Messaggi del 12/10/2011

IlSgnore S.Pietro e la vedova

Post n°981 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Il Signore e San Pietro una volta giravano qua in terra chiedendo l’elemosina.
Andarono a cercare alloggio per la notte da una vedova, una poveretta con tanti figli da sfamare, che aveva una miseria incredibile.
Lei si fece in quattro per dagli da mangiare e poi insistette per cedere loro il suo letto.
“Ma no - si schernivano loro - andiamo a dormire sulla paglia!”
Niente da fare, lei volle ad ogni costo cedere il suo letto agli ospiti.
Quando se ne andarono la mattina dopo, San Pietro disse:
“Signore mio, che buona donna! Perché non la sollevate dalla sua grande miseria?”
Il Signore non era d’accordo, ma S. Pietro insistette tanto che Egli la fece diventare ricca.
Così la vedova diventò padrona di una fattoria, si fece costruire un palazzo ed ebbe tanti servitori e garzoni….
Successe che dopo qualche anno i due vecchi pellegrini passarono ancora di lì e si fermarono a chiedere la carità e l’alloggio per una notte.
Accipicchia, com’era cambiata la vedova! “L’alloggio qui non c’è!”
Loro si raccomandavano: “E’ già notte, dove volete che andiamo a quest’ora?”
Allora lei si rivolge ad un garzone: “Mandali là, sopra al porcile”
Appena fa giorno, la vedova manda il garzone a vedere se sono andati via… “Altrimenti dagli un sacco di botte” gli dice.
Siccome i due pellegrini indugiano ancora il garzone torna per picchiarli e le busca San Pietro che era quello più vicino alla porta.
“E la prossima volta le dò anche a te” dice il garzone al Signore.
San Pietro vuole scappare via: “Accidenti, qua picchiano sodo!”
Ma il Signore è molto paziente: “Aspettiamo ancora un po’! adesso vengo io vicino all’uscio, e tu vieni qua a dormire sotto la paglia”.
Caspita, dopo un po’ torna il garzone! “Tu le hai già buscate, adesso vado da quel buggerone che dorme sotto la paglia” in modo tal che bastona di nuovo quel povero San Pietro.
Egli se ne lamenta con il Signore che invece sorride sotto i baffi: “Hai visto? Hai desiderato che la facessi diventare ricca e così è diventata cattiva”.

 
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L'uomo che parlava ai morti

Post n°980 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Giovannino era un uomo grande e grosso e forte di quelli che non hanno paura di nulla, neppure del diavolo. Faceva volentieri tutti quei mestieri che nessuno vuol fare, e intal modo faceva contenta molta gente.
Cosi' anche quando fu chiamato in comune per fare il sotterramorti, lui fu pronto a farlo senza indugio.
La prima settimana non ando' molto male, perche' non era morto nessuno e lui passava il tempo a pulire i viali del camposanto, a strappare le erbacce, a scopare e ripulire le croci. Si recava sotto negli ossari e con uno straccio puliva e lustrava le teste dei morti, puliva i denti con lo spazzolino e rimetteva insieme gli scheletri: insomma il tempo gli passava bene ed era un lavoro piacevole.
Un giorno che piovigginava e lui non sapeva proprio che cosa fare, gli venne in mente di alzare il coperchio di una tomba e di calarsi all'interno per vedere che cosa c'era.
I morti erano tranquilli, proprio morti.
Poi nel muro intravide una porta e l'apri' per vedere.
Non appena aperta la porta scorse una luce, un sole splendente: si vedevano dei giardini pieni di vari fiori e piante cariche di frutti d'ogni qualita'e vicino a lui c'era un albero con dei pomi rossi e belli:
"io ne ho colto uno e subito al posto del pomo raccolto ne e' cresciuto un altro..." raccontò.
Intanto vide i morti che passeggiavano, i ragazzi che giocavano, insomma era una scena che nessuno avrebbe creduta, se non l'avesse vista.
Ad un tratto vide un conoscente che era appena morto, lo riconobbe e tutto emozionato lo chiamò per nome, ma quello non rispose e continuò a camminare per la sua strada. Lo rincorse e quando gli fu vicino fece il gesto di prenderlo per una mano per fermarlo ma la mano non c'era!
Giovannino gli si parò davanti come per sbarrargli la strada: il morto aveva una faccia ne' rossa ne' pallida con un colore incerto e torbido, ma la bocca era sorridente e gli occhi sembravano quelli di una persona contenta. Pero' non parlava mentre poteva scrivere e scriveva per terra.
Egli scrisse per terra che la morte e' bella e che e' soltanto il corpo che muore mentre l'anima dei buoni vive anche sotto terra, vive bene ed e' contenta .
"Vivo meglio di te', e piu' contento; e cosi' passo l'eternita' come puoi constatare. E questa e' la vera vita". Cosi' aveva scritto per terra.
Giovannino usci' dalla tomba grandemente meravigliato ma contento per quello che aveva visto .
Ando' di corsa a cercare il prete per raccontare la sua avventura ma il prete non gli credette e lo fece passare per matto .
Anche la gente e le autorita' non gli credettero . Ma questo non ha importanza ... perche'.....la verita' e' sottoterra e restera' sempre dove è.



