Messaggi del 13/10/2011

L'airone pauroso

Post n°991 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C’era in un tempo non molto lontano, un airone di un bel colore azzurro, sempre molto solo. Era così pauroso che aveva paura di spiccare il volo come facevano i suoi simili e quindi spesso rimaneva a digiuno perché non era in grado di procacciarsi la preda.
A volte qualche amico pietoso divideva il cibo con lui, ma l’airone rimaneva sempre emarginato e mesto.
Un giorno, mentre era presso la palude, vide in mezzo ad essa una stupenda stella alpina, che sopraffatta dal vento e dalle intemperie, era precipitata giù nel fango della palude.
Essa gridava: “Aiutatemi, vi prego! Lo stagno mi inghiotte!”.
Istintivamente, quasi senza rendersene conto, colpito dal candore della stella, l’airone si alzò in volo e quando fu sull’acqua paludosa, col suo lungo becco prese delicatamente il fiore e lo sollevò; dopo lo adagiò con delicatezza a terra.
La stella alpina, dapprima stordita, si accorse poi del suo salvatore e lo ringraziò dicendo:
“Grazie airone buono. A te io dovrò sempre la mia vita”.
L’airone rimase doppiamente contento: aveva salvato la vita di un altro essere vivente, grazie al suo coraggio.

Morale: “ Dalle necessità spesso scaturisce il coraggio”.

