancati per la meraviglia! Dovevano essere i padroni della cassetta e adesso, che avrebbero detto vedendola lì? La principessa fece una riverenza e disse:
- Buona sera, signori. Mi sono persa nel bosco e, vedendo da lontano la luce della vostra casetta, vi sono entrata in cerca di rifugio. Ma ora vi tolgo il disturbo; scusatemi me ne torno subito nella foresta.
E la fanciulla fece per scivolare via. Ma un mormorio di protesta la fermò sulla soglia.
- Non andartene, fanciulla; resta con noi – le disse il più alto dei sette. – sarai la nostra amata sorellina. Ci terrai in ordine la casa mentre saremo a caccia e noi ti difenderemo da ogni pericolo.
- Grazie, signori – rispose la fanciulla con gioia. – Sono felice di diventare la vostra sorellina e di accudire alla vostra casa e vi ringrazio di cuore.
E così, da quel giorno, tutte le mattine la principessa salutava dalla soglia i sette cavalieri che partivano per la caccia e poi si occupava gaiamente delle faccende domestiche: scopava, spolverava, lavava, accendeva il fuoco. Si recava quindi nel bosco a cogliere fragole e roselline selvatiche per adornare la tavola. Gli uccellini e gli scoiattoli le tenevano compagnia e venivano a prendere il cibo dalle sue mani. La fanciulla amava la vita del bosco. Ma, a volte, il suo pensiero correva al castello lontano, al padre, al fidanzato che l’attendevano, e il suo viso diventava triste e malinconico.
Nel castello lontano, intanto, la zarina viveva sicura della vittoria e orgogliosa della sua bellezza. Ma un giorno, desiderosa di sentir lodare il suo aspetto, ella decise di interrogare ancora una volta lo specchio magico. Si allontanò in tutta fretta in punta di piedi, camminando leggiera sui morbidi tappeti e salì rapida i mille gradini che conducevano alla stanza della torre. Lo specchio era sempre là, coperto dal drappo nero. Con un certo timore la regina si avvicinò e lo scoperse, stappando la tela con un colpo deciso. La stanza parve percorsa da un freddo alito di vento. La regina cominciò a rabbrividire e trovò appena il coraggio di balbettare la solita formula:
- Dimmi specchio fatato: al mondo c’è qualcuno che sia bello al par di me?
Lo specchio magico ebbe un rapido balenio, come una risata trattenuta a stento, poi rispose con voce chiara e distinta:
- Bella tu sei, zarina, bella come una rosa, ma nel folto bosco i sette cavalieri con le spade difendono, sempre gagliardi e fieri, la dolce principessa, che è ancora la più graziosa.
Ahhh!!! Per la gran rabbia la zarina si torse le mani, gemendo e lamentandosi. Imprecazioni di rabbia le salivano alle labbra; ormai non aveva più l’aspetto di una regina e il suo volto sembrava quello di una malefica strega. “ Quella disgraziata la sa più lunga di me! “ sospirava. “ Certo qualcuno l’ ha iniziata all’arte della magia, oppure una strega più potente di me l’aiuta a sventare le mie insidie. Ma questa volta non riuscirà più a evitare la morte “.
Poi corse in camera sua a meditare la vendetta e … e, poche ore dopo, una connetta decrepita, con il viso nascosto da un’enorme cuffia, si presentava al cancello dalla casetta dei sette cavalieri. Non appena la scorse, il cane di guardia le si avventò contro, abbaiando furiosamente.
- Sokolka, Sokolka, vieni subito qua! – lo richiamò la principessa, che stava cucendo vicino alla finestra.
Ma il cane continuò ad abbaiare, ringhiando e digrignando i denti contro la vecchietta impaurita. Sembrava che presentisse un pericolo e che volesse difendere la principessa.
- Sokolka, ma che cosa ti succede? Vieni qua, dunque! – gridò ancora una volta la fanciulla, uscendo sulla soglia.
Il cane le corse incontro abbaiando, come se volesse avvisarla di un pericolo. Solo allora la principessa si accorse della vecchietta.