leggenda della Valle Brembana

 
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La fata del lago

Post n°979 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nella conca di Prêz si possono rilevare le tracce di un antichissimo lago, la cui memoria si perde nel tempo.
Neppure i più vecchi lo videro con i loro occhi; ma, per sentito dire, raccontavano che, nei tempi dei tempi, sulle rive ridenti d’erbe e fiori viveva in una grotta una fata.
Con la gente non era né buona né cattiva; ma si prendeva cura del lago, così le acque, sempre limpide e pure, donavano piacevole frescura ai boschi circostanti e, defluendo, irrigavano i campi e i prati, che erano verdi e rigogliosi.
Della fata i montanari conoscevano soltanto la voce, perché, quando era felice, cantava, ed il suo canto dolcissimo si spandeva per tutta la vallata. Si diceva che fosse assai bella, ma nessuno l’aveva mai accertato coi suoi occhi, poiché la fata non voleva esser vista ed evitava la presenza umana, spesso trasformandosi in serpe, per nascondersi meglio.
Un giorno due pastorelli, che sedevano tranquilli al riparo di una roccia, udirono levarsi un canto a non molta distanza da loro.
“E’ una donna che canta”, disse il maggiore.
“Ma non conosco nessuna donna che sappia cantare così”.
La voce s’avvicinava. I ragazzi rimasero immobili in ascolto, trattenendo persino il respiro.
Quando la melodia si spense, nessuno dei due si azzardava a parlare, per timore d rompere l’incanto.
Ed ecco che la fata sbucò da un cespuglio, avvolta come in manto dai lunghi capelli dorati. I pastorelli non avevano mai visto una creatura di tanta bellezza, né chioma così lucente, né occhi simili a quelli, del colore del cielo specchiato nell’acqua.
“E’ la fata del lago!”, bisbigliò il più piccino.
“Ssssst!” lo zittì l’altro, timoroso di spaventarla.
Troppo tardi: la fata si era accorta della loro presenza.
Si coprì anche il volto con i biondi capelli e fuggì verso il lago, così rapida e leggera che l’erba non si piegava neppure sotto i suoi passi.
Seguendo il suo primo impulso, i pastorelli la inseguirono; ma la persero in breve di vista e, giunti sulla riva, si fermarono, per cercare una traccia che non poterono trovare.
A un tratto, sull’altra sponda del lago, scorsero una grossa serpe dalle squame d’oro che brillavano al sole. Non sapevano che ci fossero serpenti così grandi: fuggirono spaventati, rinunciando a cercare la fata.
Per giorni e giorni non si sentì più cantare in riva al lago. Ma spesso chi si trovava a passare di lì avvistava la serpe, che tosto si sottraeva agli sguardi con guizzo repentino.
Un giorno un cacciatore di Fontainemore la sorprese mentre si sporgeva da una pietra sull’acqua per contemplarvisi, come in uno specchio.
Era lì, immobile, senza alcun sospetto, distesa sulla roccia, con le sue scaglie dai bagliori d’oro.
L’uomo imbracciò il fucile e sparò un colpo.
Colpita a morte, la serpe si lasciò scivolare nel lago.
In breve le onde ribollirono di sangue. Poi, lentamente, il livello dell’acqua calò. I flutti presero a defluire nel torrente Pacolla, e di lì si riversarono nel Lys, tingendolo di rosso.
Con la fata serpe morì anche il suo lago.
Sorgenti fino allora abbondanti si inaridirono all’improvviso.
La conca di Prêz si prosciugò e tutto, attorno, intristì poco a poco. Sulle rive scomparve ogni traccia di vegetazione; lungo il declivio, non più irrigato, il suolo si fece arido e brullo.


(Antica leggenda della Valle d'Aosta)

 
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Jessie White Mario

Post n°978 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Il fascino che si coglie nella figura di Jessie White Mario, una donna di origini inglesi che seguì Garibaldi nelle sue imprese per oltre vent'anni, apre una finestra sui personaggi femminili del nostro Risorgimento, che molte volte ricoprirono parte attiva nel corso degli eventi, offrendo un contributo assai generoso e coraggioso alla causa dell'indipendenza italiana, e che spesso, nei testi storici, si ha poca occasione di porre sotto lente di ingrandimento.



Dopo l'incontro tra i due a Nizza, divenne l’infermiera dei garibaldini, e con estremo entusiasmo, abbracciò questo compito al seguito dell'eroe dei Mille, pronta a sfidare ogni sorta di pericolo, anche a rischiare la prigione e la vita, per seguire il Generale.



Jessie White, nacque a Gosport, vicino Portsmouth, nel 1832, da un’abbiente famiglia di armatori, che in seguito si trovarono in difficoltà, dovute alla comparsa delle navi a vapore, che rendevano ormai compassati i loro velieri.

Ebbe un'infanzia dura:i suoi genitori avevano due valori guida nella loro esistenza: la preghiera ed il lavoro, ma questa obbligata sottomissione, alimentò ben presto nella giovane Jessie, uno spirito ribelle.



Sotto l'aspetto gentile, albergava in lei una forza incredibile, un'indole polemica e passionale, nonchè una certa vena autoritaria ed intollerante.



Frequentò poi una delle migliori scuole di Londra e nel 1852, (anno in cui avvenne il colpo di stato del futuro Napoleone III) all’età di vent'anni, terminati gli studi, domandò al padre di potersi trasferire a Parigi per frequentare la Sorbona, ove prese parte a circoli studenteschi liberali e repubblicani.



Si recò in seguito a Nizza, accompagnando un'amica di famiglia, Emma Roberts, lì conobbe Garibaldi che era tornato nella sua città natale, dopo l'esilio a New York, causato dalla caduta della Repubblica romana.

Ella conosceva a fondo i problemi italiani, dolendosi fortemente per la sconfitta del '49 ad opera francese.

La giovane, durante il periodo alla Sorbona, aveva maturato anche una profonda ammirazione per Mazzini, cosa che non trovò mai consenziente Garibaldi, ma vedendola così intensamente animata, la ragazza riuscì ad ottenere che nel caso di azione, egli l'avrebbe immediatamente chiamata, mentre lei nel frattempo avrebbe studiato medicina per poter soccorrere i feriti.



Ella prestò servizio nelle corsie degli ospedali, studiò trattati di medicina, organizzando al contempo conferenze per perorare la causa italiana.

A Londra cercò di farsi ammettere alla facoltà di medicina, ma incassò sempre rifiuti, perché la società inglese non accettava all'epoca che una donna potesse diventare medico.



Nel 1856, Jessie, che aveva tenuto anche fitta corrispondenza con Mazzini, si recò a Genova per incontrarsi proprio col medesimo e definire i particolari dell'insurrezione.

Ella tornò poi a Londra per raccogliere fondi per l'impresa e scrisse a Garibaldi, spiegandogli il progetto mazziniano ed invitandolo ad unirsi ad esso, ma egli non le dette l'assenso sperato.



