Messaggi del 17/10/2011

Una viola al polo

Post n°1006 pubblicato il 17 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Una mattina, al Polo Nord, l'orso bianco fiutò nell'aria un odore insolito e lo fece notare all'orsa maggiore (la minore era sua figlia):
- Che sia arrivata qualche spedizione?
Furono invece gli orsacchiotti a trovare la viola. Era una piccola violetta mammola e tremava di freddo, ma continuava coraggiosamente a profumare l'aria, perché quello era il suo dovere.
- Mamma, papà, - gridarono gli orsacchiotti.
- Io l'avevo detto subito che c'era qualcosa di strano, - fece osservare per prima cosa l'orso bianco alla famiglia. - E secondo me non è un pesce.
- No di sicuro, - disse l'orsa maggiore, - ma non è nemmeno un uccello.
- Hai ragione anche tu, - disse l'orso, dopo averci pensato su un bel pezzo.
Prima di sera si sparse per tutto il Polo la notizia: un piccolo, strano essere profumato, di colore violetto, era apparso nel deserto di ghiaccio, si reggeva su una sola zampa e non si muoveva. A vedere la viola vennero foche e trichechi, vennero dalla Siberia le renne, dall'America i buoi muschiati, e più di lontano ancora volpi bianche, lupi e gazze marine. Tutti ammiravano il fiore sconosciuto, il suo stelo tremante, tutti aspiravano il suo profumo, ma ne restava sempre abbastanza per quelli che arrivavano ultimi ad annusare, ne restava sempre come prima.
- Per mandare tanto profumo, - disse una foca, - deve avere una riserva sotto il ghiaccio.
- Io l'avevo detto subito, - esclamò l'orso bianco, - che c'era sotto qualcosa.
Non aveva detto proprio così, ma nessuno se ne ricordava.
Un gabbiano, spedito al Sud per raccogliere informazioni, tornò con la notizia che il piccolo essere profumato si chiamava viola e che in certi paesi, laggiù, ce n'erano milioni.
- Ne sappiamo quanto prima, - osservò la foca. - Com'è che proprio questa viola è arrivata proprio qui? Vi dirò tutto il mio pensiero: mi sento alquanto perplessa.
- Come ha detto che si sente? - domandò l'orso bianco a sua moglie.
- Perplessa. Cioè, non sa che pesci pigliare.
- Ecco, - esclamò l'orso bianco, - proprio quello che penso anch'io.
Quella notte corse per tutto il Polo un pauroso scricchiolio. I ghiacci eterni tremavano come vetri e in più punti si spaccarono. La violetta mandò un profumo più intenso, come se avesse deciso di sciogliere in una sola volta l'immenso deserto gelato, per trasformarlo in un mare azzurro e caldo, o in un prato di velluto verde. Lo sforzo la esaurì. All'alba fu vista appassire, piegarsi sullo stelo, perdere il colore e la vita.
Tradotto nelle nostre parole e nella nostra lingua il suo ultimo pensiero dev'essere stato pressapoco questo:
- Ecco, io muoio... Ma bisognava pure che qualcuno cominciasse... Un giorno le viole giungeranno qui a milioni. I ghiacci si scioglieranno, e qui ci saranno isole, case e bambini.



 
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La città dei sogni intrappolati

Post n°1005 pubblicato il 17 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

In un lontano passato, in una terra di cui ormai nessuno si ricorda il nome, gli uomini, ogni volta che facevano i sogni, di notte o a occhi aperti, li trasformavano in uccelli coloratissimi che poi tenevano in casa con loro, per illuminare la propria vita.
Ce n’erano di tutti i colori e forme e ogni volta che li guardavi il tuo animo si riempiva di felicita’.
Succedeva pero’ che dopo poco tempo gli uccelli tendevano a volare via, magari a breve tornavano oppure a volte non tornavano più.
Gli uomini di quel paese allora cominciarono a chiuderli in gabbie, attraverso le quali avrebbero potuto continuare ad ammirarli ma in modo esclusivo e continuo.
Tempo dopo, nel paese vicino, altri uomini e donne cominciarono a non sognare più. Si addormentavano e facevano sonni bui e vuoti. Anche la loro immaginazione stava morendo, la fantasia andava perdendo tutti i suoi colori. Le persone cominciarono ad ammalarsi e i dottori non riuscivano a capire che malattia fosse. Avevano fatto tutte le analisi possibili ed erano ancora al punto di partenza solo con una certezza in più: quelle persone non potevano continuare a vivere così.
Nel ”paese dei sogni intrappolati”, intanto, quei bellissimi uccelli colorati all’interno delle gabbie cominciarono a diventare tristi, con la tristezza cominciarono a sbiadire i colori e guardandoli non provavi più quel senso di felicita’.
Una notte, un bambino, di nascosto dai suoi genitori, si avvicino’ a una delle gabbie e libero’ il bellissimo uccello colorato che questa intrappolava .
Appena fu libero, l’uccello si diresse verso il cielo, riprendendo graduatamente i suoi colori e i suoi contorni cominciarono a sfumare mentre saliva sempre più in alto nel cielo, fino a che non si vide che una massa informe, ma dai colori stupendi.
Allora quel bambino la osservo’ e pianse lacrime di gioia, poiché stava sognando.
Contemporaneamente, anche nel ”paese dei sonni bui”, un altro bambino che dormiva nelle braccia di Morfeo, vide quei colori e sorrise nel buio ormai colorato.