- Che volete, nonnina? – le chiese gentilmente. – Certamente venite da lontano: avete bisogno di qualcosa?
- Di nulla, graziosa fanciulla – rispose la donnina. – Volevo regalarti questa mela bella mela succosa. Ecco, prendila!
E la vecchietta le gettò la mela. Il cane fece subito un balzo in alto per afferrarla, ma non vi riuscì, così la fanciulla la ricevette tra le mani.
- Grazie mille, nonnina. Volete entrare a riposarvi? Nonnina, ascoltate, nonnina!
Ma la vecchietta aveva già preso la strada del ritorno. La fanciulla rientrò in casa e riprese a cucire. Com’era bella, lucida, trasparente quella mela! E che buon profumo aveva! Era stata proprio gentile la vecchietta. Ora l’avrebbe mangiata a piccoli morsi. Ma, ahimè, al primo morso la principessa divenne bianca come la brina e cadde senza vita sul pavimento. Quando, a sera, tornarono e sette cavalieri, Sokolka guaiolava tristemente sulla soglia di casa.
- Che hai, Sokolka, da guaiolare cosi pietosamente? Che sia successo qualcosa alla nostra sorellina?
I cavalieri si precipitarono dentro la casetta di legno e con orrore videro la fanciulla senza vita sul pavimento.
- Sorellina, sorellina, rispondi! Cosa ti è successo?
Ma la principessa non rispondeva. Allora uno provò a scuoterla per un braccio, un altro le tastò il polso, un altro le diede dei buffetti sulle guance. Ma ahimè, tutti gli sforzi per rianimarla riuscirono vani. Sokolka allora si accostò ai cavalieri e poi si getto abbaiando sulla mela che era rotolata sul pavimento, la divorò rabbiosamente e giacque morto all’istante.
- Ecco! La nostra sorellina è morta perché ha mangiato quella mela avvelenata! – gridò allora uno dei sette cavalieri.
- Fratelli, abbiamo perso per sempre la nostra cara sorellina! – gemette un altro.
I sette cavalieri s’inginocchiarono attorno alla fanciulla e la vegliarono tutta la notte, senza lasciarla un istante. Appena giunse il mattino costruirono per lei una bella bara di cristallo terso come l’acqua, ve la deposero delicatamente, e la portarono a spalla fino a una caverna lontana. Nell’interno fresco e oscuro appesero la bara a quattro catene che pendevano dalla parete, poi chiusero l’entrata con un grosso sasso, perché nessuno venisse a disturbare il sonno eterno della fanciulla, e tornarono a casa in silenzio, a testa china.
Il principe Elisseo era giunto lontano dal castello, in luoghi a lui sconosciuti. Si era perso in un bosco fitto e intricato che non gli lasciava vedere neppure un pezzettino di cielo. Ma infine, ecco dal folto del bosco uscì in una raduna luminosa e, volgendo in alto lo sguardo, rivide il sole in tutto il suo splendore.
- Ascoltami, o sole! – gridò, levando in alto le braccia. –Tu che cammini splendente nel cielo e scorgi tutto il mondo sotto di te, tu che rischiari anche gli angoli più nascosti e remoti della terra, dimmi: non hai visto per caso la figlia dello zar, una fanciulla bellissima, dal volto luminoso come uno dei tuoi raggi?
- No, mio giovane principe, non l ho vista – rispose l’ardente sole. – Attendi però l’oscurità e chiedilo a mia sorella luna. Può darsi che ella l’abbia vista errare nella notte o che, almeno, ne abbia scorto le tracce.
Il principe attese. Tutto il giorno attese nella radura. Scese la sera e la luna scintillante s’innalzò nel cielo.
- Luna, amica luna, ascoltami! – implorò Elisseo, tendendo le braccia verso di lei. – Tu che inargenti le sabbie del deserto e fai brillare l’acqua del mare, non hai visto per caso, piangente e sperduta in qualche luogo lontano, una fanciulla dagli occhi dolci come il tuo chiarore?
- No, mio prode Elisseo, non ho visto la fanciulla. Eppure io veglio sul mondo tutte le notti … ma non perderti d’animo, chiedilo a mio fratello vento. Forse potrà aiutarti.