Jessie però non si perse d'animo, e si accordò col "Daily News" per inviare delle corrispondenze, girando la Penisola.



A Genova, la donna accrebbe la sua altissima stima ed ammirazione per Mazzini e divenne amica di tutti i patrioti.



Tornata a Londra per richiedere nuovamente ed infruttuosamente l'ammissione alla facoltà di medicina, fu presto di ritorno in Italia, nel 1857.



Qui si recò prontamente a trovare Mazzini, nascosto in casa di un patriota che lo ospitava:era il giovane veneto Alberto Mario, che diverrà in seguito suo marito.



La spedizione di Sapri si concluse con un fallimento e la morte di Carlo Pisacane(il quale precedentemente aveva consegnato a Jessie stessa il suo diario), così come naufragò l’insurrezione mazziniana del 29 giugno 1857, e così il 4 luglio, tutti i cospiratori furono arrestati, tra cui la White stessa e Alberto Mario.



Appena liberata, venne espulsa, e andò prima a Ginevra e poi a Londra.

Alberto Mario la raggiunse a Gosport, presso la casa paterna della ragazza, ed ivi la prese in moglie.



Alla fine del 1857 la White Mario si recò col marito a trovare Mazzini in esilio a Londra.



Alla fine del 1858 i due coniugi raggiunsero New York per far propaganda alla causa italiana ed il "New York Herald" dedicò un articolo alla conferenza di Jessie, nel corso della quale ella si scagliò durissima contro la monarchia piemontese.



Nel 1859, la notizia che Napoleone III era in procinto di intervenire contro l'Austria in favore dei piemontesi, fece sì che i coniugi Mario si imbarcassero immediatamente da New York per seguire Garibaldi, ma purtroppo giunsero troppo tardi, poichè era stato già firmato l'armistizio di Villafranca:furono arrestati prima in Veneto e poi a Ferrara e Bologna.



Considerati spie liberali, furono imprigionati per un mese e poi furono espulsi dal paese.

Ripararono in Svizzera, dove il marito poté finalmente frequentare Carlo Cattaneo, di cui aveva sposato il pensiero, ritenendo ormai troppo vaghe e fumose le idee mazziniane.



Nel maggio del 1860, all’indomani della spedizione dei Mille, Jessie che era tornata a Genova, il 10 giugno si imbarcò per Palermo sulla nave “Washington”colma di volontari, medici italiani e stranieri pronti ad unirsi all’impresa dell’eroe.

La donna, in presenza di Garibaldi, domandò di poter organizzare un corpo di ambulanze per “l’esercito nazionale”.



Infermiera dei garibaldini, Jessie divenne sempre più popolare fra le truppe, per la sua resistenza fisica ed il suo ottimismo.



I coniugi Mario, seguirono il Generale dalla Sicilia sino a Napoli, sfidando con spirito intrepido le cannonate borboniche, tanto che, a campagna finita, i napoletani donarono due medaglie d’oro alla donna in segno di gratitudine.



Jessie aprì anche il primo ospedale garibaldino, facendosi aiutare dall’associazione inglese delle Signore di Garibaldi, istituita a Londra dalla contessa di Shaftesbury.



Garibaldi il 4 settembre 1860, fece il suo ingresso trionfale a Napoli ed ancora una volta, la White fu presente all’evento.



Quando il 1° ottobre, si svolse la battaglia decisiva sul Volturno, Jessie giunse temerariamente con la sua ambulanza sulla linea di conflitto.



Fu uno degli scontri più cruenti di quelli dei Mille, ma la ragazza non temeva la visione della morte, piuttosto, ciò che la colpì intimamente ed amaramente fu l’incontro a Teano, con cui il suo Generale consegnò a Vittorio Emanuele II le terre liberate.



Nel 1861, la White era già famosa:scrisse su molti giornali, il “Daily Star”, lo “Scotsman”, e la “Naciòn”di Buenos Aires ed essi dedicavano alla sua figura grande attenzione.



Nel 1862, Jessie non fece in tempo a raggiungere Garibaldi che era partito alla conquista di Roma.



Il 29 agosto di quell’anno, in Aspromonte, i regolari piemontesi sparando sui garibaldini, ferirono il condottiero, e quando la giovane riuscì a raggiungere il luogo della battaglia, era già tutto finito, ma anche in questo caso, indomita raggiunse la fortezza del Varignano dove il Generale era stato portato prigioniero, per assistere il dottor Zanotti che rimuoveva la pallottola dal piede destro dell’eroe.



Nel 1864, Garibaldi compì il suo famoso viaggio in terra inglese, che grazie all’efficacissima propaganda della White, si rivelò un vero trionfo.



Nello stesso anno, Jessie e Alberto Mario si trasferirono a vivere a Firenze, dove la donna aveva intessuto fitta rete di rapporti con tutto il mondo repubblicano e mazziniano.



Nel 1865 Jessie rimase molto impressionata dall’invito che il presidente americano Lincoln rivolse a Garibaldi, per domandargli di assumere il comando dell’esercito dell’Unione contro i secessionisti del Sud, ed ella su questo tema, scrisse il pamphlet “La schiavitù e la guerra civile americana”.



Nel 1866, la donna corse sino in Trentino per seguire la campagna di Garibaldi fino al famoso “Obbedisco”, che l’eroe pronunciò, perché gli italiani, più volte battuti, rinunciarono a combattere oltre.



Nel 1867, Jessie seguì ancora Garibaldi nell’impresa romana e, mentre si maturava la tragedia di Mentana, ella si recò a recuperare il corpo di Enrico Cairoli ucciso a Villa Glori.



Venne allora fatta prigioniera dai francesi, vedendo tristemente scorrere cinquanta vetture cariche di garibaldini catturati.



L’8 settembre del medesimo anno, seguì Garibaldi, Benedetto Cairoli ed altri fedelissimi al Congresso internazionale di Ginevra, cui partecipò anche lo scrittore russo Dostoevskij.



