Messaggi del 05/10/2011

Chico Forti:altro che Amanda!!!

Post n°919 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Enrico Forti (detto Chico) è un cittadino italiano nato a Trento, vincitore negli anni 90’ di Tele Mike e da diversi anni residente negli Stati Uniti a Miami (Florida), dove prima dell’arresto svolgeva attività imprenditoriale.

Accusato dai giudici statunitensi di aver ucciso un ragazzo di nome Pike, figlio di un imprenditore australiano con il quale Forti aveva definito una trattativa di acquisto di un complesso alberghiero ad Ibiza (Spagna). Forti si dichiara assolutamente estraneo alla vicenda.

Il Forti viene dapprima arrestato e poi rilasciato dopo alcuni giorni con due accuse: la prima di omicidio e la seconda di frode in relazione all’acquisto del complesso alberghiero con il Sig. Pike. Detta seconda accusa viene presto a cadere, ma rimane in piedi quella di omicidio.

Dopo oltre un anno in cui Forti svolge una vita “normale”, salvo l’obbligo di non uscire dagli Stati Uniti, avvicinandosi la data del processo, viene nuovamente arrestato (ottobre – novembre 1999) in via cautelare e nel giugno 2000 viene condannato all’ergastolo (senza alcuno sconto) per omicidio.

A quanto consta e come confermato dai legali di Forti, l’accusa pare basarsi esclusivamente su una bugia di Forti, il quale, nelle prime ore dell’arresto, aveva negato di conoscere Pike jr. ed era stato indotto a credere che anche il padre fosse morto. A distanza di poche ore detta prima versione viene cambiata, informando l’autorità che egli stesso si era recato in aeroporto per prendere il Sig. Pike jr. che conosceva allora per la prima volta, confermando di avergli pagato il biglietto dell’aereo e di doversi incontrare di lì a qualche giorno con il Pike sr.

In definitiva, pare che l’unico elemento a sostegno dell’accusa e, quindi, determinante per la condanna all’ergastolo sia stata la bugia della prima ora di Forti di non conoscere Pike.

Andrea Casari, l’amico di Enrico Forti scrive sul gruppo Salviamo Chicco Forti in Facebook:

Una storia assurda! Il mio amico Chico Forti, ex campione di windsurf, produttore di cortometraggi, era a Miami all’epoca dell’omicidio dello stilista Versace e del suicidio di Cunanan; pensò di realizzare un filmato sulla morte di Cunanan avvalendosi della collaborazione di un investigatore della polizia di Miami. Dopo tre mesi della realizzazione de “Il sorriso della medusa” (vedi su youtube) fu ucciso, con la stessa modalità di Versace e con un’arma dello stesso calibro, l’australiano Dale Pike; questo era figlio di un albergatore con cui Chico era in affari ed era giunto a Miami, suo ospite, per fare una vacanza.

Chico fu interrogato per rispondere dell’omicidio Pike senza l’assistenza di un legale, gli stracciarono la foto dei figli in faccia asserendo che non li avrebbe rivisti mai più: una sentenza già scritta prima che venisse firmata dal giudice! Diversi test (DNA e macchina della verità) provarono l’estraneità‘ di Chico all’omicidio ma l’accusa suppose che fosse il mandante ma senza esibire alcuna prova ed essere supportata da un movente attendibile, solo sospetti! Provate a leggere i links pubblicati nel gruppo, capirete tutti i risvolti del caso e come puo’ la giustizia statunitense essere spietata contro chi esprime una personale e critica opinione.

Nella sua città natale hanno costituito una fondazione per finanziare le ingenti spese legali ma dopo dieci anni lui è sempre rinchiuso lì; sono stati presentati quattro appelli che sono stati rifiutati senza motivazione, né opinione.  Nel mese di marzo 2009 il sen. Giacomo Santini ha presentato al Senato l’ennesima interrogazione parlamentare ed ha informato il ministro degli esteri Frattini segnalando un caso che ha più il sapore di vendetta da parte del giudice che si è occupato del caso Versace-Cunanan, piuttosto che un clamoroso errore giudiziario. Chico ha perso tutto quello che aveva: suo padre morì di crepacuore nel 2001 dopo un anno dal suo arresto, sua moglie lo ha lasciato perdendo le speranze di rivederlo libero, lui non ha più rivisto i suoi tre figli, i suoi parenti hanno devoluto tutti i beni per pagare le salatissime parcelle dei legali, senza il minimo risultato.
Al processo sono state manipolate le testimonianze, costruite ad arte “prove circostanziali”, e fuorviata la giuria con false dichiarazioni.

Per favore AIUTIAMO CHICO ad ottenere la revisione del processo per poter dimostrare la sua innocenza.!!!

 
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Gente balzana

Post n°918 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Una pulce, una cavalletta e un saltamartino vollero un giorno vedere chi di loro sapeva saltare più in alto; così invitarono tutto li mondo, e chi altro voleva, a assistere a quella gara, era proprio gente balzana quella che si riunì nella stanza.
«Io darò in sposa la mia figliola a colui che salterà più in alto» dichiarò il re «perché è un peccato che questa gente salti per nulla!»
La pulce si presentò per prima: aveva proprio buone maniere e salutava da tutte le parti, perché aveva sangue di signorina e era abituata a frequentare gli uomini, il che aiuta molto.
Poi arrivò la cavalletta, che era in realtà più pesante ma era proprio bene educata e indossava un'uniforme verde che le stava molto bene; inoltre si raccontava che venisse da una antichissima famiglia dell'Egitto e che in quel paese fosse ben considerata; era stata presa direttamente dal prato e messa in una casa a tre piani fatta con le carte da gioco, tutte con figure vestite che volgevano la parte colorata verso l'interno, c'erano sia porte che finestre ritagliate nel petto della dama di cuori. «Io canto così bene» disse la cavalletta «che sedici grilli indigeni, che strillavano da quando erano nati ma non avevano mai avuto una casa di carte da gioco, quando mi sentirono si arrabbiarono tanto che divennero ancora più magri di quanto già non fossero...»
Sia la pulce che la cavalletta continuavano a raccontare chi fossero e entrambe credevano di meritare in sposa una principessa.
Il saltamartino non disse nulla, ma si seppe che lui pensava molto, e quando il cane di corte lo ebbe fiutato un po', dichiarò che anche lui proveniva da una rispettabile famiglia; poi il vecchio consigliere, che aveva ottenuto tre decorazioni perché stava sempre zitto, assicurò che il saltamartino aveva virtù profetiche; si poteva infatti capire dalla sua schiena se l'inverno sarebbe stato mite o rigido, e questo certo non lo si può capire dalla schiena di chi scrive l'almanacco.
«Va bene, io non voglio dire niente!» esclamò il re. «Quello che penso lo tengo per me.»
Ora bisognava fare il salto. La pulce saltò così in alto che nessuno potè vederla, perciò tutti sostennero che non aveva saltato affatto, e questo era ignobile!
La cavalletta saltò solo la metà di quanto avesse saltato la pulce, ma cadde proprio in faccia al re e così lui disse che era una villana.
Il saltamartino se ne stette a lungo fermo a meditare, e si credette che non sapesse neppure saltare.
«Purché non stia male!» disse il cane di corte e lo annusò di nuovo; rutch! egli fece un piccolo salto di traverso e finì in grembo alla principessa, che si trovava su un basso sgabello d'oro.
Allora il re dichiarò: «Il salto più alto è arrivare a mia figlia, questa è l'astuzia del gioco, ma ci voleva dell'ingegno per comprenderlo, e il saltamartino ha dimostrato di averlo».
E così egli ottenne la principessa.
«Io però ho fatto il salto più alto!» esclamò la pulce «ma non importa! Lasciate che la principessa abbia quella carcassa d'oca con la pece e lo stecchino! Io ho saltato più in alto, ma in questo mondo occorre avere un certo volume per essere visti.»
E la pulce se ne andò nella legione straniera, dove si dice sia stata uccisa.
La cavalletta se ne andò nel fosso a pensare a come va il mondo e commentò: «Volume ci vuole! Volume ci vuole!» e si mise a cantare la sua triste canzone, e è da lì che abbiamo tratto la storia, che però potrebbe benissimo non essere vera, anche se è stata stampata.