Il principe corse al galoppo sul suo cavallo. Arrivò su una cima battuta dai venti. Gli alberi si scuotevano da ogni parte come in una danza selvaggia, il vento passava fischiando e ruggendo nelle grotte, tra i rami, tra le felci e i picchi rocciosi, e tutto sradicava, sconvolgeva, distruggeva.
- Vento, vento ascoltami dunque! – gridò il principe Elisseo, cercando di superare con la voce il clamore della tempesta. – Tu che addensi le nubi, tu che fai fremere il mare e corri ovunque libero e indomito, non mi sapresti dire se hai visto in qualche remota contrada la giovane figlia dello zar, la mia fidanzata?
Il vento si avvolse attorno al principe in un vortice ruggente.
- La figlia dello zar? Si, l’ ho vista, Elisseo. Laggiù in fondo, al di là di quella montagna, vi è una grotta fredda e oscura e dentro quella grotta c’è una bara di cristallo che ondeggia tintinnando a ogni mio soffio … e dentro quella bara vi è la tua fidanzata, Elisseo!
Il principe Elisseo divenne più pallido della cima del monte incappucciata di neve, diede un colpo di sprone al cavallo e corse via in fretta, sempre più in fretta verso quella grotta che imprigionava per sempre la sua principessina. L’alta montagna fu superata in un attimo; una radura deserta si stendeva ai suoi piedi, una grotta tenebrosa si apriva sul fianco della montagna …Il principe smontò da cavallo, spostò la pietra che chiudeva l’ ingresso ed entrò correndo nella caverna. Ecco, in mezzo alla grotta , come aveva detto il vento, una bara di cristallo ondeggiava dolcemente e, nell’interno, dormiva il suo lunghissimo sonno la principessa.
- Perché, cristallo crudele, la tieni prigioniera? Chi l’ ha chiusa l’ dentro? Oh, ridammela, ridammela,! – E, in un impeto di dolore, Elisseo spezzo la sua spada sulla bara.
Con un gaio tintinnio il cristallo andò in frantumi e nella bara spezzata la fanciulla tornò in vita. Si guardò attorno con occhi pieni di stupore, poi, scorgendo Elisseo davanti a sé, gli sorrise mormorando:
- Che lungo sonno ho fatto, Elisseo! Ho sognato di essere in un letto di cristallo. La pioggia mi cantava una dolce ninnananna e il vento mi cullava e mi raccontava le sue storie meravigliose. Ma dove sono? E che è mai questa caverna scura e tu come hai fatto a giungere fin qui?
- Ti ho cercata a lungo, principessa. Ho interrogato il sole, la luna e il vento. Ho galoppato per radure deserte e per foreste così fitte che non vi giungeva la luce, e infine ti ho trovata. Ora torneremo insieme al castello, dove tuo padre ti aspetta, e diverrai subito mia sposa.
Poi il principe, raggiante, prese tra le braccia la principessa e la portò fuori dalla grotta, alla luce splendente del sole. La fece salire sul suo cavallo e tornò al gran galoppo verso il castello. Lungo la strada fecero una sosta davanti alla casetta del bosco e invitarono alle nozze i sette cavalieri che avevano ospitato e protetto la sua fidanzata. Quando i due principi giunsero nei pressi del castello, la malvagia zarina era affacciata a una finestra.
Ella li scorse da lontano e, nel vedere la principessa viva, felice e più bella di prima, provò un tale accesso di rabbia e di paura che corse a rifugiarsi nella foresta e nessuno la rivede mai più.
Lo zar abbracciò teneramente la figlia e benedisse i due giovani, felice di averli ancora accanto a sé. Il mattino dopo si celebrarono le nozze e si fecero un grande banchetto. Vi furono più di mille invitati, si bevve birra e idromele a ruscelli e i sette cavalieri fecero il brindisi ai due sposi augurando loro molti anni di felicità, mentre i grandi girasoli volgevano il capo ridendo verso il sole d’estate e le spighe s’agitavano tremule al vento.