Nel 1870, Jessie seguì ancora una volta il Generale in Francia, a Digione, nel corso della guerra franco-prussiana, conclusasi con la sconfitta e la cattura di Napoleone III.



La White tornò poi in Italia e da quel momento, all’età di quarant’anni, decise di rinunciare all’azione e di scrivere:scrisse indefessamente, malgrado la menomazione che in seguito la colpì, una paralisi alle tre dita della mano destra.



Scrisse per la “Nuova Antologia” e per molti quotidiani e riviste, si dedicò agli studi, ai libri, alle memorie di una vita , ponendo in essere poi l’immenso desiderio di realizzare una biografia del suo eroe.



All’inizio del 1881 cominciò a lavorare alla biografia di Garibaldi ed essa uscì a Milano, edita da Treves, negli stessi giorni della morte del Generale, che si spense a Caprera il 2 giugno 1882.



Nei mesi successivi alla scomparsa di Garibaldi, la biografia di Jessie incontrò un enorme successo.



Ma Treves, domandò alla White di approfondire quella “Vita di Garibaldi” per plasmare uno straordinario ritratto del Risorgimento, analizzando anche tutti i personaggi che erano gravitati intorno all’eroe, dando vita così ad una nuova opera che fu “Garibaldi e i suoi tempi”.



Jessie, conoscendo tutto di Garibaldi e dei garibaldini dopo averli seguiti per vent’anni, come loro infermiera, vide nell’azione del Generale, un disegno divino, una sorta di laica provvidenza.



Purtroppo, nella narrazione di questo ricco e vivido racconto, ella sorvolò alquanto sui contrasti tra Mazzini e Garibaldi, che pure meglio di chiunque altro aveva avuto sotto l’occhio di osservatrice privilegiata, e quasi finse che l’ala risorgimentale di sinistra non fosse stata travagliata da enormi dissidi.



Il 2 giugno 1883 a Lendinara, dove nacque, si spense suo marito, Alberto Mario, ad un anno esatto dalla morte di Garibaldi.



Jessie trascorse gli oltre vent’anni che gli sopravvisse in ristrettezze, insegnando inglese all’istituto di magistero femminile a Firenze, con la mano destra ormai quasi inutilizzabile, vivendo in un casa ricca di immagini ed un salotto in cui troneggiavano un ritratto con dedica di Garibaldi, quello di Carducci che aveva pubblicato le opere di suo marito, quello di Agostino Bertani e due dell’amato consorte, girando per la sua dimora con indosso la camicia rossa garibaldina e portando sul petto le medaglie ricevute nel corso delle varie campagne.



Nel 1906, Jessie White Mario morì a Firenze, e poi le sue ceneri furono condotte a Lendinara, ove riposano accanto a quelle del marito.



Nella commemorazione che ne fece la “Nacìon” di Buenos Aires, venne ricordato che tra il 1866 ed il 1906, la donna scrisse 143 articoli e molti libri su Garibaldi.



Al momento del trapasso, ella stava scrivendo la storia dell’unificazione italiana che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere un’opera di divulgazione per il popolo.



“The birth of Modern Italy”, fu pubblicato postumo a Londra nel 1909, ed ottenne immenso successo, tanto che forse avrebbe reso ricca l’autrice, che invece morì povera.



Ella infatti, rinunciando alle ricchezze di famiglia, decise di abbracciare con convinzione ed orgoglio, gli ideali e le battaglie risorgimentali della nostra patria, dedicando la sua vita alla causa dell’unificazione italiana, gettandosi in prima persona nell’agone della lotta, raccogliendo denari nella sua terra e fuori per sensibilizzare la pubblica opinione alle vicende italiane e scrivendo articoli per prestigiose testate giornalistiche, lasciando anche imperitura testimonianza, attraverso i suoi libri, di un periodo storico da cui è iniziata realmente una storia d’Italia, con tutto ciò che da quel momento, ne sarà poi scaturito.







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Lettera di un ragno

Post n°977 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

"Egregio signore, sono un vecchio ragno e sono vissuto finora proprio alle sue spalle, dietro il busto di gesso di questo strano personaggio con due facce che mi sembra che si chiami il dio Giano.
Però non é del dio Giano che voglio parlarle, ma della mia vecchia e povera persona.
Ero un bel ragno grasso e nero ai miei tempi, ma sono stato ridotto così dalle tante battaglie che ho dovuto sostenere con la di lei moglie che ogni mattina distruggeva con un solo colpo di scopa le mie pazienti creazioni nel campo della tessitura.
Se lei fosse un pescatore e un pescecane le distruggesse tutte le mattine la rete, come farebbe a vivere?
Con questo non voglio paragonare la sua signora a un pescecane. Ma insomma, mi sono dovuto ridurre a dare la caccia ai moscerini in libreria, e mi sono accampato in un piccolo rifugio,dietro la testa del dio Giano, che non se ne lamenta troppo.
Così sono invecchiato. Le mosche, sono sempre più rare, con tutti gli insetticidi che hanno inventato.
Vorrei pregare la sua signora di lasciarne vivere almeno due o tre la settimana, di non farle morire proprio tutte.
Ma so che questo è impossibile; la sua signora odia le mosche, perché le sporcano le tovaglie e i vetri delle finestre.
Perciò ho deciso di lasciare questa casa e di trasferirmi in campagna. Là forse troverò da vivere.
Ho ricevuto un messaggio da alcuni miei amici che vivevano in solaio e sono emigrati in giardino; si trovano bene e mi invitano a raggiungerli.
Sì, signore, ce ne andiamo tutti.
I ragni lasciano le case degli uomini, perché non vi trovano più cibo.
Me ne vado senza malinconia, ma mi sarebbe sembrato di farle un dispetto e di mancarle di cortesia andandomene senza salutare...