FINE


 

 

 
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Una foglia dal cielo

Post n°917 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Lassù nell'aria leggera e trasparente volava un angelo con un fiore del giardino del cielo; mentre lo baciava si staccò un piccolissimo petalo che cadde nella terra umida in mezzo al bosco. Subito mise radici e germogliò tra le altre piante.
«È una pianta molto strana!» esclamarono le altre, e nessuno volle riconoscerla, né il cardo né l'ortica.
«È sicuramente una pianta da giardino!» commentavano ridendo, e si burlavano di lei chiamandola appunto pianta da giardino. Ma la pianta cresceva in continuazione, più di ogni altra, e allargò tutt'intorno i rami come fossero grandi tralci.
«Dove vuoi andare?» dissero i cardi che avevano ogni foglia coperta di spine. «Stai facendo tutto a modo tuo. Non ci si comporta così, non possiamo certo stare qui a reggerti!»
Venne l'inverno e la neve ricoprì anche quella pianta, ma il manto di neve su di lei si mise a brillare, come se vi splendesse il sole. In primavera poi fiorì tutta, e era bella come nessun'altra pianta del bosco.
Giunse un giorno il professore di botanica, con tutti gli attestati che dimostravano la sua competenza; guardò la pianta, la morse, ma non la trovò nel suo libro di botanica: era impossibile scoprire a quale specie appartenesse.
«È una varietà nuova!» esclamò. «Non conosco quello che non fa parte del sistema!»
«Non fa parte del sistema!» ripeterono i cardi e le ortiche.
I grandi alberi che stavano tutt'intorno sentirono quelle parole e notarono anch'essi che quello non era un albero della loro specie, ma non dissero nulla, né in bene né in male, e questa è la cosa più saggia quando si è stupidi.
Passò nel bosco una povera e innocente bambina; il suo cuore era puro, la ragione illuminata dalla fede; tutto quello che possedeva era una vecchia Bibbia, ma da quelle pagine le parlava la voce di Dio: Se gli uomini ti vorranno male, ricorda la storia di Giuseppe: "Essi pensarono il male nel loro cuori, ma Dio li convertì al bene"; se subisci un'ingiustizia, se vieni misconosciuta e ingiuriata, ricordati di Lui, il più puro e il migliore di tutti, che schernirono e inchiodarono all'albero della croce, dove Egli pregò: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno".
La fanciulla si fermò davanti a quella straordinaria pianta le cui foglie profumavano dolcissime e fresche e i cui fiori, alla luce del sole, sembravano fuochi d'artifìcio; da ogni fiore risuonava una melodia, come se avessero posseduto la sorgente profonda che non si esaurisce nemmeno in mille e mille anni. Con pia devozione la piccola ammirò quella bellezza divina, piegò verso di sé un ramo per osservare bene il fiore e aspirarne il profumo, e questo le illuminò l'animo, le fece bene al cuore. Avrebbe voluto prendere un fiore, ma non osò coglierlo, perché sarebbe appassito subito, così colse soltanto una piccolissima fogliolina verde, la portò a casa e la mise nella Bibbia, dove si conservò fresca, sempre freschissima, senza appassire.
Restò protetta dalle pagine della Bibbia, e, tra quelle pagine, venne messa sotto il capo della giovanetta, quando, poche settimane dopo, fu deposta nella bara. La sacra solennità della morte dominava il suo viso devoto; persino il suo corpo rivelava che ormai era davanti a Dio.
Nel bosco la pianta meravigliosa fioriva e assomigliava sempre più a un albero; tutti gli uccelli migratori, quando tornavano, le si inchinavano davanti, soprattutto le rondini e le cicogne.
«È una varietà straniera!» esclamarono il cardo e la lappa «al nostro paese non potremmo mai comportarci così.»
E le lumache nere del bosco sputarono contro la pianta.
Poi venne il guardiano dei porci che strappò i cardi e i tralci per bruciarli; nel fascio di frasche finì anche quella pianta straordinaria con tutte le radici. «Anche questa può servire!» commentò e così accadde.
Da più di un anno il re del paese soffriva della più profonda tristezza, si dedicava al lavoro e a varie attività, ma non servivano a nulla; gli vennero letti testi difficilissimi e molto divertenti, ma non servì a nulla. Allora giunse un messaggio da uno degli uomini più saggi del mondo, a cui ci si era rivolti, e lui fece sapere che esisteva un rimedio sicuro che avrebbe sollevato e guarito il malato.
"Proprio nel regno del re cresce nel bosco una pianta che ha origini celesti, è fatta così e così, non ci si può sbagliare" e seguiva un disegno della pianta: fu facilissimo riconoscerla. "Rimane verde sia d'estate che d'inverno, prendete quindi ogni sera una foglia fresca e mettetela sulla fronte del re; i suoi pensieri si illumineranno e un piacevole sogno fatto durante la notte gli darà la forza di affrontare il nuovo giorno."
Era abbastanza chiaro, e tutti i dottori e il professore di botanica andarono nel bosco. Ma dov'era la pianta?
«È sicuramente finita nel fascio» spiegò il guardiano dei porci. «È ormai cenere da parecchio tempo! Ma io non ne sapevo nulla.»
«Non ne sapeva nulla!» esclamarono tutti. «Ignoranza, ignoranza, come sei grande!» e queste parole erano naturalmente rivolte al guardiano dei porci, e a nessun altro.
Non si trovò neppure una fogliolina, l'unica rimasta stava nella bara della fanciulla morta, ma nessuno lo sapeva.
Arrivò il re in persona, con la sua tristezza, nel bosco, sul luogo dov'era la pianta. «Qui stava la pianta!» disse. «Questo è un luogo santo!»
Il terreno venne cintato con un cancello dorato e una sentinella fece la guardia giorno e notte.
Il professore di botanica scrisse un trattato sulla pianta celeste e venne ricoperto d'oro, del che fu molto contento; quell'oro bastò a lui e alla sua famiglia, e questa è la cosa più bella di tutta la storia, perché la pianta non c'era più e il re era sempre triste e depresso.
«Ma tanto lo era anche prima!» esclamò la sentinella.