FINE


Aleksandr Puskin

 
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La visita

Post n°733 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Il giorno di San Giovanni sono andato a far visita a una vecchia amica: la signora Maria Popescu, per fare i miei auguri per l’onomastico del suo unico figlio Giò, un bambinello molto carino di circa otto anni. Per non andare senza un regalo ho portato al ragazzo un pallone grande molto elastico. Il mio pensiero ha fatto molto piacere alla signora e a suo figlio.
Giò era vestito con una divisa da maggiore di cavalleria. Dopo i primi convenevoli la conversazione si è incentrata su diversi argomenti: il tempo, l’agricoltura (il signor Popescu ha grandi poderi) e la crisi. Ho chiesto alla mia amica la ragione per la quale non la si vedeva più né a teatro, né alle feste e neppure a passeggio.
La signora mi rispose che in certi momenti della vita una donna deve ridurre gli svaghi mondani per dedicare tutto il suo tempo all’educazione del figlio.
- Devo dirle che finchè Giò era piccolo potevo ancora svagarmi, ma adesso che è diventato un giovanotto, devo seguirlo io e occuparmi della sua educazione. Voi maschi non avete idea quanto tempo occorre a una donna per seguire l’educazione di un figlio soprattutto se la mamma non vuole lasciarlo senza un minimo di buona creanza…
Mentre la signora Popescu esponeva i suoi sani principi sull’educazione dei bambini da un’altra stanza si sente la voce rauca di una donna anziana:
- Signora, Giò non sta buono!
- Giò, - grida la mia amica,- vieni dalla mamma.
Poi rivolta à me a voce bassa:
- Non ha idea quanto è birichino e intelligente! Ma la voce dall’altra stanza si fa sentire ancora:
- Signora, Giò vuole rovesciare la caffettiera…stai buono che ti bruci!
- Giò ,- grida di nuovo la mia amica,-vieni dalla mamma!
- Signora venga di corsa che l’alcool sta bruciando!
- Giò - grida la signora alzandosi per andare a cercare il figlio …Mentre stava per attraversare la porta ecco il piccolo maggiore di cavalleria con la sciabola sguainata che ferma il suo passaggio.
La mamma preso il maggiore fra le braccia lo bacia.
- Non ti avevo detto di non avvicinarti alla caffettiera mentre si prepara il caffé? Se ti bruci muore la mamma…Vuoi farmi morire?
- Ma, -la interrompo io, -per chi state a fare il caffé?
– Per voi
- Ma non era il caso di disturbarvi!
– Nessun disturbo!
Madame Popescu bacia ancora il piccolo maggiore e lo mette giù. Dopo aver rifoderato la sciabola Giò saluta militarmente e va a giocare in un angolo della sala.
dove su due tavoli, sul divano sulle poltrone e sul pavimento si ammucchiano tantissimi giocatoli. Il maggiore sceglie una tromba e un tamburo. Appende al collo il tamburo e salito su un cavallo a dondolo si mette a suonare la tromba. Riesce a suonare tromba e tamburo contemporaneamente. La signora mi parla ma io non capisco. Rispondo parlando del tempo ma adesso è lei che non capisce...
- Giò! Giò! Rompi i timpani del signore…non si fa così: è un’ospite!
Approfitto dell’interruzione per dire:
- Lei è nella Cavalleria.
- Sono maggiore.
- Appunto: non c’è tamburo nella Cavalleria e il maggiore non suona la tromba: lo fanno i gradi più bassi. Il maggiore comanda e cammina in prima linea con la spada in pugno.