Suo devotissimo

 
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Alice Cascherina

Post n°976 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Questa è la storia di Alice Cascherina, che cascava sempre e dappertutto.
Il nonno la cercava per portarla ai giardini: - Alice! Dove sei, Alice? -
- Sono qui, nonno.
- Dove, qui?
- Nella sveglia.
Si', aveva aperto lo sportello della sveglia per curiosare un po', ed era finita tra gli ingranaggi e le molle, ed ora le toccava di saltare continuamente da un punto all'altro per non essere travolta da tutti quei meccanismi che scattavano facendo tic-tac.
Un'altra volta il nonno la cercava per darle la merenda: - Alice! Dove sei, Alice?
- Sono qui, nonno.
- Dove, qui?
- Ma proprio qui, nella bottiglia. Avevo sete, ci sono cascata dentro.
Ed eccola la' che nuotava affannosamente per tenersi a galla. Fortuna che l'estate prima, a Sperlonga, aveva imparato a fare la rana.
- Aspetta che ti ripesco.
Il nonno calo' una cordicina dentro la bottiglia, Alice vi si aggrappo' e vi si arrampico' con destrezza. Era brava in ginnastica.
Un'altra volta ancora Alice era scomparsa.
La cercava il nonno, la cercava la nonna, la cercava una vicina che veniva sempre a leggere il giornale del nonno per risparmiare quaranta lire.
- Guai a noi se non la troviamo prima che tornino i suoi genitori, - mormorava la nonna, spaventata.
- Alice! Alice! Dove sei, Alice?
Stavolta non rispondeva. Non poteva rispondere. Nel curiosare in cucina era caduta nel cassetto delle tovaglie e dei tovaglioli e ci si era addormentata. Qualcuno aveva chiuso il cassetto senza badare a lei. Quando si sveglio', Alice si trovo' al buio, ma non ebbe paura: una volta era caduta in un rubinetto, e la' dentro si' che faceva buio.
'Dovranno pur preparare la tavola per la cena, - rifletteva Alice - E allora apriranno il cassetto'.
Invece nessuno pensava alla cena, proprio perche' non si trovava Alice. I suoi genitori erano tornati dal lavoro e sgridavano i nonni: - Ecco come la tenete d'occhio!
- I nostri figli non cascavano dentro i rubinetti, - protestavano i nonni, - ai nostri tempi cascavano soltanto dal letto e si facevano qualche bernoccolo in testa.
Finalmente Alice si stanco' di aspettare. Scavo' tra le tovaglie, trovo' il fondo del cassetto e comincio' a betterci sopra con un piede.
Tum, tum, tum.
- Zitti tutti, - disse il babbo, - sento battere da qualche parte.
Tum, tum, tum, chiamava Alice.
Che abbracci, che baci quando la ritovarono. E Alice ne approfitto' subito per cascare nel taschino della giacca di papa' e quando la tirarono fuori aveva fatto in tempo a impiastricciarsi tutta la faccia giocando con la penna a sfera


da Favole al telefono di Gianni Rodari

 
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Il segreto del Colosseo

Post n°975 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Questa è una storia vera. Un passero cresceva in casa di un vigile urbano amico mio. Lo aveva trovato per terra presso il capolinea del 28 una mattina presto: doveva essere caduto dal nido, perché non sapeva volare.
Il vigile lo portò a casa, lo nutrì, gli fece il nido in un vecchio kepì di sughero, di quelli che i vigili portano d’estate. Lo chiamò Sasà e gli voleva un gran bene.
Anche il passero gliene voleva. Per esempio, se squillava il campanello e qualcuno entrava in casa, il passero continuava tranquillamente a fare quel che stava facendo: passeggiare sotto il tavolo, becchettare in cucina, esplorare sotto i mobili; ma se entrava il vigile, il passero correva alla porta cinguettando per dargli il benvenuto. Quando la famiglia andava a tavola, il passero s’accoccolava vicino al piatto del vigile e gli beccava i piselli dello spezzatino.
Il vigile aveva un bambino di nome Roberto. Anche Roberto voleva bene al passero e il passero gli voleva bene, ma non come al padre.
Una mattina Sasà fu trovato morto e Roberto scoppiò in lacrime.
- Non piangere, - gli disse il padre. – Ora mettiamo Sasà in questa scatoletta. Tu sta’ attento che nessuno lo tocchi, e dopo pranzo lo portiamo a seppellirlo.
Alle due il vigile tornò dal suo lavoro; pranzò con la famiglia, poi, siccome aveva mezza giornata di libertà, prese Roberto per mano, si mise in tasca la scatoletta con il povero Sasà e uscì. Prima però aveva involtato la scatoletta in un robusto foglio di carta da zucchero e l’aveva legata con uno spago in croce.
- Vieni, - disse a Roberto.
- Dove lo portiamo? - domandò il bambino. – Al cimitero?
- No, là non ce lo lasciano mettere. E poi è un passero: sotto terra non ci starebbe bene.
- Allora dove?
- Vedrai, - disse il vigile.
Montarono su un filobus; scesero in centro; aspettarono un autobus e con questo arrivarono fino in piazza del Colosseo.
Roberto non aveva mai visto il Colosseo e gli parve così grande che non ci stava negli occhi.
Padre e figlio entrarono al Colosseo, fecero il giro della vasta arena su cui un tempo combattevano leoni e gladiatori, salirono sulla prima galleria dove c’è il palco dell’imperatore, salirono sulla seconda galleria e poi sul terrazzino più alto. Di lassù si vedeva tutto l’interno del Colosseo e si respirava un’aria così forte che dava le vertigini.
Il vigile si guardò attorno per assicurarsi che i guardiani non lo stessero spiando; poi si tolse la scatoletta di tasca, la infilò in una fenditura tra due massi e la ricoperse di terriccio e di calcinacci grattati lì intorno.
Ogni volta che vado al Colosseo mi fermo a guadare i turisti di tutto il mondo che scattano fotografie e si fanno spiegare dai ciceroni i gladiatori, i leoni, i cristiani, gli imperatori, e via dicendo.
E mi viene un po’ da ridere a pensare che la cosa più curiosa e gentile di tutto il Colosseo, che è così grosso e così vecchio, è un piccolo passero sepolto lassù lassù nella sua scatoletta avvolta nella carta da zucchero.
In ogni cosa c’è sempre un piccolo segreto che i ciceroni non conoscono.


di Gianni Rodari

 
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Nel segno (Pirandello)

Post n°974 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all’ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d’introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejotica.