 

 
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La lucciola generosa

Post n°1004 pubblicato il 17 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Questa storia, narra di un tesoro nascosto in cima alla montagna dei Cento Denari, ma, nessuno sapeva esattamente cosa fosse.
Il tesoro si trovava esattamente nella radura in cima a questa montagna, dove si ergeva una grande pietra, lunga e affusolata, che sembrava puntare il dito verso il cielo.
La storia narra che, per poter trovare il tesoro bisognava scalare la montagna di notte ed evitare le trappole tese dal Motemagno, un essere dalla forza spaventosa in grado di sputare fuoco dalla bocca, colate di lava dagli occhi e fumo dalle orecchie, che abitava nella radura in cima alla montagna.
Nella montagna la curiosità di sapere cosa fosse il tesoro e di trovarlo era fortissima e, tutti alla fine ci facevano un pensierino, i più accaniti erano: il Topo Campagnolo e lo scarabeo rinoceronte, il Trio col Pungiglione, il Trio Succhiasangue ma, il vero problema era come riuscire a scalare la montagna di notte, al buio, avendo quel poco di luce per vederci e nello stesso tempo non farsi vedere dal Motemagno.
I più spavaldi era senza dubbio il Topo Campagnolo e lo Scarabeo Rinoceronte, due compari arroganti e presuntuosi sempre pronti a tutto.
-So’ io chi mi può aiutare- disse il Topo Campagnolo, -Durante le mie scorribande notturne ho incontrato spesso una Lucciola, che fa quel tanto di luce che mi ci vuole e tra l’altro conosce benissimo questa montagna. Stanotte la incontrerò sicuramente e le chiederò di aiutarmi.
Le notti, nella montagna erano sempre uguali, apparentemente sempre uguali, tranne quando spuntava la Luna Mannaggia che la illuminava di un chiarore strano, in quelle notti poteva succedere davvero di tutto, il Motemagno riusciva a vedere esattamente chi si muoveva nella montagna.
Per fortuna questa notte, era la solita notte e il Topo Campagnolo, insieme al suo degno compare, si misero alla ricerca della Lucciola, non fu certo difficile trovarla ed infatti, la piccola luce che emanava si vedeva benissimo al buio.
Il Topo Campagnolo subito le disse:
- Salve Lucciola, tu che conosci benissimo questa montagna, ci faresti un po’ di luce per arrivare in cima alla montagna per cercare il tesoro evitando il Motemagno, se troveremo il tesoro ti daremo una bella ricompensa.
La Lucciola, era un tipo generoso e gli rispose così:
- Io sono una semplice lucciola, nata per fare un po’ di luce di notte in questa montagna, quando manca la luna Mannaggia, ti aiuterò senz’altro, questo è il mio compito e non ho bisogno di ricompense.
E così incominciarono a salire verso la radura in cima alla montagna. La Lucciola illuminava la strada, mentre i due compari la seguivano da dietro.
Tutto sembrava andare per il meglio ma, arrivati vicino alla radura il Motemagno era in agguato e subito vedendo il topo, lo scarabeo e la Lucciola avvicinarsi incominciò a scagliare una vera e propria pioggia di sassi.
La Lucciola che stava sempre vigile, sentito i rumori dei primi sassi, disse ai due compari:
- Presto riparatevi sotto terra come fate di solito, io rimango dietro questo grande albero.
Dopo avere sfogato tutta la sua forza tirando i sassi il Motemagno stanco morto cadde a terra sfinito e….. adesso ci voleva una notte intera per riprendersi.
In quel momento la Lucciola disse al Topo e allo scarabeo:
- Presto, presto è il momento di continuare, il Motemagno non si riprenderà prima di domani.
Ed, infatti, continuarono a salire indisturbati e, presto si trovarono nella radura in cima alla montagna dove in mezzo c’era questa bellissima pietra affusolata lunghissima e sottile.
-Sarò io a trovare il tesoro, disse il Topo, sarò il più ricco del mondo!
- No sarò io a trovarlo disse lo scarabeo rinoceronte, diventerò il re di questa montagna.
E cerca e cerca, e scava e scava, e scava e scava, e cerca e cerca, ma del tesoro non c’era nessuna traccia.
Dopo una notte intera di scavare e cercare, il Topo e lo scarabeo, stanchi e avviliti dissero:
- Non esiste nessun tesoro in questa montagna! e, presi dalla rabbia lasciarono lì la Lucciola e scapparono via, ma nel frattempo il Motemagno si era ripreso è…… allungata la sua lingua di fuoco li fece arrosto entrambi.
Saputo dell’insuccesso del Topo e dello scarabeo rinoceronte, il trio formato dall’Ape, dalla Vespa e dal Calabrone volle provar a cercare il tesoro, in tre pensavano, sarà molto facile trovarlo.
Incontrata la Lucciola le dissero:
-Buona sera, Lucciola Generosa, tu che conosci bene questa montagna, ci faresti un po’ di luce per arrivare in cima alla montagna ed evitare il Motemagno, sarai adeguatamente ricompensata.
La Lucciola rispose:
-Oggi è il mio giorno di riposo e mi serve per ricaricarmi e tra l’altro questa notte la montagna sarà illuminata dalla luna mannaggia ed è molto pericoloso salire.
Ma il Trio col Pungiglione insistette molto, si sentivano molto forti e tra l’altro erano anche armati. La Lucciola pur sapendo che si poteva esaurire dalla stanchezza e perdere completamente la sua luce disse:
-Io sono una semplice lucciola, il mio compito e di illuminare la montagna quando manca la Luna Mannaggia ma, non appena la luna spunterà dovete continuare da soli.
Il Trio col Pungiglione accettarono con entusiasmo, si sentivano forti e pensavano, in tre troveremo sicuramente il tesoro.
La Lucciola incominciò a salire ed illuminare la strada ma, la sua luce non era sempre accesa ogni tanto si spegneva, la stanchezza era in agguato, questo doveva essere il suo giorno di riposo!