Il mio intervento ha successo e il maggiore scende da cavallo si sbarazza del tamburo e della tromba e comincia a comandare e con la sciabola attacca tutto quel che incontra per la sua strada.
Proprio in quel momento fa l’ingresso la cameriera col vassoio con tazzine, caffettiera e vasetto di confettura . Appena la vede il maggiore si ferma per un’ attimo di tregua di fronte al nemico. La tregua dura solo un momento e il maggiore si avventa sul nemico: malcapitata cameriera:
- Signora lo tenga che fa crollare tutto!
La signora Popescu taglia la strada al maggiore che nella foga dell’attacco non vede più chi ha davanti. La cameriera è salva ma la signora visto che ha rinunciato alla sua neutralità e patteggiato col nemico, ha ricevuto un colpo di sciabola in faccia sotto l’occhio destro.
- Vedi se fai il pazzo! Stavi per cavarmi un occhio! Ti sarebbe piaciuto ammazzarmi? Vieni a darmi un bacio per farti perdonare.
Il maggiore abbraccia e bacia la madre. Il dolore è passato e io dopo la confettura mi accingo a bere il caffè.
- Non disturbo se fumo una sigaretta?
- Ma no ….si figuri da noi si fuma! Mio marito fuma e anche al Signorino piace fumare.
– Il signorino?
– Si lui! - e la mamma indica suo figlio.- Deve vedere com’è divertente con la sigaretta in bocca. - Ma questo non va bene signor maggiore, il tabacco è veleno!
- Allora tu perché fumi? - risponde il maggiore mentre armeggia nel vasetto di confettura.
- Basta Giò , troppa marmellata ti fa male!
Dopo aver preso ancora della confettura, il maggiore lascia la sala portandosi dietro il vasetto .
- Dove vai?
– Torno subito.
Poco dopo torna col vasetto vuoto poi si avvicina al tavolino dove ho messo le mie sigarette, ne prende una e mi chiede di accendere. Io non so come comportarmi ma la madre sorridente m’incoraggia ad accendere la sigaretta del figlio. Accesa la sigaretta il maggiore mi saluta militarmente e si mette a passeggiare avanti e indietro nella sala. La madre lo guarda piena di ammirazione. Fumata la sigaretta il maggiore prende il pallone che avevo portato in regalo. Lo fa saltare fino al soffitto con grande disturbo dei cristalli del lampadario. - Giò, fai il bravo che romperai qualcosa! Vuoi farmi arrabbiare , mi vuoi far morire? Il pallone colpisce la tazzina che stavo portando alla bocca e il caffé si rovescia bruciandomi sui miei pantaloni migliori, color uovo d’anatra.
- Hai visto cos’hai combinato, un’altra volta il signore non ti porta più giocattoli! Poi rivolta a me:
- Non è niente, il caffé non macchia: basta lavare con acqua calda.- Mentre mi parla la vedo sbiancare mentre tira un urlo: - Giò cos’hai?
Girandomi vedo il maggiore con una faccia cadaverica. La mamma non fa in tempo a raggiungerlo prima di vederlo cadere svenuto.
- Aiuto! Correte sta morendo il bambino!
Io tiro su il bambino e apro la giacca della sua divisa.
- Non è niente un po’ d’acqua fredda!
Lo bagno abbondantemente mentre la mamma si strappa i capelli .
- Vedi signor maggiore,- dico dopo che è rinvenuto,- vedi che il tabacco fa male! Un’altra volta non fumare più!
Ho lasciato la signora Popescu più tranquilla visto che il suo adorato maggiore era fuori da qualsiasi pericolo. Ho messo il capotto e le calosce e sono tornato a casa. Qui ho capito cosa faceva il maggiore con il vasetto di marmellata nell’ingresso: la versava nelle mie calosce…