La capo-sala la guardò male.

- Vuoi farti vedere dagli studenti?

- Sì, per favore; prendete me.

- Ma lo sai che sembri una lucertola?

- Lo so. Non me n’importa! Prendete me.

- Ma guarda un po’ che sfacciata. E che ti figuri che ti faranno là dentro?

- Come a Nannina, - rispose la Òsimo. - No?

Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall’ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico.

- E ci vuoi andare? – concluse quella. – Per me, ti servo. Ma bada che il segno non te lo levi più per molti giorni, neppure col sapone.

La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo:

- Voi portatemi, e non ve ne curate.

Le era tornato in volto un po’ di colore; ma era ancor tanto magra, tutta occhi e tutta capelli. Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti. E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte.
Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo.
Già due altre volte era stata lì, all’ospedale. La prima volta, per... - eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all’ospizio dei trovatelli.
La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo due mesi circa dopo il parto, era ritornata all’ospedale più di là che di qua con tre pasticche di sublimato in corpo. Ora c’era per l’anemia, da un mese. A forza d’iniezioni di ferro s’era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall’ospedale.
Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur così sconsolata. Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime.
Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai più altro che morire. Vittima come era, però, d’una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell’oscura minaccia. Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose.
Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto.

Invano, allora, le buone suore assistenti s’eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva diceva di sì; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s’allentava per quelle esortazioni.
Nessuna cosa più la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s’era illusa, che il vero inganno le era venuto dall’inesperienza, dall’appassionata e credula sua natura, più che dal giovine a cui s’era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo.
Ma rassegnarsi, no, non poteva.
Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei. Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni.
Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno... Sì, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: - Ma un giorno... - e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire.

Ma lei non mentiva.
Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studii, non le fosse venuto a mancare così di colpo, laggiù, in Calabria, assassinato, non per odio diretto ma durante le elezioni politiche, per mano d’un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele.
Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola per farsi bello d’un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa.
Così era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli più piccoli del
Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità.
Ma che glien’importava, allora? Lavorava con tutto il cuore, per acquistarsi la benevolenza paterna di chi la ospitava, con una speranza segreta: che quelle sue cure amorose, cioè, quei suoi servizi senz’alcun compenso, dopo il sacrificio del padre, valessero a vincere l’opposizione che forse il barone avrebbe fatta al figliuolo maggiore, Riccardo, quando questi, come già le aveva promesso, gli avrebbe dichiarato l’amore che sentiva per lei. Oh, era sicurissimo Riccardo che il padre avrebbe condisceso di buona voglia; ma aveva appena diciannove anni, era ancora Studente di liceo; non si sentiva il coraggio di far quella dichiarazione ai genitori meglio aspettare qualche anno.
Ora, aspettando... Ma lì, possibile? nella stessa casa, sempre vicini, fra tante lusinghe, dopo tante promesse, con tanti giuramenti...
La passione la aveva accecata.
Quando, alla fine, il fallo non s’era più potuto nascondere, cacciata via! Sì, prono cacciata via, poteva dire, senz’alcuna misericordia, senz’alcun riguardo neanche per il suo stato. Il Barni aveva scritto a una vecchia zia di lei perché fosse venuta subito a riprendersela e a portarsela via, laggiù in Calabria, promettendo un assegno; ma la zia aveva scongiurato il barone di aspettare almeno che la nipote si fosse prima liberata a Roma, per non affrontar lo scandalo in un piccolo paese; e il Barni aveva ceduto, ma a patto che il figliuolo non ne avesse saputo nulla e le avesse credute già fuori di Roma. Dopo il parto, però, ella non era voluta tornare in Calabria; il barone allora, su tutte le furie, aveva minacciato di togliere l’assegno; e lo aveva tolto difatti, dopo il tentato suicidio. Riccardo era partito per Firenze; lei, salvata per miracolo, s’era messa a far la giovine di sarta per mantenere sé e la zia. Era passato un anno; Riccardo era ritornato a Roma, ma ella non aveva nemmen tentato di rivederlo. Fallitole il proposito violento, s’era fitto in capo di lasciarsi morire a poco a poco. La zia, un bel giorno aveva perduto la pazienza e se n’era ritornata in Calabria. Un mese addietro durante uno svenimento in casa della sarta presso la quale lavorava, era stata condotta lì all’ospedale, e c’era rimasta per curarsi dell’anemia.

L’altro giorno, intanto, dal suo lettino Raffaella Òsimo aveva veduto passare per la corsia gli studenti di medicina che facevano il corso di semejotica, e fra questi studenti aveva riveduto, dopo circa due anni, Riccardo, con accanto una giovinetta, che doveva essere una studentessa anche lei, bionda, bella, straniera all’aspetto: e dal modo con cui la guardava... - ah, Raffaella non poteva ingannarsi! - appariva chiaramente che n’era innamorato. E come gli sorrideva lei, pendendo quasi dagli occhi di lui...
Li aveva seguiti con lo sguardo fino in fondo alla corsia; poi era rimasta con gli occhi sbarrati levata su un gomito. Nannina, la sua vicina di letto, s’era messa a ridere.

- Che hai veduto?

- Nulla...

E aveva sorriso anche lei, riabbandonandosi sul letto, perché il cuore le batteva come volesse balzarle dal seno.
Era venuta poi la capo-sala a invitare Nannina a vestirsi, perché il professore la voleva di là per la lezione agli studenti.

- E che debbono farmi? - aveva domandato Nannina.

- Ti mangeranno! Che vuoi che ti facciano? - le aveva risposto quella. Tocca a te: toccherà anche alle altre. Tanto, tu domani andrai via.

Aveva tremato, dapprima, Raffaella al pensiero che potesse toccare anche a lei. Ah, così caduta, così derelitta, come ricomparirgli davanti, lì? Per certi falli, quando la bellezza sia sparita, né compatimento, né commiserazione.
Certo i compagni di Riccardo, vedendola così misera, lo avrebbero deriso:

- Come! Con quella lucertolina t’eri messo?