FINE




 
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Il porcellino salvadanaio

Post n°916 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'erano molti giocattoli nella stanza dei bambini; in cima all'armadio si trovava il salvadanaio di terracotta, a forma di porcellino. Aveva naturalmente una fessura sulla schiena e questa era stata allargata con un coltello in modo che ci passassero anche le monete d'argento: ce n'erano già due, oltre a molte altre monetine. Il porcellino salvadanaio era così pieno che non tintinnava più, e questo è il massimo a cui un porcellino salvadanaio possa aspirare. Era proprio in cima allo scaffale e da lì dominava tutto quello che c'era nella stanza; sapeva bene che con quello che aveva in pancia avrebbe potuto comprare qualunque cosa, e questo si chiama avere coscienza del proprio valore.
Lo sapevano anche gli altri, ma non lo dicevano, perché avevano altro di cui parlare; il cassetto del comò era socchiuso e si vedeva una grande bambola, un po' vecchia e aggiustata sul collo. Questa guardò fuori e disse: «Giochiamo a fare gli uomini? È certo meglio che niente!» e così ci fu grande agitazione, persino i quadri si voltarono, mostrando che avevano un didietro, ma non lo fecero per protesta.
Era notte inoltrata e la luna illuminava attraverso la finestra, facendo luce gratuitamente. Il gioco doveva cominciare e tutti erano stati invitati, persino il passeggino dei bambini che pure era uno dei giocattoli più grossolani. «Ognuno è buono a modo suo!» diceva «non possono essere tutti nobili! Qualcuno deve anche rendersi utile, come si suol dire.»
Il porcellino salvadanaio fu l'unico a avere un invito scritto; si trovava troppo in alto perché sentisse un invito orale e comunque non rispose che sarebbe venuto, e non venne neppure. Se poi avesse voluto partecipare, lo avrebbe fatto dal posto dove si trovava, e gli altri dovevano dargliela vinta, come infatti fecero.
Il teatrino delle marionette fu montato subito e in modo che egli potesse vederlo bene; volevano cominciare con una commedia e poi sarebbero passati al tè e ai giochi di società, invece cominciarono subito con questi. Il cavallo a dondolo parlò dell'allevamento dei purosangue, il passeggino delle ferrovie e dei vaporetti, c'era sempre qualche argomento di cui erano specialisti e di cui potevano parlare. L'orologio a pendolo parlò di politica, tic-tac, lui conosceva l'ora del momento, anche se si diceva che non andasse bene. La canna di bambù rimase ferma, orgogliosa del suo puntale e del suo pomo d'argento, era proprio ben attrezzata da cima a fondo; sul divano c'erano due cuscini ricamati, graziosi ma stupidi, e così la commedia potè cominciare.
Tutti quelli che dovevano assistere furono pregati di battere per terra, di borbottare o schioccare, per mostrare se si erano o non si erano divertiti. Ma la frusta disse che non avrebbe mai schioccato per dei vecchi, lo avrebbe fatto solo per dei giovani, non ancora fidanzati. «Io invece schiocco per tutti!» esclamò il petardo. «Bisogna avere un posto in questo mondo!» disse la sputacchiera; questi erano i pensieri di chi assisteva alla commedia. Lo spettacolo non valeva niente, ma venne recitato bene; tutti gli attori mostravano solo il lato dipinto, perché erano fatti per essere visti solo da un lato, non da dietro, tutti recitarono benissimo, quasi fuori dal teatro, perché i fili erano troppo lunghi, ma così vennero notati di più. La bambola aggiustata si entusiasmò talmente che si scollò di nuovo, anche il porcellino salvadanaio si entusiasmò a modo suo e decise di fare qualcosa per uno degli attori: lo nominò nel suo testamento come colui che avrebbe dovuto essere sepolto insieme a lui, quando fosse venuto il momento.
Era un bel divertimento e si rinunciò al tè per continuare i giochi di società; questo lo chiamavano giocare a fare gli uomini, e non c'era nessuna cattiveria, era solo un gioco. Ognuno pensava a se stesso e a quello che pensava il porcellino salvadanaio; quest'ultimo pensava più di tutti, pensò al testamento e al funerale e a quando sarebbe accaduto, sempre prima di quanto ci si aspetti...
Crac! era caduto dall'armadio, era finito sul pavimento in mille pezzi e le monete ballavano e saltavano ovunque; le più piccole girarono su se stesse, le più grandi rotolarono, soprattutto una delle monete d'argento, perché voleva andarsene per il mondo. E così infatti fece, e con lei tutte le altre, i cocci del porcellino salvadanaio finirono nella spazzatura, ma il giorno dopo sull'armadio già si trovava un nuovo porcellino salvadanaio, fatto di terracotta; non aveva ancora dentro di sé nemmeno una monetina, quindi non poteva tintinnare, e in questo assomigliava all'altro.
È meglio che niente per cominciare, ma noi con questo vogliamo finire.

FINE

 
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La monetina d'argento

Post n°915 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una monetina uscita bella lucida dal conio, che saltava e tintinnava: «Evviva! ora me ne andrò per il mondo» e così infatti avvenne.
I bambini la tennero stretta nelle manine calde, gli avari nelle mani gelide e viscide, gli anziani la girarono e la rigirarono molte volte, mentre i giovani la fecero circolare di nuovo immediatamente. La monetina era d'argento, aveva pochissimo rame in sé e era già nel mondo da un anno, o meglio nel paese dove era stata coniata, quando si mise a viaggiare fuori dal paese: era infatti l'ultima monetina di quel paese rimasta nel borsellino di un signore che viaggiava e che non lo seppe finché non gli venne tra le mani.
«Ecco ancora una monetina di casa mia!» esclamò «viaggerà con me!»
La monetina tintinnò e saltò con gioia quando fu rimessa nel borsellino. Si trovò tra molti compagni stranieri che andavano e venivano, uno faceva spazio all'altro, ma quella monetina rimaneva sempre lì, e questa era una distinzione.
Erano passate ormai molte settimane e la monetina era lontano nel mondo, senza sapere bene dove; sentiva dalle altre monete che erano italiane o francesi, una disse che erano in una certa città; un'altra diceva che erano in un'altra; ma la monetina non poteva immaginarsi nulla: non si vede il mondo quando si sta sempre in un sacchettino, e questo era il suo caso. Ma un giorno che si trovava lì come al solito si accorse che il borsellino non era chiuso e così sgusciò fuori dall'apertura per guardarsi un po' intorno; non avrebbe dovuto farlo, ma era così curiosa che poi se ne pentì. Uscì nella tasca dei pantaloni, e quando la sera il borsellino fu messo da parte la monetina rimase lì nella tasca e uscì nel corridoio insieme ai vestiti, cadendo sul pavimento. Nessuno la sentì e nessuno la vide.
Al mattino i vestiti vennero riportati, il padrone se li mise e ripartì. La monetina non partì con lui, venne trovata e dovette di nuovo rimettersi in circolazione con altre tre monete.
"È bello vedere qualcosa del mondo!" pensò la monetina "conoscere altre persone, altre usanze!"
«Che strana monetina» venne detto proprio in quel momento. «Non è una moneta di questo paese, è falsa! Non vale niente!»
Così cominciò la storia della monetina come lei stessa la raccontò in seguito.
«"Falsa, falsa! non vale nulla!" Queste parole mi trafissero il cuore» disse la monetina. «Io sapevo di essere fatta di buon argento, di buon conio, e con ottime caratteristiche. Sicuramente si sbagliavano, certo non intendevano me, eppure era proprio di me che parlavano. Io venni chiamata falsa, fu detto che non valevo niente! "Devo darla via al buio!" disse l'uomo che mi possedeva, e infatti venni spesa di notte e poi venni di nuovo ingiuriata durante il giorno: "falsa! non vale nulla! dobbiamo cercare di sbarazzarcene!".»
La monetina ogni volta tremava tra le dita di chi voleva darla via di nascosto spacciandola per una moneta del paese.
«Povera me! A che cosa mi serviva l'argento, il mio valore, il mio conio, se qui non avevano nessun significato? Si ha valore nel mondo solo se questo ce ne attribuisce! Deve essere terribile avere una coscienza cattiva, prendere la strada del male, quando io, che ero innocente, ero così turbata solo perché le apparenze erano contro di me. Ogni volta che venivo tirata fuori temevo gli occhi che mi osservavano, sapevo già che sarei stata messa da parte, gettata sul tavolo, come se fossi stata inganno e menzogna.
«Una volta arrivai da una povera donna che mi aveva avuto come paga del faticoso lavoro compiuto, ma lei non riuscì a liberarsi di me, nessuno voleva prendermi: fui proprio una sfortuna per lei.
«"È assolutamente necessario che inganni qualcuno con questa" disse. "Non posso permettermi di conservare una moneta falsa: la darò al ricco fornaio che ne avrà danno meno di altri, ma è comunque disonesto quello che faccio."
"Adesso mi tocca persino gravare sulla coscienza di quella donna!" sospirò la monetina. "È possibile che sia cambiata tanto diventando vecchia?"
«La donna andò dal ricco fornaio, ma lui conosceva fin troppo bene le monete, così io non potei stare da lui, venni gettata in faccia a quella donna, che per colpa mia non ebbe il suo pane; e io mi sentii veramente molto triste per aver causato un dolore a qualcun altro, io che nella mia giovinezza ero stata così sicura e sincera, così consapevole del mio valore e della purezza del mio conio. Divenni malinconica, proprio come una povera monetina può diventare quando nessuno vuole averla ma la donna mi portò a casa, mi osservò attentamente, con dolcezza e affetto. "No, non voglio ingannare nessuno con te!" disse. "Ti farò un buco in mezzo in modo che ognuno possa vedere che sei falsa. Eppure, ora che ci penso forse sei una monetina portafortuna; sì, lo credo proprio! Ti farò un buco nel mezzo, ci infilerò una cordicella, e poi ti metterò al collo della figlia della vicina, come portafortuna."
«Così mi fece un buco; non è mai piacevole essere passati da parte a parte, ma quando l'intenzione è buona si può sopportare tutto; mi infilarono una corda e divenni una specie di medaglia; venni appesa al collo della bambina e questa mi sorrise, mi baciò, e io riposai una notte intera sul caldo e innocente petto della bambina.
«Al mattino la madre mi prese in mano, mi guardò e pensò a qualcosa: me ne accorsi subito. Prese le forbici e tagliò la cordicella.
«"Monetina portafortuna!" esclamò. "Adesso vedremo!" Mi mise nell'aceto in modo che diventassi verde, poi mi chiuse il buco, mi lisciò un po' e se ne andò, quando fu buio, dal venditore dei biglietti della lotteria, per averne uno che portasse fortuna. Come stavo male! Mi sentivo oppressa, come se dovessi scoppiare: sapevo che sarei stata chiamata falsa e gettata via, e questo davanti a una gran quantità di monetine e di altri soldi che avevano le iscrizioni e le figure incise, di cui potevano ben essere fieri. Ma quella volta la scampai, c'era tanta gente dal rivenditore della lotteria, e lui aveva tanto da fare che venni gettata nel cassetto tra le altre monete, se poi il biglietto abbia vinto non lo so, ma so che il giorno dopo venni riconosciuta come falsa, fui messa da parte e poi rimessa in circolazione per ingannare e ancora per ingannare. È insopportabile quando si ha un carattere puro, e di quello sono sicura.
«Per molti anni e molti giorni passai da una mano all'altra, da una casa all'altra, sempre ingiuriata, sempre maltrattata; nessuno credeva in me, neppure io credevo più in me, e neppure nel mondo; furono tempi duri. Un giorno giunse un viaggiatore, e naturalmente venni data a lui che fu tanto ingenuo da prendermi come moneta corrente; ma quando dovette darmi via, sentii di nuovo quelle grida: Non vale niente! è falsa».
«"Io l'ho avuta per buona!" disse l'uomo e mi guardò attentamente, poi sorrise, come non succedeva certo quando mi guardavano con attenzione. "Oh, guarda che cos'è!" esclamò "una moneta del mio paese, una buona onesta moneta di casa mia a cui hanno fatto un buco e che chiamano falsa. È proprio divertente! Ti conserverò e ti riporterò a casa!"
«Fui percorsa da un brivido di gioia quando venni chiamata una buona e onesta moneta e quando seppi che potevo tornare a casa, dove tutti mi avrebbero riconosciuta sapendo che ero fatta di ottimo argento e che avevo il giusto conio. Avrei addirittura sprizzato scintille per la gioia, ma non è nella mia natura fare scintille: è una proprietà dell'acciaio, non dell'argento.
«Venni avvolta in una bella carta bianca per non essere mescolata con le altre monete e partii; solo nelle occasioni importanti, quando incontrava dei connazionali, il mio padrone mi tirava fuori: allora venivo ricoperta di elogi; dicevano che ero interessante; è abbastanza divertente essere interessanti senza dire una parola!
«Così tornai a casa! Tutta la mia miseria era passata, e cominciò la mia gioia: ero fatta di ottimo argento e avevo un buon conio; non era certo una vergogna che mi avessero bucato e trattato come falsa, non fa nulla quando non lo si è! Bisogna resistere: ogni cosa col tempo ottiene giustizia! Questa ora è la mia convinzione!» disse la monetina.