 
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Gatto Grigio

Post n°990 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta un gatto che passava le giornate davanti alla televisione e guardava solo film sulle principesse.
Alla sera, spegneva la televisione e si affacciava alla finestra per guardare il sole tramontare.
Diceva sempre:
“Anch’io un giorno voglio sposare una principessa.”
Un giorno caldo d’estate, al sorgere del sole, il gatto preparò la valigia, uscì di casa e si inoltrò nel bosco.
Si era allontanato già tanto da casa quando comparve sul suo cammino una fata bellissima.
Si fermò ed iniziò a fissarla con stupore mentre veniva verso di lui agitando appena le ali e con un sorriso sulle labbra gli disse:
“Ciao bel gatto!”
“Ciao, ma chi sei?” le chiese il gatto.
“Sono la fata dei boschi.”
“Io sono gatto Grigio.”
“Gli gnomi mentre raccoglievano le bacche ti hanno visto e si sono spaventati. Così la loro regina mi ha chiesto di fermarti.”
“Io gli gnomi nemmeno li ho visti. Ma perché si sono spaventati vedendomi?”
“Non hanno mai visto un gatto e pensavano fossi un mostro che li stesse cercando per mangiarli.”
“Allora dì agli gnomi che non sono un mostro, che loro non mi interessano e che sto cercando una principessa.”
“Le principesse vivono molto lontano da qui. Quella meno lontana, però, la puoi raggiungere con un cavallo.”
“E dove lo trovo un cavallo?” “C’è un elfo femmina qui nel bosco che tiene due cavalli: uno nero ed uno bianco. Non devi farti dare quello nero perché non conosce la strada per andare al castello.” “E come faccio a convincere quell’elfo a darmi il cavallo bianco?”
“Facendo quello che ti chiederà.”
“Dove abita e come si chiama?”
“Prosegui per questo sentiero ed arriverai ad una quercia. E’ molto vecchia, ma riesce ancora a dire ai viaggiatori dove si trova l’elfo Rosablu.”
“Grazie!”, rispose il gatto e la fata scomparve.
Il gatto Grigio proseguì e si trovò sulla riva di un torrente. In quel momento arrivò uno gnomo e gli chiese:
“E tu chi sei?”
Lo gnomo rispose:
“Sono lo gnomo del torrente.”
“Io sono il gatto Grigio e sto cercando la quercia.”
“Devi chiedere qualcosa alla quercia oppure vuoi solo riposarti ai suoi piedi?”
“Le devo chiedere dove si trova Rosablu.”
“La quercia è là in fondo. Se non saprà risponderti, allora chiedi alla cascata che si trova dalla parte opposta, quindi alle tue spalle.”
“Grazie!”, rispose il gatto e lo gnomo scomparve.
Il gatto Grigio si incamminò ed appena si trovò davanti ad essa, rimase sbalordito dalla sua grandezza.
“Grande quercia, dove posso trovare Rosablu?”
La quercia agitò i rami e chiese:
“Chi mi ha svegliata con una domanda su Rosablu?”
“Sono il gatto Grigio.”
“I gatti sono animali che ho sempre odiato. Prima che arrivassero gli gnomi, qua era pieno di elfi e tutti avevano un gatto. I loro gatti bagnavano sempre il mio tronco con la loro pipì e si arrampicavano sempre sui miei rami. Dopo qualche anno, chiesi alla fata dei boschi di fare qualcosa e la fata dei boschi trasformò tutti i gatti in cespugli. Quell’incantesimo non funzionò sul gatto di Rosablu e la fata dei boschi si arrabbiò così tanto che decise di rinchiuderli nella cascata. Gli elfi si separarono e fuggirono sulle montagne. Dopo un po’ arrivarono gli gnomi. Il gatto di Rosablu morì e Rosablu venne liberata. Adesso usa la sua ex prigione nella cascata per nascondere gli animali parlanti. Se vuoi proprio incontrare Rosablu, va alla cascata dalla parte opposta e chiamala. Ma sta attento!”
“Grazie”, rispose il gatto e la quercia si riaddormentò.
Il gatto Grigio camminò fino alla cascata e chiamò:
“Rosablu! Rosablu!”
La cascata si aprì ed uscì Rosablu.
“Wow!” , esclamò il gatto Grigio vedendo quell’elfo con un abito trasparente che permetteva di vedere tutto il suo corpo.
“Sono Rosablu, unico elfo femmina di questo bosco.”
“Sono il gatto Grigio. Ho bisogno del tuo cavallo bianco per raggiungere il castello.”
“Tu parli, quindi non puoi andare al castello.”
“Che cosa fanno agli animali che parlano?”
“Li danno in pasto alle streghe. Il cavallo bianco parla ed io sono riuscita a salvarlo prima che i servi lo consegnassero alle streghe. Rimani con me, gatto Grigio. Ci sono tanti animali parlanti nella mia casa che ti accoglieranno subito come un fratello.”
“Io voglio andare dalla principessa perché la voglio sposare. Se deciderà di darmi in pasto alle streghe, allora sarò felice di morire per amore.”
“Va in mezzo ai cespugli e raccogli dieci fiori profumati. Se il profumo sarà gradevole, allora il cavallo bianco sarà tuo. Ma ricordati che ti potrà accompagnare fino al mare. Se non troverai un’imbarcazione, dovrai chiamare le sirene. La principessa non vive più nel castello, ma in una torre su un’isola. Il re la fece rinchiudere lì dopo che rifiutò di sposare il figlio della migliore amica di sua madre.”
“Eseguo subito il tuo ordine.”
Il gatto Grigio raccolse dieci fiori e Rosablu gli disse dopo averli annusati:
“Il cavallo bianco e tuo. Addio gatto Grigio!”
Lo accomodò sulla sella ed il cavallo bianco prese subito la rincorsa verso il mare.
“Sei arrivato.”, disse il cavallo sulla spiaggia.
Il gatto Grigio scese e chiese al cavallo:
“E adesso come raggiungo l’isola in mezzo al mare?”
“Se non trovi imbarcazioni abbandonate dai pescatori, devi chiedere aiuto alle sirene. Io non posso più aiutarti e devo tornare da Rosablu, nel bosco. Addio!” Ed il cavallo se ne andò di corsa.
Il gatto Grigio si incamminò ed arrivò al molo. Ascoltò per un po’ il canto delle sirene e poi salì.
Appena le vide, chiese loro:
“Ehi, c’è una di voi disposta a fermare il proprio canto per accompagnarmi sull’isola?”
“Vattene via, gattaccio!” esclamò una.
Intervenne un’altra dicendo:
“Le nostre sorelle dopo aver accompagnato i gatti dei pescatori sull’isola, sono morte tutte. Le abbiamo ritrovate distese sulla riva prive di vita e con la coda mangiata.”
“Io odio il pesce. Lo sputo sempre quando la mia padrona me lo dà. Preferisco la carne. Anche se amassi il pesce, non vi farei alcun male. Ho una cosa importante da fare sull’isola e dato che in riva al mare non ho trovato imbarcazioni, chiedo a voi un passaggio. Il cavallo bianco di Rosablu ha potuto accompagnarmi fino alla spiaggia e poi ha dovuto andarsene.”
“Hai conosciuto l’elfo Rosablu?”, le chiese la terza sirena.
“Sì.” “Sapessi quante volte mi è toccato aiutare quell’elfo! Perché vuoi andare sull’isola?”
“Voglio chiedere alla principessa di sposarmi!”
“Rischierai di essere dato in pasto alle streghe; non te l’ha detto Rosablu?”
“Sì. Ma è un rischio che vale la pena correre perché io la amo!”
“Allora ti accompagnerò. Sorelle mie, se mi troverete priva di vita sulla riva del mare e con la coda mangiata, convincete la principessa a dare in pasto alle streghe questo gatto parlante!”
Le altre due sirene annuirono.
Il gatto Grigio saltò sulla schiena della sirena ed appena arrivarono sull’isola, il gatto senza ringraziare corse verso la torre.
La sirena si rituffò in mare dopo una breve pausa e nuotò verso il molo.
Il gatto Grigio trovò il portone aperto e cominciò a salire la scala a chiocciola.
Arrivato in cima, iniziò a miagolare.
La principessa aprì ed esclamò:
“Un gatto!”
Lo prese in braccio e gli chiese:
“Come sei arrivato qui?”
“Con l’aiuto della fata dei boschi, l’elfo Rosablu ed una sirena.”
“Ma tu parli!”
“Non so come ti chiami, ma ti amo tantissimo e per questo amore che provo per te, ho intrapreso un lunghissimo viaggio per chiederti se mi vuoi sposare. Vuoi darmi in pasto alle streghe perché parlo? Fallo pure, se vuoi. Ma prima dammi una risposta a questa mia richiesta.”
“Quando i miei genitori diedero il mio unico cavallo in pasto alle streghe perché parlava, non ho potuto fare nulla. Ora che vivo abbandonata in questa torre, posso fare ciò che voglio con i miei animali. Ho avuto tanti gatti, ma nessuno mi ha fatto compagnia come me ne farai tu; perché gli altri non parlavano. Resterai qui con me. Non ti sposerò perché sei un gatto, ma vivrai come se fossi mio marito. Io sono la principessa Lea; tu hai un nome?”
“Sono il gatto Grigio. Quel tuo cavallo che parlava, era bianco?”
“Sì.”
“Dalle streghe non ci è mai arrivato perché è stato salvato dall’elfo Rosablu. Ora vive felice nel bosco.”
“E’ una notizia bellissima. Peccato che non mi sia permesso uscire dalla torre! Con l’aiuto delle sirene potrei attraversare il mare ed a piedi andare nel bosco a salutarlo, anche se sono giorni di cammino.”
“Ma non se ne accorgerebbe nessuno se esci dalla torre, attraversi il mare a cavallo di una sirena e vai nel bosco.”
“Se ne accorgono i pescatori dei miei genitori e glielo vanno subito a dire. Mi separerebbero subito da te e mentre tu vai in pasto alle streghe, io vengo rinchiusa nella torre del drago e da lì nessuna principessa è mai uscita. Sono stati tanti i cavalieri che hanno tentato di salvarle e sono tutti morti tra le fiamme che il drago sputava appena si avvicinavano alla scala.”
“Mi dispiace tanto che non puoi rivedere anche una volta sola il tuo amato cavallo.”
“Pazienza! Mi raccomando, non abbandonarmi mai.”
“Ti prometto che starò sempre con te e non riattraverserò più il mare. Ti amo, principessa Lea.”
“Ti amo anch’io, gatto Grigio.”
E vissero felici e contenti.