 
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I due compari (Pirandello)

Post n°732 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Motivo di maraviglia, e anche d’invidia in tutte le contrade attorno, era il caso di Giglione e Butticè, soci da undici anni nell’affitto della vecchia masseria della Gasena. Non era mai avvenuto che padre e figlio, o due fratelli, durassero a lungo soci nell’affitto d’una terra: figurarsi poi due estranei! Eppure, tra quei due, in undici anni di società, non era mai sorto il minimo contrasto, né d’interessi né d’altro.
Le loro famiglie erano cresciute accanto, nel cortile della masseria, in due ampie stanze a terreno dove, al tempo degli antichi massari, si rammontavano i raccolti abbondanti della terra.
Quelle due stanze non avevano finestre sulla facciata e prendevano luce soltanto dalla porta sul cortile, ch’era vasto e acciottolato, con la cisterna in mezzo, e cinto tutt’intorno da un muro alto, armato da un’irta e fitta cresta di pezzi di vetro, sfavillanti al sole. La bianchezza accecante della calce faceva sembrar quasi nero l’azzurro intenso e ardente del rettangolo di cielo su quel cortile. Vi si respirava ancora, con le tante galline che lo popolavano, e i polli d’india, i capponi, i porcellini, l’aria dell’antica e ricca masseria, quantunque giù in fondo fosse vuoto da tempo il chiuso delle pecore, e sotto la tettoja, dopo il forno, invece delle vacche ci fossero soltanto due mule e un asinello.
Vaporavano tutt’intorno dalle terre assolate vecchi odori, di tante cose sparse e seccate da anni all’aperto, e qua si mescolavano coi tepori grassi del letame, col tanfo secco delle granaglie, con quello acre della paglia bruciata e bagnata del forno. Com’ebbre, in quell’onda stagnante di odori misti, ronzavano senza fine le mosche; e da lontane aje, nel silenzio dei piani, giungeva il canto di qualche gallo, a cui rispondevano, prima l’uno e poi l’altro, o talvolta insieme, con due diverse voci, i galli del cortile. E quel ronzio e questo canto dei galli e il frusciare degli alberi non rompevano, anzi rendevano più attonito lo stupore della natura, non turbato mai da vicende che non fossero le solite, lentissime e sicure, su le quali gli uomini, le opere e i buoi regolavano la loro andatura.
Costantemente, per undici annate, la terra aveva risposto alle dure fatiche dei due soci. E anche le mogli pareva avessero gareggiato di fecondità con la terra. Desiderio degli uomini era aver figliuoli, e averli maschi, per i lavori della campagna. E cinque ne aveva dati l’una e cinque l’altra, ajutandosi tra loro ogni volta, nei parti, amorosamente, senza dare né un pensiero né un fastidio ai mariti che non avevano tempo da perdere in queste cose. Ritornando a mezzogiorno per il desinare, o la sera per la cena, avevano trovato un figlio di più:

– Maschio?

E avevano approvato col capo, senz’altre parole.
Giglione non parlava quasi mai. Sempre, quando bisognava, trattando col padrone della terra o coi mercanti di città, lasciava parlare il compagno. Placido e duro, col faccione tondo cotto dal sole e tutto raso, egli si stirava il lobo dell’orecchia manca e stava a sentire e a pensar le risposte di quelli: poi, se occorreva, diceva la sua: due parole e non di più.
Butticè ricciuto e vivace, col perpetuo riso lucente degli occhi azzurri, mobili e maliziosi, e paroline dolci e ammiccamenti, s’adoperava ad attenuare la durezza del socio; ma il padrone o il mercante guardavano gli occhi impassibili del taciturno irremovibile, e delle maniere graziose di Butticè non solo non sapevano che farsene, ma anzi quasi s’infastidivano.
Giglione era l’albero ben radicato; Butticè, l’uccello che gli svolazzava tra i rami cantando. Non s’era ancor potuto capire, se dello svolazzio e del canto di quell’uccello l’albero fosse, o no, contento. Se qualcuno gli domandava:

– Ma, insomma, voi che ne dite?

Giglione alzava una mano e col pollice sotto il lobo e l’indice alzato sul padiglione, mostrava l’orecchia, per significare che a lui toccava sentire e che il parlare era affare del compagno.
Il segreto di quel loro accordo era nell’impegno che ciascuno dei due aveva sempre messo di non farsi mai sorpassare dall’altro in nulla.
Nati e cresciuti insieme nelle lontane alture dei Gallotti sopra Montaperto, erano stati rivali accaniti fino al giorno che i padri, per impedire che anch’essi come quasi tutti i giovani della borgata prendessero la via dell’America, li avevano accasati appena di ritorno dal servizio militare. Riavvicinati dalle mogli, tra loro cugine, per non danneggiarsi a vicenda ora che avevan famiglia, s’erano appajati, cangiando in emulazione l’antica rivalità. Pronti sempre a qualunque fatica, ciascuno dei due cercava d’esonerare il compagno delle più gravose; e compenso era a entrambi la soddisfazione di sentirsi pari in tutto e l’uno degno dell’altro.
Ora, per la sesta volta era incinta la moglie di Butticè. Si aspettava il parto di giorno in giorno. Giglione, due mesi avanti, aveva avuto una femmina; e la sera, nel cortile, mentre le due donne al lume della lucerna a olio raccoglievano le rozze scodelle di terracotta, ove i figliuoli avevano mangiato la minestra, lanciava di sfuggita qualche obliquo sguardo di diffidenza ai fianchi poderosi della moglie del socio, che avrebbe potuto sbilanciar le sorti finora eguali.