Non sarebbe stata una vendetta. Né lei, del resto, voleva vendicarsi.

Quando però, dopo circa mezz’ora, Nannina era ritornata al suo lettuccio aveva spiegato che cosa le avevano fatto di là e mostrato il corpo tutto segnato, Raffaella improvvisamente aveva cangiato idea; ed ecco, fremeva d’impazienza, ora, aspettando l’arrivo degli studenti.
Giunsero, alla fine, verso le dieci. C’era Riccardo e, come l’altro giorno accanto alla studentessa straniera. Si guardavano e si sorridevano.

- Mi vesto? - domandò Raffaella alla capo-sala, balzando a sedere tutt’accesa sul letto, appena quelli entrarono nella sala in fondo alla corsia.

- Ih che prescia! giù, - le impose la capo-sala, - aspetta prima che il professore dia l’ordine.

Ma Raffaella, come se colei le avesse detto: «Vestiti!» prese a vestirsi di nascosto.
Era già bella e pronta sotto le coperte, quando la capo-sala venne a chiamarla.
Pallida come una morta, convulsa in tutto il misero corpicino, sorridente, con gli occhi sfavillanti e i capelli che le cascavano da tutte le parti, entrò nella sala.
Riccardo Barni parlava con la giovine studentessa e non s’accorse in prima di lei, che - smarrita fra tanti giovani - lo cercava con gli occhi e non sentiva il medico primario, libero docente di semejotica, che le diceva:

- Qua, qua, figliuola!

Alla voce del professore, il Barni si voltò e vide Raffaella che lo fissava avvampata ora in volto: allibì; diventò pallidissimo; gli s’intorbidò la vista.

- Insomma! - gridò il professore. - Qua!

Raffaella sentì ridere tutti gli studenti e si riscosse vie più smarrita; vide che Riccardo si ritraeva in fondo alla sala, verso la finestra; si guardò attorno: sorrise nervosamente e domandò:

- Che debbo fare?

- Qua, qua, qua, stendetevi qua! - le ordinò il professore che stava a capo d’un tavolino, su cui era stesa una specie d’imbottita.

- Eccomi, sissignore! - s’affrettò a ubbidire Raffaella; ma siccome stentava a tirarsi su a sedere sul tavolino, sorrise di nuovo e disse: - Non ci arrivo

Uno studente la ajutò a montare. Seduta, prima di stendersi, guardò il professore, ch’era un bell’uomo, alto di statura, tutto raso, con gli occhiali d’oro, e gli disse, indicando la studentessa straniera:

- Se me lo facesse disegnare da lei...

Nuovo scoppio di risa degli studenti. Sorrise anche il professore:

- Perché? Ti vergogni?

- Nossignore. Ma sarei più contenta.

E si volse a guardare verso la finestra, là in fondo, ove Riccardo s’era rincantucciato, con le spalle volte alla sala.
La bionda studentessa seguì istintivamente quello sguardo. Aveva già notato l’improvviso turbamento del Barni. Ora s’accorse ch egli s’era ritirato là, e si turbò anche lei vivamente.

Ma il professore la chiamò:

- Su, dunque, a lei, signorina Orlitz. Contentiamo la paziente.

Raffaella si stese sul tavolino e guardò la studentessa che si sollevava la veletta su la fronte. Ah, com’era bella, bianca e delicata, con gli occhi celesti dolci dolci. Ecco, si liberava della mantella, prendeva il lapis dermografico, che il professore le porgeva e si chinava su lei per scoprirle, con mani non ben sicure, il seno.
Raffaella Òsimo serrò gli occhi per vergogna di quel suo misero seno, e sposto agli sguardi di tanti giovani, là, attorno al tavolino. Sentì posarsi una mano fredda sul cuore.

- Batte troppo... - disse subito, con spiccato accento esotico, la signorina, ritraendo la mano.

- Quant’è che siete all’ospedale? - domandò il professore.

Raffaella rispose, senza schiuder gli occhi; ma con le palpebre che le fervevano, nervosamente:

- Trentadue giorni. Son quasi guarita.

- Senta se c’è soffio anemico, - riprese il professore, porgendo alla studentessa lo stetoscopio.

Raffaella sentì sul seno il freddo dello strumento; poi la voce della signorina che diceva:

- Soffio, no... Palpitazione, troppo.

- Andiamo, faccia la percussione, - ingiunse allora il professore.

Ai primi picchi, Raffaella piegò da un lato la testa, strinse i denti e si provò ad aprire gli occhi: li richiuse subito, facendo un violento sforzo su se stessa per contenersi. Di tratto in tratto come la studentessa sospendeva un po’ la percussione per segnare sotto il dito medio una breve lineetta col lapis intinto in un bicchier d’acqua che uno studente lì presso reggeva, ella soffiava penosamente per le nari il fiato trattenuto.
Quanto durò quel supplizio? Ed egli era sempre là, presso la finestra... Perché non lo richiamava il professore? perché non lo invitava a vedere il cuore di lei, che la sua bionda compagna tracciava man mano su quello squallido seno, così ridotto per lui?
Ecco, finalmente la percussione era finita. Ora la studentessa congiungeva tutte le lineette per compire il disegno. Raffaella fu tentata di guardarselo, quel suo cuore, lì disegnato; ma, improvvisamente, non poté più reggere; scoppiò in singhiozzi.
Il professore, seccato, la rimandò nella corsia, ordinando alla capo-sala d’introdurre un’altra inferma meno isterica e meno scema di quella.
La Òsimo sopportò in pace i rimbrotti della capo-sala e tornò al suo lettuccio ad aspettare, tutta tremante, che gli studenti uscissero dalla sala.
La avrebbe egli cercata con gli occhi, almeno, attraversando la corsia? Ma no, no: che importava più a lei, ormai? Non avrebbe alzato nemmeno il capo per farsi scorgere. Egli non doveva più vederla. Le bastava di avergli fatto conoscere come s’era ridotta per lui.