FINE

 
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La guerra degli orologi

Post n°989 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Ci sono eventi dimenticati nella storia. Cose considerate di poca importanza nel tramandare i fatti ai posteri. Uno di questi episodi dimenticati nel passato, fu una guerra….ma mi spiego meglio.
Nel villaggio la vita continuava con i suoi alti e bassi. Le tribù degli orologi trascorrevano le giornate nel rispetto reciproco, così da potersi alzare la mattina e andare a letto la sera con la tranquillità nel cuore.
Le clessidre fiere delle loro antichissime origini, erano le prime ad aver scandito i momenti della vita. I pendoli, non altrettanto antichi, ma con un glorioso passato alle spalle, vantavano di aver prestato servizio presso la nobiltà e ostentavano sangue blu. Poi c’erano gli orologi subacquei, giovani e dinamici, avevano visto mondi sommersi che gli altri orologi, a parere loro, potevano solo sognare.
I campanili erano i più monumentali e come tali guardavano gli altri dalla loro altezza. Gli orologi da taschino, infine, si ritenevano i più sensibili e quindi meritevoli di decidere per tutti. Chi poteva negare che fossero quelli più vicini al cuore dell’uomo!
Insomma nel nostro villaggio certo non mancava la varietà di abitanti e di idee. Una volta all’anno, tutti i capi tribù, si radunavano per parlare dell’attività svolta e per eventuali idee nuove che ognuno avrebbe potuto esporre.
In quell’anno le cose però non andarono per il verso giusto. La riunione si aprì e venne data la parola alla clessidra: rispetto per l’anzianità!
“Le sabbie che scorrono in me sono pronipoti di sabbie che risalgono alla nascita del mondo, sono uno dei primi strumenti nato per questa funzione e penso spetti a me decidere come portarla avanti. I vostri metodi, di chiunque di voi, sono meno validi del mio!”
“Cosa devono sentire le mie lancette – tuonò il pendolo – spartano strumento, cosa vuoi avere più di me, che sono nobile e aristocratico. Da che mondo è mondo, la nobiltà ha sempre avuto più valore delle altre classi sociali e ha sempre dominato!”
“Non dimenticarti che esiste anche la rivoluzione – ribattè il campanile –e chi meglio di noi potrebbe farla. Siamo grossi e massicci, vi potremmo schiacciare se solo lo volessimo!”.
“Io dico solo largo ai giovani! – aggiunse l’orologio subacqueo – ma vi siete chiesti se dovessero buttare voi, vecchie cariatidi, giù nell’oceano cosa vi succederebbe? Siamo quindi noi gli unici in grado di scandire il passare degli istanti!”
Infine fu la volta dell’orologio da taschino, che in realtà fu zittito subito quando cercò di dire che l’uomo voleva bene soprattutto a lui e tutti gli fecero notare che dalla sua posizione, il mondo lo vedeva ben poco da dentro un taschino, per cui la sua razza era l’ultima che poteva parlare.
La riunione continuò per ore e come spesso accade, non si arrivò a niente. Gli orologi non si misero d’accordo, ognuno voleva imporre agli altri il proprio metodo nello scandire le ore e, purtroppo, si scatenò una guerra tra tribù.
Tutti si prepararono per la prima battaglia, ognuno con i propri mezzi. Il giorno dello scontro però, fu il cielo a prendere la parola. Di fronte alle armate di orologi radunati sul campo apparvero gli astri capeggiati dal sole, che parlò:
“Voi state per combattere una guerra inutile. Noi siamo gli strumenti scelti dalla natura per scandire il passare dei giorni. Voi siete tutti nati per un’unica, medesima funzione e ci dovreste rappresentare sulla terra. Sembra però che ve ne siate dimenticati. Dovreste andare tutti insieme in un’unica direzione, ognuno a modo suo, il che renderebbe il tutto anche più interessante, ma uniti……. e invece vi volete combattere. Vi siete dimenticati di ciò che è in fondo la vostra ragione di vita: e’ una cosa sola?”
Capirono e da quel momento, si cominciò nuovamente a svegliarsi e addormentarsi con la serenità nel cuore, nel villaggio chiamato Tempo.