FINE


 
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Gli stracci

Post n°914 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

uori dalla fabbrica c'erano alti mucchi di stracci, tutti raccolti come covoni, che venivano da tutte le parti; ogni straccio aveva la sua storia e ognuno raccontava la propria, ma non si possono certo ascoltare tutti. Alcuni stracci erano nazionali, altri venivano da paesi stranieri. Uno straccio danese stava proprio sopra uno straccio norvegese; il primo era puro danese; l'altro era originale norvegese, e proprio questo era il lato divertente della cosa, come avrebbe detto qualunque norvegese o danese con un po' di buon senso.
Si riconobbero dalla lingua, sebbene, disse il norvegese, queste fossero molto diverse, come il francese e l'ebraico. «Noi ci studiamo di renderla pura e originale, il danese invece si crea una lingua piatta, dolce e corrotta.» Gli stracci parlavano, ma uno straccio è uno straccio in ogni paese; diventano qualcosa solo quando sono ammucchiati.
«Io sono norvegese!» disse il norvegese «e quando dico che sono norvegese, credo di aver detto abbastanza! Sono robusto nella trama, proprio come le montagne di basalto della vecchia Norvegia, il paese che ha una costituzione come la libera America! Mi fa solletico nella trama pensare che cosa sono e lasciar conoscere il mio pensiero con forti parole di granito!»
«Ma noi abbiamo una letteratura!» gli disse lo straccio danese. «Lei sa che cos'è?»
«Se lo so?!» ripetè il norvegese. «Abitante di quel paese piatto, devo portarla in cima alle montagne e farle vedere l'aurora boreale, straccio che non è altro! Quando il ghiaccio si scioglie al sole norvegese, arrivano le imbarcazioni danesi piene di burro e di formaggio, merci proprio commestibili, e portano come zavorra la letteratura danese. Noi non ne abbiamo bisogno! Possiamo fare a meno della birra stantìa dove sgorgano fresche sorgenti di acqua, da noi le fonti sono naturali, non sono state costruite, non si sono fatte conoscere in tutta Europa tramite giornali, compagnie e viaggi di scrittori all'estero. Io parlo liberamente dal fondo dei miei polmoni e il danese dovrà abituarsi a questo suono libero, e si abituerà aggrappandosi in nome della Scandinavia alla nostra orgogliosa terra rocciosa, radice primogenita del mondo.»
«Uno straccio danese non potrebbe mai parlare così!» disse il danese. «Non è nella nostra natura.
10 conosco me stesso, e so come sono tutti i nostri stracci: siamo buoni e modesti abbiamo poca fiducia in noi stessi, e questo forse per noi non è un vantaggio, ma a me piace molto così com'è, lo trovo così carino! Del resto, mi creda, io non conosco a fondo le virtù della mia razza, ma non ne parlo neppure, nessuno può incolparmi di un tale difetto. Sono dolce e remissivo, sopporto tutto, non invidio nessuno, parlo bene di tutti, anche se non c'è molto di buono da dire sulla maggior parte degli altri, ma questi sono fatti loro!»
«Non mi parli in quella lingua collosa e liquida da paese piatto, mi viene la nausea» replicò il norvegese, che col vento si sollevò dal mucchio e finì sopra un altro.
Tutti e due gli stracci divennero carta, e il caso volle che lo straccio norvegese diventasse un foglio su cui un norvegese scrisse una lettera d'amore a una ragazza danese, lo straccio danese divenne invece il manoscritto di un'ode danese in onore della forza e dello splendore della Norvegia.
Si può ottenere anche qualcosa di buono dagli stracci, se soltanto, tolti dal mucchio e trasformati in verità e bellezza, risplendono in un accordo che rappresenta una vera benedizione.
Questa è la storia; è abbastanza divertente e non offende nessuno, tranne gli stracci.

FINE

 


 