Prese con le mani tremanti la rimboccatura del lenzuolo e se la tirò sul volto, come se fosse morta.
Per tre giorni Raffaella Òsimo vigilò con attenta cura che il segno del cuore non le si cancellasse dal seno.
Uscita dall’ospedale, innanzi a un piccolo specchio nella sua povera cameretta, si confisse uno stiletto puntato contro la parete, là, nel bel mezzo del segno che la rivale ignara le aveva tracciato.

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Ghe pensi mi!

Post n°973 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Eccomi ancora qua,lettori miei,
Stavolta tutto è cominciato quando Carolina Capricorni si è beccata il colpo della strega ed ha dovuto stare a letto immoblie per una settimana.
Dato che la Taide era in settimana bianca col suo spasimante,tal Marcovaldo Spennacchiati di S.Giosuè,a chi ha dovuto rivolgersi la povera donna per la cura di casa e prole,se non a suo marito Berengario,meglio noto come Dio ci scampi?
Ora il nostro è un meccanico sopraffino,ma quanto a casalingo lascia decisamente a desiderare,come vi dimostra la cronaca degli avvenimenti.
LUNEDI'- Berengario ha pensato di fare un dolce.L'intento era buono,ma il risultato è stato cataclismico.
Berengario ha schiaffato nell'impasto le uova ancora nel guscio,mancando lo zucchero ha rimediato col sale (grosso) e per finire ha messo sull'ammasso informe un chilo di lievito e lo ha messo in forno a 300°.
Il forno è esploso,inondando la cucina di una poltiglia giallastra e maleodorante.
Il postino che stava per suonare alla porta è il nuovo detentore del record di salto del campanile.
per lo choc la Carolina ha perso la favella (e meno male)
MARTEDI'- Stivato lo stivabile in lavatrice,Berengario l'ha messa in moto ed è andato al bar.
Quando è tornato due ore dopo,ha trovato la casa allagata da una simil marea nera petrolifera.
Aveva sistemato male il tubo di scarico e messo i capi che stingono insieme a quelli bianchi.
La lavatrice è defunta,
Un porcellino d'India è ricoverato in condizioni gravi nella clinica veterinaria,semiaffogato
Mutande,lenzuola e quant'altro sono color arcobaleno.
La carolina è muta e perde i capelli a ciocche
MERCOLEDI'- Berengario ha schiaffato in lavastoviglie le adorate porcellane della moglie e si è messo a usare l'aspirapolvere.
Le porcellane si sono disintegrate,la lavastoviglie è kaputt.
Non sapendo usare l'aspirapolvere, ben presto Berengario si è ritrovato fra le mani un coso impazzito che scorrazzava per casa alla velocità della luce,con Lucio Cornelio estasiato a cavalcioni.
Ercolino e Anselmo,tenendo alla pellaccia,sono scappati dalla finestra e hanno chiesto asilo uno a Cuccurullo e l'altro a Geremia.
Quando alla fine l'aspirapolvere ha reso gli estremi la casa pareva essere stata invasa da 20 tornado e 18 terremoti.
Privato del giocattolo,Lucio Cornelio si è lanciato in una bizza terrificante.Ireneo,convinto che Berengario lo stesse maltrattando,è accorso e se l'è portato in canonica.
La Carolina ora è muta e sembra la figlia di Kojak.
GIOVEDI'- Per dare aria a cappotti,giacche a vento etc Berengario li ha appesi allo stenditoio del balcone,dimenticandosene.
Dieci minuti è scoppiato un forte nubifragio,che ha fatto precipitare di sotto lo stenditoio. che è piombato sulla moto nuova di zecca del Piripicchi.
La Carolina è muta,calva e coperta di bolle rosse
VENERDI'- Dato che il lavello si era intasato,il Capricorni ha versato nelle tubature un prodotto di sua invenzione,il Panzerfaust.
Le tubature dei Piripicchi sono esplose,il lavello è conficcato nel soffitto della cucina e il wc,con l'Andromaca sopra.è sprofondato in cantina,aprendo nel bagno un cratere di tre metri di diametro.
La Carolina è muta,calva,coperta di bolle e ha il singhiozzo
SABATO- Berengario voleva innaffiare le piante in terrazzo,ma ha innaffiato il terrazzo sottostante,dove si trovavano i Piripicchi.
La Carolina è muta,calva,ha le bolle,il singhiozzo e si gratta
DOMENICA- Quando la Carolina ha visto Berengario armeggiare con l'impianto elettrico ha dato fuori di matto.
Il Capricorni è vivo per miracolo
E' passata una settimana.
Guarita e ricuperati i figli,la Carolina vive dalla madre e ha chiesto la separazione.
Il porcellino d'India è salvo,ma il pelo rimarrà per sempre viola.
Il Piripicchi è ricoverato nella clinica Luminaris:si crede Landru e vuole attirare Berengario a Gambais per buttarlo (vivo) nello stufone.
Beregario pare abbia chiesto asilo a Clodoveo e agli orsi marsicani
Stretta la foglia,larga la via,dite la vostra che ho detto la mia

 
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Addii (Ritsos)

Post n°972 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Grandi stanze di vecchie case avite
di provincia
piene di fischi di navi lontane, piene
di spenti rintocchi di campane
e di battiti profondi
d'orologi antichissimi. Nessuno abita
piú qui dentro
eccetto le ombre, e un violino appeso
al muro,
e le banconote fuori corso sparse
sulle poltrone
e sul letto largo con la coperta gialla.
Di notte
scende la luna, passa davanti
agli specchi esanimi
e coi gesti piú lenti rassetta dietro
i vetri
i fischi d'addio delle navi affondate

 
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Frase del giorno

Post n°971 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

La vita movimentata ed avventurosa di Jessie White Mario,una delle donne più rappresentative del nostro Risorgimento

 
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Frase del giorno

Post n°970 pubblicato il 12 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Siediti sulla riva del fiume e vedrai passare il cadavere del tuo nemico

 
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