 
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Il re superbo

Post n°988 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

In una città lontanissima e sconosciuta, viveva un tempo un giovane monarca.
Il suo palazzo era immenso come il giardino che lo circondava e possedeva tanto di quell’oro che egli stesso non sapeva stimarne il valore preciso. Si chiamava Teofasto ed era molto molto superbo; anche per questo dominava da tiranno, disprezzando il popolo a cui aveva imposto tasse gravose e persino altri sovrani che si era inimicati col suo atteggiamento.
Una notte si scatenò un temporale e il re non riusciva a dormire; tuoni, lampi e vento lo infastidivano.
Pensò dunque di uscire a fare una passeggiata nel suo giardino. Vi chiederete: una passeggiata con quel tempo? Ebbene, il re Teofasto era convinto di essere invincibile e onnipotente: qualche lampo e qualche tuono non l’avrebbero certo spaventato. Prese dunque una grande cappa, se la avvolse intorno al corpo per proteggersi dalla pioggia e uscì.
Era buio e camminando nell’oscurità, il re non si accorse che aveva superato i confini del suo giardino, per ritrovarsi in un posto che non conosceva. Intanto la pioggia continuava a scrosciare e il temporale non cessava.
Teofasto si guardò intorno smarrito. Poi vide per terra una grossa macchia lucente e si avvicinò, sembrava olio e per accertarsene ci mise dentro l’indice; ma, appena la toccò la macchia si estese e ne venne fuori una vecchina rugosa, curva e vestita di stracci, la quale disse:
“Sire, vi stavo aspettando. Avete perso la strada, vero? Seguite le mie indicazioni e la ritroverete.”
Il re la guardò minaccioso e poi scoppiò a ridere: “Io non mi farò mai indicare la strada da una miserabile stracciona. Io sono il re di questa città, sono onnipotente. Aspetterò che cessi la pioggia e all’alba sono sicuro che saprò tornarmene da solo al castello.”
La vecchia rispose: “Va bene Maestà, come volete”. E scomparve.
Intanto la pioggia stava cessando e il re pensò di sdraiarsi a dormire sotto un albero, usando come coperta la sua cappa. Si svegliò quando il sole stava per sorgere e si diresse dalla parte doveva gli sembrava che fosse venuto la sera prima.
Dopo qualche ora di cammino, arrivò ai cancelli del suo giardino, ma li trovò sbarrati e…il castello era scomparso. Impietrito per lo stupore, pensò almeno di chiamare qualche guardiano, ma il posto sembrava abbandonato da secoli.
A questo punto sentì dietro di sé la voce rauca della vecchia che lo chiamava, si girò, e quando la vide dietro di sé, disse ferocemente:
“Ma chi sei tu? Una strega? Hai fatto un incantesimo perché il castello sparisse?”.
La vecchia, senza scomporsi rispose: “Sire, io ero una donna bella e dotata di poteri magici, ma con un incantesimo malvagio fattomi da un’altra donna che aveva i miei stessi poteri ed era invidiosa della mia bellezza, fui ridotta così. Consultai allora una strega e lei mi disse che avrei potuto ritornare ad essere come prima, dando un aiuto a qualcuno che ne aveva bisogno. Ho avuto quest’occasione ieri sera, anche se voi avete rifiutato”.
Ma il re continuava ad essere altero e ostinato: “Brutta megera, io non ho bisogno di te; che cos’è mai questa fandonia dell’incantesimo? Siete brutta come la peste e per giunta bugiarda”.
Non aveva nemmeno terminato di parlar così che una nube di fumo avvolse la vecchia e sparì qualche minuto dopo, lasciando al suo posto una magnifica donna.
Il re sbigottì, ma la donna si pronunciò così: “Vi avevo detto sire, che solo aiutando qualcuno sarei tornata ad essere quella di prima. Io vi ho proposto di indicarvi la strada per tornarvene a casa, dunque ho fatto ciò che dovevo; anche se voi con la vostra alterigia non avete accettato, io comunque sono stata liberata dall’incantesimo”.
Teofasto allora, di fronte a questa dimostrazione, le credette. Poi cominciò a supplicarla di far riapparire il suo castello:
“Perdonatemi, ma se mi accontenterete, io vi darò tutto l’oro che volete”.
La donna disse: “ Sire, dovevate accettare prima il mio aiuto . Ora, se volete far riapparire il vostro castello, dovrete dare prova di umiltà e pazienza”.
Teofasto, messo alle strette, decise di dare ascolto alla donna; dopotutto sull’incantesimo aveva detto la verità; dunque chiese:
“Cosa dovrei fare?”.
La risposta fu: “Voi conoscete il re della città vicina. Andate da lui e chiedetegli delle stoffe”.
Il re sbalordito esclamò: “Perché? A cosa servirebbero? E poi io ho nelle mie sartorie i migliori tessuti che si siano mai visti; perché chiederli a lui, che per giunta è da anni il mio più acerrimo nemico?”.
La donna, mostrando un sorriso ironico, gli rispose:
“Maestà, il castello non c’è più; ricordate? Voi non possedete più nulla. E non esistono nemmeno le scuderie per usare il cavallo. Dovrete raggiungere le città a piedi”.
Il re ebbe l’impressione di vivere un brutto sogno da cui si sarebbe prima o poi svegliato; invece ciò che gli stava accadendo, purtroppo per lui, era tutto vero. Non gli rimaneva che acconsentire a ciò che la donna gli proponeva. Sapeva che la città da raggiungere era ad est e si diresse in quella direzione. Attraversò una sterpaglia, poi si trovò di fronte ad un arco piuttosto basso che appariva come un ingresso; sopra ad esso era scritto questo monito: ”Piega la testa, tu che hai alta la cresta”.
Teofasto si piegò e passò attraverso l’arco che portava in un tunnel sempre basso, per cui egli fu costretto a percorrerlo sempre con le spalle curve.
Dopo un’ora di cammino, si trovò nella città del re nemico. Si diresse verso il suo castello e si fece ricevere. Il re, il cui nome era Alceo, si meravigliò molto vedendolo, ma nascose la sua meraviglia; dunque, dopo i convenevoli, gli chiese incuriosito:
“A che debbo la tua visita, Teofasto?”.
Questi rispose: “Avrei bisogno di tessuti di ogni genere: cotone, lino, lana, seta e quant’altro”.
Alceo scoppiò a ridere: “Sei venuto per prendermi in giro, Teofasto? Sei dunque partito dalla tua città per venire fin qui a chiedermi questo? Non è per caso un tranello per nuocermi? Guarda che le mie guardie sono sempre all’erta. Se nascondi un pugnale sotto il mantello, ti conviene non usarlo, altrimenti verresti subito catturato e ucciso”.
Teofasto raccontò ciò che gli era successo.
Alceo sorrise ed esclamò: “Questa è una bugia. Vattene Teofasto! Non avrai ciò che vuoi; tu sei coperto d’oro fino alla punta dei capelli e vuoi farmi credere che non ci sono stoffe nel tuo maniero?”.
Teofasto insistette, dicendo che il suo maniero era scomparso; e allora Alceo, a cui non mancava la cattiveria, disse:
“Se vuoi ciò che chiedi, passerai sei giorni nelle mie cucine tra gli sguatteri; farai tutto ciò che fanno loro. Dopotutto ogni cosa va guadagnata”.
Teofasto non si ribellò; quasi piangendo si piegò alla volontà del rivale e per un giorno intero lavò i piatti nelle cucine del re Alceo, mentre gli altri servi lo deridevano:
“Un re che fa il servo a un altro re! Quando mai s’è visto? Dovete essere impazzito Maestà”.
Teofasto non rispondeva e piegava il capo, mentre non vedeva l’ora che quei giorni terminassero. Alla fine, ebbe finalmente da Alceo ciò che aveva chiesto.
Uscì dal castello del re nemico sotto il peso delle stoffe che portava sulle spalle e gli venne subito voglia di dormire; pensò che fosse perché non era abituato a lavorare tanto, quindi decise di deporre il carico e di stendersi sotto un albero. Ma al risveglio si trovò nella sua città, laddove aveva lasciato la donna.
Ella vedendolo, esclamò: “Bene Maestà. Ora fate il giro della vostra città e distribuite i tessuti alle famiglie più povere, perché li usino per farne lenzuoli e coperte per il loro letto e vestiti per proteggersi dal freddo e per uscire decentemente vestiti nei giorni di festa”.
Il re Teofasto ormai era pronto a tutto; umiliarsi bussando alle porte dei suoi sudditi poveri, forse era l’ultimo scoglio da superare e poi finalmente avrebbe riavuto il suo palazzo reale.
Ma, come indovinando il suo pensiero, la donna gli disse: “Sire, non prendete questo gesto come un’umiliazione, ma come un atto di carità verso chi per anni non avete considerato, perché la vostra prepotenza e presunzione vi rendevano egoista impedendovi di pensare alle difficoltà dei poveri del vostro regno”.
Teofasto allora andò in città, bussò alle porte di poveri disgraziati, vide la loro miseria e capì.
Tornato presso la sua dimora, non vi trovò più la donna, ma il castello era riapparso.
Entrò e subito chiamò i suoi ministri per prendere i provvedimenti di ridurre le tasse e di distribuire ai più poveri della città il grano dei suoi granai. E così il re Teofasto, a partire da quel giorno, si sentì anche più sereno.

Morale: Chi è troppo superbo, prima o poi è costretto a piegare il capo.