 
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Brodo di stecchino

Post n°913 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Il pranzo di ieri era squisito» raccontò una vecchia topa a un'altra che non aveva partecipato al banchetto. «Io sedevo al ventunesimo posto a partire dal vecchio re topo; non c'era poi male! Devo dirti delle portate? La successione era perfetta: pane affumicato, cotiche di lardo, candele di sego e salsicce - e poi da capo. Come se avessimo ricevuto due pranzi. C'era un'atmosfera proprio piacevole e si chiacchierava allegramente, come fossimo stati in famiglia. Non avanzò nulla, eccetto gli stecchini; allora se ne parlò e si discusse di come fare il brodo di stecchino; ciascuno ne aveva sentito parlare, ma nessuno aveva mai assaggiato quel brodo e neppure lo sapeva fare. Si fece un bel brindisi all'inventore, che meritava di diventare presidente dell'assistenza pubblica. Non è spiritoso? Poi il vecchio re topo si alzò e dichiarò che la giovane topa che avesse saputo preparare quel brodo nel modo migliore sarebbe diventata regina. Concedeva di tempo per prepararsi un anno e un giorno.»
«Non sarebbe una cattiva idea!» esclamò l'altra topa «ma come si fa quel brodo?»
Già come si fa? se lo chiedevano tutte le tope, giovani e vecchie. Tutte avrebbero desiderato diventare regine, ma non volevano avere il fastidio di andarsene per il mondo a imparare il che era indispensabile. Non è da tutti abbandonare la famiglia e il proprio cantuccio; lontano da casa non si trovano tutti i giorni croste di formaggio, né si odorano le cotiche: si può morire di fame e forse essere mangiati vivi da un gatto!
Questi pensieri furono sufficienti a spaventare la maggior parte delle tope che volevano intraprendere il viaggio di istruzione; si presentarono pronte a partire solo quattro topoline, giovani e vivaci, ma povere; volevano dirigersi ognuna verso una delle quattro parti del mondo, così si sarebbe scoperto chi era la più fortunata. Ciascuna prese con sé uno stecchino, per ricordarsi il motivo del viaggio; sarebbe stato il loro bastone.
Partirono in maggio e ritornarono nel maggio dell'anno dopo, ma tornarono solo in tre, la quarta non si presentò né mandò notizie di sé, nonostante fosse giunto il giorno stabilito.
«C'è sempre qualche dolore anche nei momenti più felici» disse il re topo che diede ordine di invitare tutti i topi nel raggio di molte miglia e di riunirli in cucina. Le tre topoline che avevano viaggiato erano in disparte, una dietro l'altra; per la quarta che non era tornata, era stato innalzato uno stecchino con sopra un velo nero. Nessuno osò dire la propria opinione prima che le tre topoline avessero parlato e che il re avesse stabilito quello che bisognava dire.
Ora sentiremo!

2. Che cosa vide e imparò durante il viaggio la prima topolina

«Quando partii per il vasto mondo» disse la topolina «credevo, come tante altre della mia età, di possedere tutta la saggezza dell'universo, ma non era così; occorrono anni per arrivarci. Mi imbarcai subito su una nave che andava verso Nord. Avevo sentito che in mare il cuoco doveva essere in grado di arrangiarsi, ma è facile arrangiarsi quando si ha la dispensa piena di lardo, botti piene di pesce in salamoia e farina piena di vermi. Si vive proprio bene, ma non si impara nulla che serva a preparare il brodo di stecchino. Navigammo per molti giorni e per molte notti, e ci fu sia il dolce rollio che i cavalloni. Quando giungemmo a destinazione lasciai la nave: ero arrivata al Nord.
«È molto strano lasciare il proprio cantuccio, viaggiare per nave, che è pure una specie di cantuccio, e poi improvvisamente trovarsi lontano molte miglia in un paese straniero. C'erano grandi boschi di abeti e betulle che profumavano in modo così intenso! Non mi piaceva affatto! Anche le erbe selvatiche avevano un forte odore, io starnutii e pensai alla salsiccia. C'erano grandi laghi nei boschi, con l'acqua chiarissima, ma vista da lontano sembrava nera come l'inchiostro, vi nuotavano i cigni bianchi che io presi per schiuma, tanto erano immobili, ma poi li vidi volare e muoversi e li riconobbi: appartengono alla famiglia delle oche, lo si nota da come camminano: nessuno può negare le proprie origini! Io restai con i miei simili, mi unii ai topi dei campi e del bosco, che comunque erano molto rozzi, soprattutto per quanto concerne la cucina, e era proprio per quella che io ero andata all'estero. Che si potesse pensare di fare il brodo di stecchino lo trovarono strano, e se ne parlò subito per tutto il bosco, ma che il problema potesse venire risolto, lo giudicarono assolutamente impossibile. Neppure io immaginavo che proprio lì, quella stessa notte, sarei stata iniziata alla preparazione del brodo. Era la notte di mezza estate e per questo motivo - dicevano - il bosco profumava così intensamente, le erbe avevano un odore così forte e i laghi erano così chiari e allo stesso tempo così scuri con sopra i cigni bianchi. Al margine del bosco, fra tre o quattro case, era stato innalzato un palo, alto come un albero maestro, e in cima c'erano appesi nastri e ghirlande; era l'albero di maggio. I ragazzi e le fanciulle vi ballavano intorno e cantavano a gara col violino del suonatore. L'allegria continuò al tramonto e al chiaro di luna ma io non vi partecipai, che cosa ci farebbe una topolina a un ballo nel bosco? Restai seduta sul morbido muschio appoggiandomi allo stecchino. La luna illuminava soprattutto una radura dove si trovava un albero coperto di muschio finissimo, oserei dire che era delicato come la pelle del re, ma era verde, e questo era un bene per gli occhi. Improvvisamente giunsero a passo di marcia delle graziosissime personcine, così piccole che mi arrivavano al ginocchio; sembravano uomini ma erano meglio proporzionati. Si chiamavano elfi e indossavano abiti leggerissimi fatti di petali di fiore e avevano ali di mosche e di zanzare. Non erano affatto male! Si capì che stavano cercando qualcosa, io non sapevo che cosa, ma alcuni di loro vennero verso di me e il più distinto indicò il mio stecchino e disse: "È proprio quello di cui abbiamo bisogno! è appuntito, va benissimo!" e si entusiasmò sempre più guardando il mio bastone da viaggio.
«Potete prenderlo in prestito, ma dovete rendermelo!» dissi.
«Non lo terremo!» esclamarono tutti insieme, presero lo stecchino, lo portarono ballando fino a quella radura di muschio sottile e lì lo piantarono in mezzo al verde. Anche loro volevano un albero di maggio, e quello che ora avevano era proprio adatto a loro, come fatto apposta. Venne decorato, e allora sì che fu uno spettacolo!
«Piccoli ragni vi tesserono intorno fili d'oro, appesero veli e bandiere svolazzanti, tessute così finemente e così bianche al chiaro di luna, che mi facevano male agli occhi, presero i colori dalle ali delle farfalle e li sparsero su quelle tele bianche, che ri splendettero di fiori e diamanti. Non riconoscevo più il mio stecchino, un albero di maggio come quello non si trovava da nessun'altra parte del mondo. Solo allora arrivò la vera compagnia degli elfi, tutti senza vestiti, più delicati di così non potevano essere, e io venni invitata a andare a vedere quello splendore, ma da lontano, perché per loro ero troppo grande.
«Cominciò la musica! Fu come se migliaia di campane di vetro risuonassero in modo così forte che credetti fossero i cigni a cantare, e mi sembrò di sentire anche il cuculo e il tordo alla fine fu come se tutto il bosco stesse cantando: c'erano voci di bambini, rintocchi di campane e cinguettìi d'uccello, le melodie più belle, e tutta quella meraviglia proveniva dall'albero di maggio degli elfi, che era tutto un carillon di campane, e dire che era il mio stecchino! Non avrei mai creduto che si potessero ottenere tante cose da uno stecchino, ma naturalmente dipende dalle mani in cui capita. Mi commossi, piansi come può piangere una topolina, di gioia.
«La notte fu troppo breve, ma non può essere più lunga lassù, in quella stagione. All'alba arrivò un venticello, lo specchio d'acqua del lago si increspò, tutte quelle bandiere e quei veli sottili e svolazzanti volteggiarono nell'aria, quei padiglioni di ragnatele che dondolavano, quei ponti pensili e quelle balaustre, o come si chiamano, tese di foglia in foglia volarono via come niente. Sei elfi mi riportarono lo stecchino e mi chiesero se potevano esaudire qualche mio desiderio. Io chiesi loro di dirmi come si fa il brodo di stecchino.
«"Come lo facciamo?" disse il più distinto di loro, ridendo. "L'hai appena visto! Quasi non riconoscevi più il tuo stecchino!"
«"Ah, lei parla di quello?" chiesi, e raccontai il perché del mio viaggio e che cosa ci si aspettava in patria. "Che vantaggio avrà il re topo" conclusi "e tutto il nostro potente regno, dalle bellezze che ho visto? Non posso farle uscire dal mio stecchino e dire: Questo è lo stecchino, ora viene il brodo! Sarebbe un piatto adatto per chi è già sazio!"
«Allora l'elfo infilò il mignolo in una violetta e mi disse: "Stai attenta: spalmo il tuo bastone, così quando arriverai al castello del re topo, e toccherai il suo caldo petto con il bastone, spunteranno dallo stecchino delle viole, anche in pieno inverno. Ecco, adesso hai qualcosa da portare a casa, e poi un'altra cosa!"» ma prima di raccontare quale fosse quest'altra cosa, la topolina toccò col suo bastone il petto del re e, veramente, spuntò fuori uno splendido mazzo di viole, che avevano un profumo così forte che il re topo ordinò ai topi che erano più vicini al camino di mettere subito le code sul fuoco per avere un po' di odor di bruciato, dato che l'odore delle viole era insopportabile: non era roba per loro.
«Che cos'è l'altra cosa di cui parlavi?» chiese il re topo.
«Ah, sì» disse la topolina «è quel che si dice una sorpresa» e subito voltò lo stecchino e non ci fu più neppure un fiore, ora aveva di nuovo lo stecchino liscio e lo sollevò come una bacchetta.
«"Le viole sono fatte per la vista, l'odorato e il tatto" mi disse l'elfo "ma restano ancora il gusto e l'udito!"» e la topolina batté la bacchetta. Si sentì una musica, non come quella che risuonava nel bosco durante la festa degli elfi, no, la musica che si sente di solito in cucina. E che da fare! Improvvisamente fu come se il vento soffiasse tra tutte le canne del camino; pentole e pentolini ribollivano, la paletta della cenere batté sul paiolo d'ottone e poi tutto si calmò di colpo. Si sentì solo il fischio soffocato della teiera, così strano che non si capiva se si stesse spegnendo o se avesse appena cominciato. Il pentolino bollì e poi anche la pentola grande, e non badarono affatto l'uno all'altra, era come se non ci fosse stato dentro mente. La topolina agitava la bacchetta con sempre maggior forza, le pentole schiumavano, borbottavano e bollivano, il vento fischiava, il camino sibilava. Uh! divenne così terribile che perfino la topolina perse la bacchetta.
«Che brodo difficile!» esclamò il vecchio re topo «quando arriva la pietanza?»
«È tutto qui» disse la topolina inchinandosi.
«Tutto qui! Ora sentiamo cosa ha da raccontare la prossima» concluse il re topo.