I tre compari volavano intorno alla Lucciola e incrociando il loro pungiglione dicevano:
-Tutti per uno, uno per tutti! sembravano i Tre Moschettieri.
Erano a buon punto ma, ecco che la luna Mannaggia incominciò a fare capolino dalla montagna. La Lucciola allora disse:
- Non posso proprio andare avanti, sta arrivando la luna Mannaggia dovete sbrigarvela da soli.
L’Ape, la Vespa e il Calabrone incrociarono di nuovo il loro pungiglione e…tutti per uno, uno per tutti all’attacco.
Ma il Motemagno con l’aiuto della luce della luna Mannaggia, aveva visto benissimo i tre individui e…con una precisione chirurgica bruciò per primo le ali per non farli volare, dopo bruciò il pungiglione per non farsi attaccare, ed infine li fece cadere in una fumante colata di lava.
Avevano fatto davvero una brutta fine!
Ormai nella montagna tutti sapevano della fine che avevano fatto il Topo Campagnolo, e il Trio col Pungiglione e c’era poca voglia di cercare il tesoro, ma la Pulce, la Zanzara Tigre e la Zecca vollero provare anche loro a cercare il tesoro.
Il coraggio e la cattiveria di tutte e tre era insuperabile, non per niente erano chiamati il trio dei succhiasangue, quando succhiano il sangue si attaccano e non mollano la presa a costo di morire.
La notte successiva si misero alla ricerca della lucciola e non appena la incontrarono le dissero:
-Salve Lucciola, tu che conosci bene questa montagna, ci faresti un po’ di luce per arrivare sino alla radura ed evitare il Motemagno.
La Lucciola stava recuperando le sue forze , aveva saltato il suo giorno di riposo e si sentiva molto stanca, sicuramente non sarebbe riuscita a scalare ancora una volta la montagna ma, il suo compito era quello di illuminare la montagna e non era capace di dire di no.
-Vi aiuterò, disse la lucciola, ma sono molto stanca e ogni tanto dobbiamo riposarci per prendere un po’ di forze.
Iniziarono lentamente a scalare la montagna, e più salivano e più la lucciola perdeva le sue forze a la sua luce.
Sentiva che si stava esaurendo dalla stanchezza.
Intanto il Trio dei Succhiasangue si fregavano le zampe: saremo noi a trovare il tesoro, dicevano tra di loro.
La Lucciola con fatica continuava a salire , la sua generosità non la faceva fermare, ma il motemagno era ancora in agguato e sentendosi ancora una volta disturbato attaccò senza pietà il Trio dei Succhiasangue. La Lucciola non ebbe la forza di avvisare i compagni di salita, ormai le sue forze erano al lumicino. La rabbia del Motemagno era al massimo e scatenò tutta la sua forza: lava, fuoco, fumo ma, il Trio dei Succhiasangue si era accorto in tempo del nemico e cercarono di fuggire.
-Presto scappiamo, disse la Zecca.
Il Trio scappava, il Motemagno inseguiva e lanciava fumo, lava e fuoco, bruciando tutto ciò che incontrava. Non fu certo facile per il Motemagno.
Fu una lotta terrificante, sembrava di stare all’inferno.
Dopo una lunga ed estenuante fuga il Trio andò ad infrangersi in un bosco di ficodindia carnivori, mentre il motemagno continuava a bruciare tutto ciò che incontrava, fino a perdere completamente le sue forze e non potersi più rialzare, tanto da morire bruciato dallo stesso fuoco che aveva appiccato.
La Lucciola che conosceva benissimo la montagna aveva trovato riparo in una piccolissima grotta, si sentiva molto, molto stanca e pensò: mi manca poco per arrivare alla radura, lassù mi potrò riposare e riprendere un po’ di forza. Continuò a salire, ma era allo stremo delle forze.
Arrivata in cima alla montagna andò a sdraiarsi proprio sotto la pietra lunga e affusolata che sembrava volesse indicare qualcosa.
Le forze la stavano abbandonando, la sua generosità l’aveva portata a dare tutta se stessa; stava per morire.
In quel momento, mentre era sotto la pietra si accorse che in effetti la pietra aveva la forma di un dito che indicava il cielo, e con le poche forze rimaste osservò con attenzione e quello che vide la lasciò a bocca aperta, sembrava che fosse stato preparato uno spettacolo unico tutto per lei.
Il cielo era puntellato di una infinità di stelle luccicanti, Sirio sembrava fargli l’occhiolino, i pianeti avevano improvvisato un balletto di colori, la galassia di andromeda insieme alle altre avevano fatto un bellissimo fuoco di artificio, una pioggia di stelle cadenti sembravano volerla rinfrescare , e anche se non poteva vederlo, un spettacolare campo di gelsomino di notte diffondeva un profumo inebriante.
Adesso, la Lucciola Generosa aveva capito benissimo cos’era il tesoro della montagna, non era certo un tesoro di oro o pietre preziose, ma era il miracolo della bellezza della natura e quella notte era al massimo del suo splendore.
Mentre osservava con incredulità, non gli sembrava di meritare tutto questo, una voce venne fuori dalla roccia:
-Tu sei una semplice Lucciola, con il compito di illuminare la montagna quando manca la Luna Mannaggia, ed hai svolto il tuo compito senza pretendere niente e rischiando la tua vita, questo spettacolo è solo per te, solo donando si riceve.
Le mancava il respiro, non riusciva a capire se era per via della grande emozione o per l’intenso profumo di gelsomino o per la grande stanchezza e, quando pensava che fosse arrivato il suo ultimo momento di vita, ecco che il cielo incominciò a colorarsi di un arancione chiaro, il sole stava spuntando e il suo primo raggio colpì proprio lei ed incominciò a ricaricarla di energia, di luce e di vita.
La sua generosità e il suo attaccamento al dovere erano stati premiati.
Presto si senti più forte e più felice di prima.