 
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La virgola

Post n°987 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Spesso sono le piccole cose a fare la differenza; quale mezzo migliore per spiegarlo se non una piccola storiella?
C'era una volta una virgola seccata dalla poca considerazione in cui tutti la tenevano.
Perfino i bambini delle elementari si facevano beffe di lei.
Che cos'è una virgola, dopo tutto? Nei giornali nessuno la usa più.
La buttano, a casaccio.
Un giorno la virgola si ribellò.
Il Presidente scrisse un breve appunto dopo un lungo colloquio con il Presidente avversario: "Pace, impossibile lanciare i missili" e lo passò frettolosamente al Generale.
In quel momento la piccola, trascurata virgola mise in atto il suo piano e si spostò.
Si spostò solo di una parola, appena un saltino.
Quello che lesse il Generale fu: "Pace impossibile, lanciare i missili".

E SCOPPIÒ LA GUERRA MONDIALE.

 
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Il pulcino cosmico

Post n°986 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

L'anno scorso a Pasqua, in casa del professor Tibolla, dall'uovo di cioccolata sapete cosa saltò fuori? Sorpresa: un pulcino cosmico, simile in tutto ai pulcini terrestri, ma con un berretto da capitano in testa e un'antenna della televisione sul berretto.
Il professore, la signora Luisa e i bambini fecero tutti insieme:
- Oh, e dopo questo oh non trovarono più parole.
Il pulcino si guardava intorno con aria malcontenta.
- Come siete indietro su questo pianeta, - osservò, - qui è appena Pasqua; da noi, su Marte Ottavo, è già mercoledì.
- Di questo mese? - domandò il professor Tibolla.
- Ci mancherebbe! Mercoledì del mese venturo. Ma con gli anni siamo avanti di venticinque.
Il pulcino cosmico fece quattro passi in su e in giù per sgranchirsi le gambe, e borbottava:
- Che seccatura! Che brutta seccatura.
- Cos'è che la preoccupa? - domandò la signora Luisa.
- Avete rotto l'uovo volante e io non potrò tornare su Marte Ottavo.
- Ma noi l'uovo l'abbiamo comprato in pasticceria.
- Voi non sapete niente. Questo uovo, in realtà, è una nave spaziale, travestita da uovo di Pasqua, e io sono il suo comandante, travestito da pulcino.
- E l'equipaggio?
- Sono io anche l'equipaggio. Ma ora sarò degradato. Mi faranno per lo meno colonnello.
- Be', colonnello è più che capitano.
- Da voi, perché avete i gradi alla rovescia. Da noi il grado più alto è cittadino semplice. Ma lasciamo perdere. La mia missione è fallita.
- Potremmo dirle che ci dispiace, ma non sappiamo di che missione si trattava.
- Ah, non lo so nemmeno io. Io dovevo soltanto aspettare in quella vetrina fin che il nostro agente segreto si fosse fatto vivo.
- Interessante, - disse il professore, - avete anche degli agenti segreti sulla Terra. E se andassimo a raccontarlo alla polizia?
- Ma sì, andate in giro a parlare di un pulcino cosmico, e vi farete ridere dietro.
- Giusto anche questo. Allora, giacché siamo tra noi, ci dica qualcosa di più su quegli agenti segreti.
- Essi sono incaricati di individuare i terrestri che sbarcheranno su Marte Ottavo tra venticinque anni.
- E' piuttosto buffo. Noi, per adesso, non sappiamo nemmeno dove si trovi Marte Ottavo.
- Lei dimentica, caro professore, che. lassù siamo avanti col tempo di venticinque anni. Per esempio sappiamo già che il capitano dell'astronave terrestre che giungerà su Marte Ottavo si chiamerà Gino.
- Toh, - disse il figlio maggiore del professor Tibolla, - proprio come me.
- Pura coincidenza, - sentenziò il cosmopulcino. - Si chiamerà Gino e avrà trentatre anni. Dunque, in questo momento, sulla Terra, ha esattamente otto anni.
- Guarda guarda, - disse Gino, - proprio la mia età.
- Non mi interrompere continuamente, - esclamò con severità il comandante dell'uovo spaziale. - Come stavo spiegandovi, noi dobbiamo trovare questo Gino e gli altri membri dell'equipaggio futuro, per sorvegliarli, senza che se ne accorgano, e per educarli come si deve.
- Cosa, cosa? - fece il professore. - Forse noi non li educhiamo bene i nostri bambini?
- Mica tanto. Primo, non li abituate all'idea che dovranno viaggiare tra le stelle; secondo, non insegnate loro che sono cittadini dell'universo; terzo, non insegnate loro che la parola nemico, fuori della Terra, non esiste; quarto...
- Scusi comandante, - lo interruppe la signora Luisa, - come si chiama di cognome quel vostro Gino?
- Prego, vostro, non nostro. Si chiama Tibolla. Gino Tibolla.
- Ma sono io! - saltò su il figlio del professore. Urrà,
- Urrà che cosa? - esclamò la signora Luisa. - Non crederai che tuo padre e io ti permetteremo...
- Ma il pulcino cosmico era già volato in braccio a Gino.
- Urrà! Missione compiuta! Tra venticinque anni potrò tornare a casa anch'io.
- E l'uovo? -domandò con un sospiro la sorellina di Gino.
- Ma lo mangiamo subito, naturalmente.
E così fu fatto.

 
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Le dodici lettere (Pirandello)

Post n°985 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Appena richiusa la porta, dopo un ultimo inchino e un sorriso affettato alla bionda e grassa e pur tanto afflitta signora Baldinotti, Adele Montagnani trasse un sospiro di sollievo, e rientro in salotto a guardar l’orologio su la mensola. Lesta lesta, come se qualcuno potesse spiarla, si rassettò un po’ i capelli, avanti e dietro, e la fioritura dei bianchi merletti, di cui era guarnita la veste intorno alla gola.
Tra pochi minuti il Rossani sarebbe arrivato.
In attesa di questa visita, Adele non aveva chiuso occhio la scorsa notte, e tutta la mattina era stata in preda a vivissima agitazione, cresciuta nell’ultima ora e divenuta angosciosa all’annunzio dell’importuna visita della Baldinotti.
Per fortuna costei era andata via in tempo. Fortuna davvero, perché la povera signora (fra l’altro un po’ sorda) era famosa per la lunghezza delle sue visite, e non era affatto capace d’intendere se e quanto, in certi momenti, riuscisse altrui d’impaccio.
Ora Adele, liberata da questo pericolo, poté ridere al solito delle dolorose e pur così buffe confidenze della buona signora. La quale, spinta da brevi acconce domande o da qualche esclamazione di compianto o di sorpresa, svelava segreti e particolari così intimi della vita coniugale, che era proprio uno spasso a sentire. Adele ogni volta pigliava a godersela, quanto più poteva e sapeva, per trarre poi dalle confidenze di questa infelice piccante materia per la conversazione con le amiche.