Finalmente una mattina prima che rompesse l’alba, l’incinta fu colta dalle doglie. Butticè corse a picchiare alla porta accanto, la comare fu pronta in un momento; e i due uomini sotto il cielo ancora stellato, con le zappe in collo, s’avviarono per la costa.
Non passò un’ora che a Giglione parve di sentire la voce del maggiore dei figliuoli, che chiamava dal portone del cortile. Butticè, che lavorava poco discosto, domandò:

– Non ti pare che abbiano chiamato?

– Così pare, – rispose Giglione: e, ponendosi le mani attorno alla bocca, diede la voce:

– Aoòh!

Butticè lascio la zappa e si lanciò di corsa su per l’erta. Giglione gli tenne dietro, correndo anche lui, a fatica.
Trovarono su nel cortile una gran confusione: dietro la porta socchiusa della stanza di Butticè s’affollavano i ragazzi, reggendo a stento e strascicando per terra bracciate di ruvida biancheria, lenzuola, tovaglie, sottane, camice, che la moglie di Giglione, sporgendo il capo scarmigliato e le mani tremanti e insanguinate, strappava loro di furia.
Il parto era avvenuto. Un maschio. Ma la puerpera perdeva sangue, perdeva sangue in spaventosa abbondanza, e non c’era verso d’arrestarlo. Bisognava correr subito al paese di Favara per un medico.

Butticè, alla vista della moglie in quello stato, restò; ma quasi più stizzito che addolorato. Tanto che, come Giglione lo trasse fuori e lo alzò su le braccia a dosso della mula e gli diede in mano la fune della cavezza, gridandogli:

– Scappa! – adirato da quella violenza, gli rispose col viso sbiancato e senza muoversi:

– E se non volessi scappare?

– Scappa, in nome di Dio! Dici sul serio?

E Giglione spinse a due mani per di dietro la mula e le allungò un calcio.

Tre ore dopo, Butticè ritornò col medico. Appena entrato nel cortile, alla vista del socio e della comare e di tutti i ragazzi, lì muti e abbattuti ad aspettarlo, comprese ch’era finita. Lo aveva immaginato; aveva preveduto quella scena al suo arrivo. Provò una fiera irritazione; avvilimento e rabbia. Gli occhi ilari gli lucevano di follia.

– Come siete belli tutti! – disse; e scavalcò dalla mula e s’arrestò davanti la soglia della sua stanza.

Stesa lunga sul letto, come se non le fosse restato nelle vene neppure una goccia di sangue, sua moglie era lì, più rigida e più bianca del marmo.
La mirò un pezzo, quasi che, così lunga, così tesa, così bianca, non la riconoscesse più: poi varcò la soglia, s’accostò alla morta, e le domandò in un tono quasi derisorio:

– Che hai fatto?

Giglione, entrato zitto zitto nella stanza con la moglie e col medico, alzò una mano e glie la posò su la spalla in atto di commiserazione. Ma Butticè si scrollò con un fremito animalesco, gridandogli:

– Non mi toccare! – E uscì nel cortile.

Allora i figliuoli gli si fecero attorno, piangendo. Egli si chinò a cingerli con le braccia, come un fascio da prendere e buttar via:

– Che ci fate più qua, vojaltri, ancora vivi?

Giglione, su la soglia della stanza, disse:

– Ai tuoi figliuoli non ci pensare. Ora mia moglie farà conto di averne dodici, invece di sei; e darà latte al tuo piccolo, e avrà cura di te come di me.