 
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Piuma (Pirandello)

Post n°1003 pubblicato il 17 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Già s’era accorta che la pietà dei parenti non era tanto a costo delle sue sofferenze, quanto di quelle che ella dava loro, senza volerlo, col suo male inguaribile; e che insomma nasceva da un certo goffo rimorso quella loro affannata pietà. Il grosso marito calvo e accigliato, quella grossa cugina povera, corazzata da due poppe prepotenti sotto il mento, i capelli che parevano un casco di ferro su la fronte bassa e quel pajo di spaventosi occhiali sul fiero naso, anche un po’ baffuta, poverina; volevano soffrire per lei perché intendevano di pagare così il sollievo, il bene che sarebbe loro venuto dalla sua morte.
E difatti, quand’ella soffriva, le erano a torno ansanti e premurosi; ma poi, appena il male le dava requie e sul letto poteva gustare per ogni nonnulla una lieve gioja innocente, una dolcezza di respiro nuovo tra il candor fresco del letto rifatto, né l’uno né l’altra partecipavano alla sua gioja; si staccavano anzi dal letto e la lasciavano sola.
Dunque, patti chiari: non le concedevano il diritto di star bene; le concedevano in cambio il diritto di tormentarli col suo male, quanto piú potesse, quanto piú sapesse. E pareva che di questo cambio volessero proprio essere ringraziati.