«Dio me lo perdoni!», fece tra sé, terminando di ridere; ma subito un nuovo scoppio di risa le sopravvenne.

La signora Baldinotti si lusingava d’impedire i molteplici e sfacciati tradimenti del marito (che aveva otto anni meno di lei), parandosi e acconciandosi con straordinario lusso non più conveniente né all’età né al suo corpo, e di gusto assai dubbio. E confessava - Le pare, signora mia, che vestirei così e spenderei tanto per me, se non avessi il marito giovine? E non per tanto, che crede? rimango vestita e pettinata così ad aspettarlo, signora mia, fino a mezzanotte, alle due, alle tre, fino all’alba, fino all’alba tante volte!.. - E, così dicendo, la povera signora aveva le labbra e il mento convulsi e gli occhi pieni di lagrime. L’orologio su la mensola sonò le quattro.
Adele scacciò dal pensiero la comica figura della Baldinotti, e si preoccupò di nuovo dell’imminente visita del Rossani.
L’incarico che ella si era assunto cominciava a parerle difficilissimo. Ma era il ricambio di un servigio resole da una amica, che lo stesso incarico si era assunto per lei e felicemente l’aveva disimpegnato.

- Vedrai, il forte è mettercisi. Io ho usato la mia arte; tu non mancherai di usar la tua che è molto più fina della mia, - le aveva detto il giorno avanti Giulia Garzìa, licenziandosi.

L’ultima frase aveva molto solleticato l’amor proprio di Adele, che tanto studio e tanto impegno aveva messo per procacciarsi in società la reputazione di signora di spirito.
Si trattava di ottener dal Rossani la restituzione delle dodici lettere che Giulia Garzìa gli aveva scritte nei due anni della loro relazione così detta amorosa, troncata da circa tre mesi, dopo una lunga serie di scene disgustose per entrambi. Lo stesso servizio Giulia aveva reso a lei, ottenendo cioè la restituzione delle lettere molto più numerose, che ella in un tempo molto più breve aveva scritte a Tullio Vidoni, allontanatosi poco tempo addietro da lei con la perfida scusa che non gli reggeva più il cuore d’ingannare un intimo amico, quasi un fratello: Guido Montagnani.
Le due rotture erano avvenute quasi contemporaneamente, e le due amiche si erano a vicenda confortate e a vicenda or s’ajutavano.
Alle quattro e dieci minuti Tito Rossani entrava nel salotto di Adele, rassegnato a subir le mille punzecchiature della presuntuosa arguzia di lei, proprio come se dovesse entrare in un alveare, e quel dar del voi alla francese, che la Montagnani usava con tutti gli amici, indistintamente, giojellando anche di motti francesi la sua ciancia, come se i motti italiani corrispettivi fossero gemme false o volgari.

- Oh, eccovi, finalmente!

Il Rossani s’inchinò e, porgendo la mano, rispose all’esclamazione:

- Puntualissimo!

- Non in grado superlativo, per dir la verità. Ma basta... sedete... qua qua, accanto a me... Avete paura?

- Un coraggio da San Sebastiano, signora. Eccomi accanto a lei, pronto a ricevermi quante frecciate le piacerà di regalarmi.

E, sedendo, con un sorriso rassegato sotto i folti baffi tirati in su, cercò di scorgere la propria immagine nello specchio della mensola.

- San Sebastiano, badate, era bellissimo, almeno secondo i pittori.

- Lo so. E lei mi consideri come San Sebastiano dal collo in giù.

- Eh no, via... anche la testa. Comincio bene? Sentite, Rossani: vorrei farvi la corte. È permesso? Purché voi, però, non vi accapigliate con mio marito...

- Ah, già... accapigliarmi... benissimo - notò Tito, ridendo e passandosi una mano sul capo precocemente calvo, come quello di Guido Montagnani. E aggiunse: - Sarà alquanto difficile. ..

- No, no; sul serio: la corte, quantunque sappia che vi sono estremamente antipatica. Badate, non me l’ha detto nessuno: me ne sono accorta modestamente da me.

- Poca perspicacia, signora mia. Fra tante belle doti, ecco una facoltà che le manca...

- Come siete gentile... Sarà! Ma, se mai, non ve ne farei un torto: antipatie, simpatie... si sentono, non si discutono. Ammettiamo che non sia vero; dovete allora confessar che vi faccio paura... Eh sì, via! Se, per venire, avete bisogno d’un biglietto d’invito... Ma non pregiudichiamo la questione. So, so perché non siete più venuto. Avete fatto malissimo, permettete che ve lo dica. Non m’interrompete! La vostra assenza è stata molto notata, e a scapito... Rossani, mi dispiace di annunziarvelo, a scapito della vostra fama d’uomo di spirito.

- Ah, - fece Tito. - Godo anch’io codesta fama? Non lo sapevo. È usurpata, signora mia! Ne vuole una prova? Le domando senz’altro, perché m’ha fatto l’onore di scrivermi il biglietto che ho ricevuto stamani, e in che debbo servirla.

Adele rimase un po’ sconcertata dal tono serio della stringente risposta. Si provò tuttavia a sfuggire ancora, per preparar meglio l’assalto.

- Non volete credere, dunque, che voglio farvi la corte?

- Sì? Badi, signora Adele, la prendo in parola! E comincio col chiederle...

- Eterno amore?

- No! Dio ne scampi! Sarebbe un’offesa alla natura...

- E allora, scusate, perché... Entro in confidenza, vedete? Tanto, siamo in flirtation, n’est ce pas?... Ma non crediate che sia gelosa anch’io. Dicevo, perché... Non so dirvelo... Ecco: perché mostrate così duro e ostinato risentimento, per non dir peggio, contro una persona di nostra conoscenza, se considerate davvero come offesa alla natura l’eternità di un amore?

- Non capisco...

- Eh via! Anche duro di mente? Non mi costringete a farne il nome. Sapete bene che è la più intima delle mie amiche, posso dire una sorella per me...

- Ah, sì? Ancora? - fece il Rossani, affettando con evidente malizia ingenua sorpresa.

- Come, ancora? - domandò stizzita Adele. - Ah, noi donne, fra noi, mio caro, non siamo poi mica incostanti, come forse.. .

- Non credo! Non credo! - insorse Tito, vivacissimamente. - Non continui... non credo! Del resto, se è così, me ne duole per lei. Io, per me, non sono solito, le assicuro, di covar rancore contro alcuno; tanto meno poi...