3. Cosa aveva da raccontare la seconda topolina

«Io sono nata nella biblioteca del castello» disse la seconda topolina. «Né io né molti della mia famiglia abbiamo mai avuto la gioia di entrare in sala da pranzo, e tanto meno in dispensa; solo durante il mio viaggio, e ora qui, ho visto una cucina. In biblioteca abbiamo spesso sofferto la fame, ma abbiamo anche imparato molte cose. Quando ci giunse la notizia del premio reale messo a disposizione di chi avrebbe saputo preparare il brodo di stecchino, la vecchia nonna tirò fuori un manoscritto non riuscì a leggerlo ma lo aveva sentito leggere e diceva così: "Se uno è poeta sa ottenere brodo da uno stecchino". Mi chiese se ero poeta Sapevo di non esserlo, così lei disse che dovevo cercare di diventarlo. Le chiesi allora che cosa occorresse per diventarlo, dato che per me era difficile quanto preparare il brodo; la nonna però aveva sentito leggere tutto e disse che erano necessarie tre cose: intelligenza, fantasia e sentimento. "Se riuscirai a averli dentro di te, sarai poeta e risolverai anche la faccenda del brodo di stecchino."
«Così me ne andai verso occidente nel vasto mondo per diventare poeta. Sapevo che l'intelligenza era la cosa più importante in assoluto; le altre due parti non avevano lo stesso peso. Così cominciai a cercare quella, ma dove stava? "Va' dalla formica e diventa saggio!" aveva detto un grande ebreo io lo sapevo dalla biblioteca, e non mi fermai finché non raggiunsi il primo grande formicaio, dove mi appostai per diventare saggia.
«Le formiche sono una popolazione molto rispettabile, sono tutta intelligenza. Ogni cosa presso di loro è come un calcolo matematico giusto. Lavorare e deporre le uova, dicono, vuol dire vivere nel presente e pensare al futuro e è proprio quello che fanno. Si dividono in formiche pure e impure, ognuna ha un numero d'ordine, la regina delle formiche è il numero uno e la sua opinione è l'unica giusta: è un vero pozzo di scienza, e questo mi fu molto utile saperlo. Disse tante cose così intelligenti da sembrarmi stupide. Disse che il loro formicaio era la cosa più alta del mondo; ma vicino al formicaio c'era un albero che era più alto, molto più alto, e poiché non si poteva negarlo, di quello nessuno parlava. Una sera però una formica si era perduta lassù, e si era arrampicata lungo il tronco, non fino alla cima, ma certo molto più in alto di quanto fosse mai arrivata una formica; quando poi tornò indietro e arrivò a casa, raccontò nel formicaio che esisteva fuori qualcosa che era molto più alto del formicaio, ma le altre formiche trovarono queste asserzioni un'offesa contro tutta la società e perciò condannarono la formica a portare la museruola e all'eterna solitudine. Poco tempo dopo un'altra formica arrivò all'albero e fece la stessa strada e la stessa scoperta, ma ne parlò, come si dice, con ragionevolezza e diplomazia; inoltre era una formica rispettata, una delle pure, così le si credette e quando morì le fu innalzato un guscio d'uovo, come monumento, per le sue benemerenze scientifiche. Ho visto» continuò la topolina «che le formiche corrono continuamente con il loro uovo sulla schiena. Una di loro una volta lo perdette, e ebbe un bel daffare per ritirarlo su, ma non ci riuscì ugualmente, così arrivarono altre due formiche che l'aiutarono più che poterono, fino a rischiare di perdere anche il loro uovo, allora subito rinunciarono a quello che stavano facendo, perché ognuno pensa prima a se stesso. La formica regina commentò il fatto dicendo che le due avevano mostrato buon cuore e intelligenza. "Quelle due hanno posto noi formiche al posto più elevato tra le creature che possiedono la ragione. L'intelligenza deve avere per noi un'importanza particolare, e io ne ho più di tutti!" e si alzò sulle zampe posteriori, mettendosi bene in mostra. Non potevo sbagliarmi, e così la divorai. "Va' dalla formica e diventa saggio!" e ora io avevo la regina.
«Mi avvicinai al grande albero di cui avevano parlato: era una quercia con un tronco molto alto, una folta corona, e era molto vecchio. Sapevo che vi abitava una creatura vivente, una donna, chiamata driade, nata con l'albero e destinata a morire con lui. Ne avevo sentito parlare in biblioteca; ora potevo vedere un tale albero e una tale fanciulla. Lei emise un grido spaventoso quando mi vide così vicino, aveva, come tutte le donne, molta paura dei topi, ma lei aveva una ragione in più perché io potevo rosicchiare completamente l'albero, e la sua vita dipendeva da
«Tornai a casa, alla biblioteca, e divorai subito un intero romanzo, o meglio la parte morbida, quella vera, mentre invece lasciai la crosta, la rilegatura. Una volta digerito quello, e un altro ancora, sentii come si rimescolava dentro di me, ne mangiai un po' di un terzo e così divenni poeta: lo dissi a me stessa e agli altri. Mi venne mal di testa, mal di pancia, e non so tutti gli altri dolori che mi vennero; pensai allora a tutte le storie che potevano essere collegabili a uno stecchino, così mi vennero in mente così tanti stecchini, bastoni e bastoncini. La formica regina aveva avuto una mente eccezionale, così io pensai all'uomo che si mise in bocca uno stecchino bianco e così sia lui che lo stecchino divennero invisibili, pensai alla vecchia birra con lo stecchino dentro, pensai all'espressione "fare da palo", "mettere i bastoni tra le ruote" e "il bastone della vecchiaia". Tutti i miei pensieri finivano in stecchini. Si possono pensare tante cose sugli stecchini solo se si è poeti, e io lo sono e ho faticato molto per diventarlo. Perciò potrò servirvi ogni giorno uno stecchino, cioè una storia; e questo è il mio brodo!»
«Adesso sentiamo la terza!» esclamò il re topo.
«Pip, pip!» si sentì dalla porta della cucina, e entrò una topolina, la quarta, quella che credevano morta. Lo stecchino col velo nero cadde, lei aveva corso giorno e notte, aveva preso la ferrovia, un treno merci che in quel momento passava, eppure era quasi arrivata troppo tardi. Avanzò, tutta trafelata aveva perso lo stecchino, ma non la lingua. Cominciò subito a parlare, come se si fosse aspettato solo lei, come se si avesse voluto ascoltare solo lei, come se nient'altro di interessante fosse mai esistito al mondo. Parlò subito e si sfogò. Era arrivata così inaspettatamente che nessuno ebbe il tempo di trovare da ridire su di lei o su quel che diceva. Ma adesso sentiamolo!