Butticè, ancora curvo sui figliuoli, gli lanciò da sotto in su uno sguardo, che balenò come una lama di coltello. Gli parve che il socio lo volesse pestare con la sua generosità, appena caduto sotto quell’ingiustizia della sorte; e senza neppur guardare un’ultima volta la morta, quasi che anche lei, quella mattina, a tradimento, avesse voluto diminuirlo, avvilirlo, annichilirlo, scappò via, scostando i figli, scostando tutti, via giù per la campagna, e andò a rintanarsi sotto un carrubo, lontano, come una bestia ferita a morte.
Stette lì due giorni e due notti. Sul far della seconda notte, si sentì chiamare a lungo dal socio prima dall’alto, poi a mano a mano più da presso, per i sentieri della campagna, tra gli alberi; sentì anche i passi di lui; altri passi, forse dei ragazzi; trattenne il fiato e, quando i passi e le voci s’allontanarono, godette di non essere stato scoperto. Levando però gli occhi intravide da uno sforo nel fogliame, ferma in cielo la luna e si sentì guardato da essa, avvertendo nella coscienza oscura come un rimescolio, tra di dispetto e di sgomento.
Pensò allora di risalire alla villa. Certo, il cadavere della moglie era stato, a quell’ora, portato via, il socio lo voleva su, per fargli vedere che la moglie s’era attaccato al seno il piccino e come faceva da madre agli altri orfani. La carità. Poi, finito come ogni sera di mangiar la minestra, nel cortile, al lume della lucerna a olio:

– Buona notte, compare. Noi ce n’andiamo a letto.

E si sarebbe chiuso con la moglie e con tutta la sua famiglia intatta, là nella sua stanza; mentre lui sarebbe rimasto fuori, nel cortile, solo, scompagnato, coi suoi orfani. Ah, no, perdio! Questa soddisfazione non gliel’avrebbe data, all’antico rivale.
Risalì alla villa, la mattina all’alba. Ispido, con la faccia scavata, le occhiaje livide, gli occhi da pazzo, svegliò i figliuoli; ordinò ai più grandi che lo ajutassero a raccogliere la roba e a caricarla su la mula.
Giglione, al rumore, uscì dalla stanza accanto; stette un pezzo a guardare, poi gli domandò:

– Che fai?

Butticè stava a legare per terra un grosso fagotto di panni; si rizzò su la vita, gli piantò gli occhi in faccia e rispose:

– Me ne vado,

– Dove te ne vai? Sei pazzo? – replicò quello.

Butticè non rispose; si ridiede a legare per terra il fagotto. E allora Giglione riprese:

– Ma perché? Tu hai la pena, lo so, e nessuno te la vuol levare. Ma quanto al resto... tu e i tuoi figliuoli, qua...

Butticè tornò a rizzarsi su la vita; si pose un dito su la bocca:

– Zitto. Me ne devo andare.

– Ma perché?

– Per niente. Me ne devo andare.

– Così su due piedi? Senza neanche fare i conti?

– Li faremo. Ora me ne devo andare.

Quando la roba fu caricata su la mula e su l’asino, che appartenevano a lui, disse al socio:

– Va’ a prendermi la creatura.

Giglione giunse le mani:

– Ma sei impazzito davvero? L’ha al petto mia moglie. Vuoi che muoja?

– Muoja. Me ne devo andare.

Giglione andò di corsa a prendere il neonato e, con la faccia voltata, glielo porse.

– Tieni. Vattene! Non voglio più vederti!

– Tu? – disse allora con un ghigno Butticè. – E figurati io!

Cacciò avanti l’asino e la mula, e s’avviò coi cinque figliuoli dietro, e in braccio il piccino, a cui ancora dalla boccuccia paonazza pendeva una goccia di latte.

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Doni (Teasdale)

Post n°731 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Ho dato al mio primo amore la risata,
Ho dato al secondo lacrime,
Ho dato al mio terzo amore il silenzio
Attraverso tutti gli anni.
Il mio primo amore mi ha dato il canto,
il secondo occhi per vedere,
Ma oh, è stato il terzo amore
A dare a me la mia anima.

 
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Libri dimenticati:Mindhunter

Post n°730 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

John Douglas, il profiler che ha ispirato  la serie TV "Criminal minds",in questo libero ci illustra dei casi di famosi serial killer americani,corredati dall'analisi psicologica.Suoi sono anche "Obsession"e "Journey into darkness"

 
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Frase del giorno

Post n°729 pubblicato il 15 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Se un son grulli un si vogliano

 
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