- No, via, Rossani, siate sincero! - interruppe a sua volta la Montagnani. - Vedete, io vi parlo col cuore in mano; voi invece, con in mano un’arma per difendervi da me. Siate sincero! E perché dunque...

- Che cosa? Mi permetto di farle notare, ch’io mi stimo fortunatissimo, cara amica, d’essermi sciolto d’una catena che da parecchio tempo Dio sa quanto mi pesava. Rancore, dunque, perché? Tutt’al più, se mai, contro me stesso, se fosse possibile... Sono stato inverosimilmente sciocco... Vuol ridere? Sa perché ho trascinato così a lungo la catena? Perché ho avuto paura per la salute e anche... sì, e anche per la vita della sua intima amica! Pare impossibile, è vero? Ma sappia per mia scusa... già lo sa: quella signora mi affliggeva senza tregua con scene di gelosia addirittura feroci, inverosimili...

- Ne aveva ragione, mi sembra!

- Ah, non me ne pento davvero!

- Ecco, ecco come siete voi uomini! - scattò su, vittoriosa, Adele Montagnani. - Ah, mio divino Bourget! Aspettate, Rossani, aspettate!

Balzò in piedi, si recò nell’attiguo studiolo, agitando i gomiti come se volesse volare; tolse da un elegante scaffalino inglese la Physiologie de l’Amour moderne, e rientrò di corsa nel salotto, sfogliando in fretta il libro.

- Dov’è? dov’è? dov’è? Ah, eccolo! È segnato. Par amour propre simple. Ecco, leggete; basta il solo aforisma: questo in corsivo.

Tito Rossani s’era alzato per guardarsi e sorridersi allo specchio tentatore su la mensola; tolse in mano il libro e lesse soltanto con gli occhi; poi scosse leggermente il capo, e disse adagio:

- Non è il caso mio.

- Come no? Ce que certains hommes pardonnent le moins à une femme, c’est qu’elle se console d’avoir étée trahie par eux.

- Non è il caso mio, - ripeté, sedendo di nuovo, il Rossani. - Se veramente c’è qualcuno, a cui io non possa perdonare, eccolo: son io, signora Adele. E se la sua intima amica s’è così presto consolata de’ miei tradimenti, tanto meglio o tanto peggio per lei. Ah, dunque sa anche lei che la sua amica s’è consolata? In tal caso più che mai debbo ammirare il suo spirito veramente raro.

- Suo, di chi?

- Dico il suo, signora Adele.

- Grazie, ma non comprendo. Io dico, scusate, e perché non volete allora restituire le lettere che ella vi ha scritte?

- Ah! - esclamò il Rossani. - Sa anche lei di queste lettere? Perbacco! bisogna proprio convenire che la sua intima amica è andata sbandendo da per tutto il regalo fattomi di questa dozzina di profumati, elegantissimi cartoncini! Che voglia farne un’edizioncina preziosa, fuori commercio, per il pubblico galante: Breve saggio di corrispondenza amorosa d’una signora della buona società? In questo caso me ne farei editore io, a costo di defraudare la collezioncina privata dei manoscritti, che vo raccogliendo per passatempo della mia vecchiaja.

- Ah Rossani! siete un mostro! Parlar così... Chi altri ha potuto farvi cenno delle lettere di Giulia?

- Lei non l’indovina certo, signora Adele - disse il Rossani componendo il volto a serietà e impallidendo, ma pur con le labbra tremanti d’un risolino nervoso. - Lei non può sospettarlo. Altrimenti, non mi avrebbe tenuto questo discorso. Ha indovinato?

Adele si cangiò in volto e corrugò le ciglia, come se la vista le si fosse d’un tratto intorbidata. Bisbigliò un nome:

- Tullio Vidoni?

Il Rossani chinò il capo in risposta, mostrando negli occhi quasi il sogghigno delle labbra non mosse.

Egli solo, il Vidoni, infatti, poteva essere a conoscenza di quelle lettere: il Vidoni, a cui Adele ne aveva parlato senza neanche raccomandargliene il segreto, tanto in lui allora si affidava e rimetteva tutta quanta... Ah, intendeva ora perché a Giulia era riuscito così facile ottener da colui la restituzione delle sue lettere! Egli dunque si era affrettato a rimettere alla nuova amante le lettere dell’antica: e chi sa, chi sa quanto avevano riso insieme di quelle sue espressioni d’amore e di dolore!
Adele si torse in grembo le mani, fin quasi a spezzarsi le dita; sorridendo tuttavia, pallidissima, coi denti stretti, al Rossani.

- Una scena comicissima, - riprese questi, un po’ esitante. - Se vuole, gliela racconto in due parole...

- Sì, sì, ditemi, ditemi, - s’affrettò a istigarlo Adele dimostrando, con la voce e con l’ansia, l’interna agitazione e il fremito d’odio e di sdegno.

- Ieri, sul pomeriggio, ero per il Corso, col Vidoni... Non sospettavo ch’egli fosse già mio... diciamo così, successore. Tutti e due vediamo, ma facciamo le viste di non accorgerci della signora in discorso, la quale passava in vettura, innanzi a noi. Notai, è vero, un certo impaccio nel mio amico e come un improvviso impallidire; ma non sospettavo, ripeto, di doverlo compiangere, sapendo come egli fosse a cognizione non solo della mia breve favola d’amore già compita, ma di ben altre favole (chiamiamole così) della signora, in Milano, prima che il marito di lei venisse a Roma, senatore, poveretto... Basta. «Ah, è tornata!» feci io, quasi tra me, sperando, dico la verità, che il Vidoni me ne desse qualche notizia. Sapevo che tornava anche lui da Milano, dove certamente aveva dovuto vederla.

- Avanti, avanti... Dunque? - interruppe Adele, a cui la manierata lungaggine del Rossani riusciva ormai insoffribile.

- Ah, lei forse, scusi, aveva notato prima di me qualche accenno di passione in questo signore per la Garzìa?

- Io? No... cioè, voi conoscete quanto me Tullio Vidoni... l’uomo più ridicolo che passeggi su la faccia della terra... Sapete che è affetto di dongiovannite acuta, e che fa il galante con tutte le signore... Chi può prenderlo sul serio?

- Nessuno, lo so! Ma lui sì, eh perbacco! lui sì l’ha presa sul serio, la cotta... almeno a giudicare da quel che m’ha fatto.

- Dite che v’ha parlato delle lettere?