4. Che cosa raccontò la quarta topolina che parlò prima della terza

«Andai subito nella città più grande» raccontò. «Non ricordo il nome, non li ricordo mai. Dalla quello. Le parlai in modo amichevole e con confidenza, le feci coraggio e lei mi prese nella sua mano sottile e quando ebbe saputo perché mi trovavo nel vasto mondo, mi promise che forse quella sera stessa avrei posseduto un altro di quei due tesori che ancora stavo cercando. Mi raccontò di Fantasio, un suo caro amico, bello come il dio dell'amore, che spesso si riposava per qualche minuto sotto i rami frondosi dell'albero, che allora fremevano ancora più forte su di loro. Fantasio la chiamava la sua driade, e anche la quercia era il suo albero; la potente, robusta e grande quercia era proprio di suo gusto: le radici si estendevano profonde nel terreno, il tronco e la corona si sollevavano nell'aria fresca e conoscevano la bella neve, i venti taglienti e il caldo sole. Poi disse così: "Gli uccelli cantano lassù e raccontano delle terre straniere! Sull'ultimo ramo morto una cicogna aveva costruito il nido; ci stava proprio bene e poi si poteva ascoltare qualcosa del paese delle piramidi. Fantasio sa sempre apprezzare tutte queste cose, ma non gli bastano più, così devo raccontargli io stessa della vita del bosco, da quando ero piccola e l'albero era così minuscolo che un'ortica avrebbe potuto nasconderlo, fino a questo momento in cui l'albero è ormai diventato grande e robusto. Adesso siediti lì sotto una apserula e sta' attenta. Quando Fantasio arriverà, troverò certo l'occasione di tirargli le ali e di strappargli una piccola penna; prendila, nessun poeta ne ebbe una migliore! e certo ti basterà".
«Fantasio arrivò, la penna fu strappata e io la presi» proseguì la topolina «e la tenni nell'acqua perché diventasse morbida. Fu comunque difficile mangiarla, ma io ce la feci ugualmente. Non è così semplice rosicchiare fino a diventar poeta, c'è tanta roba da scartare! Ormai possedevo due qualità: l'intelligenza e la fantasia e con loro capii che la terza l'avrei trovata in biblioteca: infatti un grande uomo aveva scritto che esistevano romanzi che da soli erano in grado di liberare gli uomini dalle lacrime inutili, come spugne che assorbono i sentimenti. Mi ricordai di alcuni libri che mi erano sempre sembrati appetitosi; erano stati letti tanto e erano così unti che dovevano aver assorbito un flusso senza fine di lacrime.
stazione andai subito alla polizia, con la merce confiscata e poi dal carceriere, il carceriere stava parlando dei suoi prigionieri, soprattutto di uno che aveva pronunciato parole avventate, parole che vennero ripetute, lette e trascritte. "Tutto non è altro che brodo di stecchino!" aveva esclamato "ma quel brodo può costargli la testa!" così mi interessai a quel prigioniero» spiegò la topolina «e approfittando dell'occasione giusta scivolai fino da lui; dietro le porte chiuse c'è sempre un buco per un topo! Era pallido, aveva la barba lunga e grandi occhi lucenti. La lampada fumava ma le pareti erano ormai abituate e non si annerivano più. Il prigioniero incideva sulle pareti figure e versi, bianco su nero, ma io non le lessi. Credo che si annoiasse; fui quindi un'ospite gradita. Mi attirava con briciole di pane, con fischi e parole dolci. Era molto contento vicino a me, ottenni la sua fiducia e diventammo amici. Divideva con me il pane e l'acqua, mi dava formaggio e salsicce, io vivevo proprio bene, ma a trattenermi era soprattutto la compagnia. Lasciava che gli corressi sulla mano e sul braccio, fino nella manica; che mi arrampicassi sulla barba; mi chiamava la sua piccola amica. Mi affezionai molto a lui, queste cose sono sempre reciproche. Dimenticai il mio scopo, dimenticai lo stecchino in una fessura del pavimento, e è ancora là. Volevo restare dove mi trovavo; se me ne fossi andata, il povero prigioniero non avrebbe più avuto nessuno, il che è troppo poco in questo mondo. Io rimasi, lui no! Mi parlò con tono così addolorato l'ultima volta, mi diede doppia razione di pane e croste di formaggio, mi mandò dei baci con la punta delle dita, se ne andò e non ritornò più. Non conosco la sua storia. "Brodo di stecchino!" commentò il carceriere, e io andai da lui, ma non avrei dovuto fidarmi; mi prese in mano e mi mise in una gabbia, di quelle col cilindro: terribili! Si continua a correre, non si arriva da nessuna parte e si fa solo ridere.
«La nipotina del carceriere era una bambina graziosa, aveva riccioli d'oro, occhi felici e una bocca che rideva. "Povero topolino!" disse, guardando la mia brutta gabbia; poi tolse il fermo di ferro e io saltai giù dal davanzale e uscii sulla grondaia del tetto. Libera, libera! Pensai solo a questo e non certo allo scopo del viaggio!
«Era ormai buio, era quasi notte e mi rifugiai in una vecchia torre, dove abitavano un guardiano e una civetta. Io non credevo più a nessuno, neppure alla civetta. Questa assomiglia a un gatto e ha di solito il terribile difetto di divorare i topi, ma ci si può sempre sbagliare, e così accadde anche a me. Quella era una vecchia civetta rispettabile e oltremodo istruita; ne sapeva più del guardiano e tanto quanto me. I suoi piccoli facevano storie per niente, così lei esclamò: "Non fate il brodo di stecchino!", e fu la cosa più severa che potesse dire, perché era tanto affezionata alla sua famiglia. Provai molta fiducia per lei e dissi "pip" dalla fessura in cui mi trovavo; a lei piacque quella fiducia e mi assicurò che ero ormai sotto la sua protezione. Nessun animale avrebbe potuto farmi del male, ci avrebbe pensato lei in inverno, quando ci fosse stata carenza di cibo. Era intelligente in tutto, mi mostrò che il guardiano sapeva solo soffiare in un corno che portava appeso al fianco. "Per questo si crede chissà che cosa, pensa di essere lui la civetta della torre! Si dà molte arie, ma in realtà non è niente! È solo brodo di stecchino!" Le chiesi la ricetta, così mi spiegò: "Brodo di stecchino è solo un modo di dire che viene interpretato in maniere diverse e ognuno crede che la propria sia quella giusta, ma in realtà non è niente!".
«"Niente!" esclamai. Che colpo! La verità non è sempre piacevole, ma la verità è la cosa suprema. Così aveva detto anche la vecchia civetta. Pensai che se avessi portato con me la cosa suprema, avrei portato con me molto più di un brodo di stecchino. Così m'affrettai a partire per arrivare a casa in tempo e portare il meglio e la cosa suprema: la verità! I topi sono un popolo illuminato e il re dei topi è al di sopra di tutti. È in grado di rendermi regina per amore della verità.»
«La tua verità è menzogna!» disse la topolina che non aveva ancora potuto parlare. «Io so fare il brodo, e lo farò!»

5. Come venne preparato

«Io non ho affatto viaggiato» raccontò la quarta topolina. «Sono rimasta in patria, davvero! Non è certo necessario viaggiare, si può ottenere tutto qui. Io sono rimasta, e quello che so non l'ho appreso da creature soprannaturali, non mangiando o parlando con le civette. Lo so perché ci ho pensato da sola. Mettete il paiolo sul fuoco, riempitelo bene d'acqua, accendete il fuoco, fatelo ardere finché l'acqua non bolle e strabolle, poi gettate lo stecchino. Il re topo dovrebbe allora degnarsi di gettare la coda dentro, nell'acqua bollente e di girarla. Più a lungo rimestolerà il tutto, più saporita sarà la zuppa; non costa niente, non ha bisogno di condimento, basta girarla!»
«Può farlo anche un altro?» chiese il re topo.
«No!» rispose la topolina «questa forza si trova solo nella coda del re!»
L'acqua bollì e strabollì e il re si mise vicinissimo, in modo quasi pericoloso, e vi infilò la coda, come fanno di solito i topi nelle latterie, quando schiumano la panna da un recipiente con la coda e poi se la leccano, ma la sua si trovò nel vapore bollente, così lui saltò subito giù.
«Naturalmente sarai regina!» esclamò «il brodo di stecchino aspetteremo a farlo alle nostre nozze d'oro, così i poveri del regno si rallegreranno in previsione di questa festa e sogneranno a lungo!»
Si celebrarono le nozze, ma molti topi, tornando a casa, dissero: «Non si poteva certo chiamare brodo di stecchino, era piuttosto brodo di coda di topo!». Alcuni particolari di quello che era stato raccontato sembravano giusti anche a loro, ma l'insieme avrebbe potuto essere diverso! «Io avrei raccontato così e così...»
Era la critica, sempre ricca del senno di poi.
Questa storia girò il mondo, suscitando diverse opinioni, ma la storia in sé mantenne la sua armonia, e questa è la cosa più giusta, sia nelle cose grandi che in quelle piccole, e anche nel brodo di stecchino. Basta non aspettarsi ringraziamenti!

FINE

 

 
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Capodanno a S.Tobia

Post n°912 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Che vi credete,lettori?Capodanno arriva anche qui!Ed essendo a S.Tobia vi pare possa essere un Capodanno normale?
Ecco quel che è successo quest'anno nel nostro ameno paesino all'inizio del terzo millennio.
A casa del becchino Geremia si è sfiorata la tragedia,a causa ( e te pareva)dell'intenzione della terribile Ermione di levare dal mondo il fratellino Tarquinio,cosa che ha fatto per ben due volte nell'arco di una sera.
La perfida prima ha piazzato un enorme petardo acceso nella culla dell'ignaro pargolo che dormiva beato.
Solo il pronto intervento di Geremia,che ha spento l'ordigno con una secchiata d'acqua,ha impedito che Tarquinio facesse la fine di Abele.
Ben decisa a portare a termine il suo piano Ermione,approfittando del fatto che a Capodanno porta bene lanciare le cose vecchie dalla finestra,ci ha provato con Tarquinio,ma la nonna Cesira ha allertato figlia e genero,che per evitare altri attentati hanno chiuso l'Ermione in una bara.
A casa Scozzagalli,invece,festa doppia,perchè Melchiorre compiva 110 anni
Il vecchiardo si è ubraciato e si è attaccato al lampadario,convinto di essere Tarzan.
I parenti sono stati fatti oggetto di un fitto lancio di oggetti:Teseo e Perseo sono stati colpiti da un vassoio piendo lenticchie.Essendo allergici sono stati colti da choc anafilattico.L'elvira si è presa una bottigliata e Virgilio ha avuto un coltello che gli è passato rasente all'orecchio destro.
Per fortuna Melchiorre è stato colto da sonno etilico,sennò come finiva non si sa.
Il Capodanno peggiore lo ha senza dubbio passato Ireneo.
Il pretone ha l'abitudine di scendere in cantina per fumarsi in pace il sigaro.Non sapeva,ahilui, che Evaristo aveva riempito di petardi la medesima per festeggiare degnamente il 2000.
Questi i risultati
A S.Tobia non ci sono più vetri.
La statua della fontana è andata in orbita,perdendosi nei cieli bigi.
74 galline,38 paperi e 56 conigli sono morti di infarto
Cesarone è diventato sordo.
75 paesani sono finiti al pronto soccorso.
La canonica non esiste più
Ireneo detiene il record di salto sul campanile.
A tre giorni dai fatti,questa la situazione.
L'Ermione ha denunciato i genitori per maltrattamenti:Fidalma e geremia sono a Sollicciano.
Melchiorre dorme ancora.
Perseo e Teseo sono stati dichiarati fuori pericolo stamattina.
La statua è stata ritrovata sopra un ovile nel Gennargentu.
Cesarone è sempre sordo.
Ireneo vive un un camper con Belva la gatta e Cagliostro.
La Marianna ha posto una taglia sulla testa di Evaristo,ma glielo devono riportare morto.
I paesani hanno allestito una ghigliottina sulla piazza del paese.
Evaristo non si trova.
Anche questo capodanno è passato,cari lettori.Cosa ci riserva il 2001? Al solo pensiero mi vengono i sudori freddi!




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Io non vorrei crepare (Vian)

Post n°911 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

o non vorrei crepare
senza aver visto *almeno* i cani messicani neri
che senza sognare dormono a ciel sereno;
senza aver conosciuto ai tropici le voraci
scimmie divoratrici (le scimmie a culo nudo).
O anche i ragni argentati dai serici nidi felici
di spruzzi traforati.

No, non vorrei crepare ignorando se la presunta
monetina che spunta sotto la faccia della luna
stia a nascondere una seconda faccia a punta.
Se - dopo gran riflessioni - il sole è freddo.
Se le famose quattro stagioni
son proprio quattro e non tre.
Senza aver passeggiato per il corso in vestaglia
guardando fissa la marmaglia dei guardoni.
Senza aver ficcato i miei *coglioni*
in ogni posto vietato.

Io non vorrei finire senza sapere la lebbra
(beh, si fa per dire)
o almeno la febbre dei sette mali che
pi o meno certamente si acchiappano laggiu':
resterei indifferente al bene e al male
purch è di tutta questa vasta delizia
l'assoluta primizia
fosse riservata a me.

E poi non basta, c' è tutto cio' che conosco,
che ho imparato ad amare: il fondo verde bosco
del mare dove le alghe sottili gareggiano nel
disegnare onde di walzer sugli arenili.
E ancora la terra, che a giugno crepita e sbotta
di odori, e le conifere, e un semplice pugno d'erba...

... e i baci di quella! Si, insomma quella, signori.
Ursula.
Ursulotta. La pi bella orsacchiotta
fra tutte le orse maggiori.
Quella per la quale proprio non vorrei crepare
senza averla avuta tutta. Goderla la bocca nella bocca,
i bei seni nelle mie mani, poi con gli occhi il resto e...
Basta! Questi son fatti miei. Si, taccio.

Morire? Non posso, come faccio? ( come si fa? )

Come vuoi crepare senza che ancora si siano inventate
le cose che contano: le rose eterne, le giornate di un'ora,
i monti marini e le spiagge, beh, le spiaggie montagnose.
La cuccagna finiti tutti i tormenti, i quotidiani
splendenti di colori, i bambini contenti e tutti i trucchi
ancora dormenti dentro i crani stipati di ingegneri ingegnosi,
socialisti associati, urbanisti urbanizzati e pensatori pensosi
Io non vorrei finire senza sapere la lebbra
Dio, quante cose da fare,
da intendere e volere
da contare e aspettare,
Mentre la fine gia' avanza in notti sempre pi nere.
Striscia, con la schifosa sembianza di un rospo.
Eccola, non c' è pi scampo.
Gli occhi nei miei...
No, proprio no,
in non verrei crepare,
nossignori, nossignore,
non senza aver fatto conoscenza
del sapore tormentoso di cui sono geloso e goloso.
Il sapore pi delicato che si possa sentire.
Il pi forte.

Io non vorrei crepare.
Senza aver gustato il gusto della morte.

 
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Libri dimenticati:Miofiglio non sa leggere

Post n°910 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Umberto è un bambino bellissimo e molto amato,ma quando inizia la scuola ci si accorge che qualcosa non va.
Occorreranno anni tormentatissimi prima che si scopra che è dislessico.
E' il viaggio di un padre nel dramma del figlio,che stravolge le vite di quelli intorno a lui

 
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Frase del giorno

Post n°909 pubblicato il 05 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Di sera leoni ,la mattina coglioni! (Mia nonna)

 
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