- Stia a sentire. Dopo le mie parole: «Ah è tornata!», egli mi dice che la Garzìa era in Roma da tre giorni, e che aveva fatto il viaggio in compagnia di lui. Poi mi spinge a parlarne. Io, senza sospetto per lui, ma con più d’un sospetto per altri, confesso d’aver avuto la debolezza di parlare, e non troppo benevolmente, com’ella può immaginare; ma non in virtù di quell’aforisma del suo divino Bourget. Parlando, comincio però a notare che il volto dell’amico man mano s’infosca... «Ma tu soffri, mio caro!», gli dico allora, per ischerzo. A questo punto egli scatta, e in termini abbastanza vivaci, osa rimproverarmi di ciò che ho detto e del modo con cui ho parlato. Io resto goffo, a guardarlo: non credevo ancora ch’egli dicesse sul serio. Allora lui mi ripete il rimprovero in termini più vivaci; io, seccato, rispondo, e trascendiamo così a un diverbio violentissimo, quantunque a bassa voce. Basta: gli ho detto sul muso il fatto mio e l’ho piantato lì, in mezzo alla strada...
Adele, agitatissima, si nascose il volto tra le mani, gemendo: - Dio! Dio! - Poi guardò il Rossani, stravolta e con gli occhi lampeggianti d’odio; gli domandò:

- E ora? Ditemi la verità, Rossani: siete esposto a un pericolo? Sapete che Tullio Vidoni...

- Nessun pericolo, signora Adele! Del resto, non ho mai fatto dipendere la convenienza d’accordare o no una riparazione per le armi dal modo con cui il mio avversario tira in una sala o in una accademia di scherma.

- Oh Dio, no, Rossani! Egli tira benissimo, e vedete: il vigliacco se ne approfitta! - gridò Adele. - No, no! Sentite: se voi... se voi poteste dargli una lezione, ebbene, con tutto il cuore vi direi: dategliela, e sia buona!

- Speriamo! - esclamò il Rossani.

- Ma no! vedete, - riprese Adele, - io temo per voi... E allora figuratevi la sua boria, di ritorno, incolume e vincitore, alla sua bella! No... no...

- Ma ormai... - fece il Rossani, stringendosi ne le spalle.

- Che dite? Dunque è stabilito? Vi batterete? Ah Rossani, no! Per una indegna? Sì, sì, lasciatemelo dire... È venuta qui, da me, l’altro jeri... qui, e ha potuto baciarmi, capite? con quel sorriso stereotipato su le labbra dipinte... Serpe! Oh Dio... M’ha potuto chiedere, capite, che io m’intromettessi per ottener da voi la restituzione delle sue lettere, mentre lei... È mostruoso, Rossani, non vi sembra? Mostruoso! E voi dovreste pagarne la pena? No, no, per carità! Sentite... sentite... fatelo per me...

Adele circondò quasi con un braccio il collo del Rossani e quasi gli piegò sul petto la faccia, supplicando.
Tito, non sapendo come schermirsi, cercò d’arrestare almeno il flusso delle supplici parole:

- Se mi batto, mi batto per me, esclusivamente per me, creda, signora! E ne ho qui in tasca la prova più lampante: nelle lettere di lei!

- Ah, - gridò Adele. - Le avete ora voi? Datemele!

E allungò subito, con irrefrenabile impulso d’odiosa gioja, una mano verso la tasca interna della giacca di lui.
Tito Rossani sorse in piedi, severamente.

- Ah no, signora Adele! Se non m’importa più nulla di colei, è sempre interesse mio, e ora più che mai, d’agire da gentiluomo. Non a lei, non a lei, scusi: restituirò le lettere per altro mezzo. .

A queste parole Adele, tutta vibrante, scoppiò in una fragorosa risata, che prolungò con evidente sforzo, abbandonandosi su la spalliera della poltrona. Tito stette a guardarla, sconcertato. - Bravissimo! Bravissimo! - esclamò ella ancor tra le risa; e levandosi da sedere: - Qua la mano, qua la mano, Rossani! Non avete capito? Ma io volevo proprio questo! Adesso, badate: ho la vostra parola d’onore: voi restituirete le lettere... Bravo, Rossani: grazie. Siete un vero e compito gentiluomo.
Tito Rossani andò via goffo, interdetto, quasi stordito da una sorda stizza. Ah sciocco! sciocco! La Montagnani si era fatto giuoco di lui, dunque? Lo aveva beffato, rappresentando la commedia della gelosia?

«Che commediante!»

Ah, ma egli, allora, si sarebbe vendicato! non avrebbe più restituito le lettere, a nessun patto!
Ben povera soddisfazione, questa, per Adele, che avrebbe voluto aver tra le mani lei, quelle lettere, e poi...

- Che imbecille! fece piano, con vivacissimo gesto di dispetto per il Rossani, che già voltava le spalle al salotto.

Piegò il volto su la poltrona e ruppe in singhiozzi, addentando il bracciuolo per non farsi sentire.

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Si cerca un uomo (Don Primo Mazzolari)

Post n°984 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Si cerca un uomo
capace di rinascere nello spirito ogni giorno.
Si cerca un uomo
senza la paura del domani
senza paura dell'oggi
senza complessi del passato.
Si cerca un uomo
Che non abbia paura di cambiare
che non cambi per cambiare
che non parli per parlare.
Si cerca un uomo
Capace di vivere insieme agli altri
di lavorare insieme
di ridere insieme
di amare insieme
di sognare insieme.
Si cerca un uomo
capace di perdere senza sentirsi distrutto
di mettere in dubbio senza perdere la fede
di portare la pace dove c'è inquietudine
e inquietudine dove c'è pace.
Si cerca un uomo
che sappia usare le mani
per indicare la strada da seguire.
Si cerca un uomo
senza molti mezzi
ma con tanta voglia di fare
che nella crisi non cerchi un altro lavoro
ma come meglio lavorare.
Si cerca un uomo
che ami la sua libertà
nel vivere e nel servire
non nel fare quello che vuole.
Si cerca un uomo
che abbia nostalgia di Dio,
della gente, della povertà, dell'obbedienza.
Si cerca un uomo
che non confonda la preghiera
con le parole dette per abitudine
la spiritualità col sentimentalismo,
la chiamata con l'interesse
il servizio con la sistemazione.
Si cerca un uomo
capace di morire per una bandiera,
di soffrire per un ideale
capace di parlare con la sua vita.

 
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Libri dimenticati:Il viaggiatore alato (Augias)

Post n°983 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Bellissima biografia di Modigliani,da leggere d'un fiato

 
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Frase del giorno

Post n°982 pubblicato il 13 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Ciò che non si comprende nemmeno si possiede (Goethe)

 
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