Non era troppo?


Tormentarli, doveva tormentarli per forza; non poteva farne a meno: non dipendeva da lei. Che poi la lasciassero sola nei momenti di requie, non solo non le importava nulla, ma le taceva anzi un gran piacere, perché sapeva bene che quei due non avrebbero potuto neppur lontanamente immaginare di che cosa ella godesse, di che vivesse.
Pareva di nulla. E veramente non viveva piú di ciò che agli altri bisognava per vivere. Così anche poteva credere di non toglier nulla agli altri rimanendo lì in attesa della morte che non veniva. Ma spesso gli occhi, che avevano ancora il limpido brillio dello zaffiro, vivi essi soli nella sparuta magrezza del visino diafano, le ridevano maliziosi.
Forse si vedeva come quella formichetta dell’apologo nel suo libro di lettura di quand’era bambina: la formichetta che, attraversando una via, chiedeva ai passanti:

– Che vi fa, buona gente, questa mia pagliuzza?

Una pagliuzza? Niente! Ma pretendeva la formichetta che tutto il traffico della via, gente, veicoli s’arrestassero per lasciarla passare con quella sua pagliuzza.
E fosse almeno passata! Ma non passava mai: non poteva passare, perché veramente il tempo per lei non passava piú.
In quella vana attesa di morte, la vita esterna s’era come assordita in lei.
Da anni e anni durava in quel suo male che nessun medico finora aveva saputo dichiarare; e non si capiva come. Nella luce di quella vasta camera bianca, su quell’ampio letto bianco, s’era ridotta piú fragile di quegli insetti d’estate che, a toccarli appena, son lieve polvere d’oro tra le dita Come faceva, così fragile, a resistere agli spasimi di quei fieri accessi del male, non rari? Non pareva un dolore umano, poiché le strappava dalla gola cupi gridi d’animale. Ma pure resisteva. Poco dopo, calma, era come se non fosse stato nulla. Diventava sempre piú magra, questo sì; e piú che a vederla, era uno spavento a immaginare a che punto di magrezza si sarebbe ridotta di qui a dieci, di qui a vent’anni, chi sa! perché forse per venti anni ancora, e piú, avrebbe seguitato su quel letto a incadaverirsi viva; pur senza sformarsi, pur senza perdere, anzi acquistando sempre piú una sua certa grazia infantile, per cui pareva non tanto dimagrisse, quanto si rimpiccolisse tutta a mano a mano che il tempo passava, quasi che, per prodigio, dovesse uscir di vita non già dalla vecchiaia, ma dall’infanzia, a ritroso.
Gli occhi però, gli occhi nel brillio dell’azzurra luce, in quello sparuto visino di bimba, non erano infantili; si facevano anzi sempre piú diabolicamente maliziosi; massime quando, dopo gli accessi del male, ancora aggruppata nel letto, con la testina arruffata giú dal guanciale, su la rimboccatura del. lenzuolo scomposta, guardava i dorsi del grosso marito e della grossa cugina, che s’allontanavano curvi e mogi mogi dal letto.
Disperati, quei poverini! Chi sa che discorsi facevano tra loro di là, e che pensavano di qua, stando a vegliarla! Forse la vedevano come presa in uno strano impenetrabile incanto, che la rappresentava loro come lontana lontana, pur lì vicina, sotto i loro occhi. Ciò che ella chiamava "sole", ciò che ella chiamava "aria", quando con una voce che non pareva piú umana diceva "sole", diceva "aria", forse a nessuno dei due pareva che fosse piú lo stesso loro sole, la stessa loro aria. Era difatti come il sole d’un altro tempo, un’aria ch’ella chiedesse da respirare altrove, lontano; perché qui, ora, doveva loro sembrare ch’ella non avesse piú bisogno né di sole né d’aria né di nulla.

Lontano lontano, nel tempo suo lieto, col sole e l’aria d’allora, quand’era bella e sana e gaja e i limpidi occhi di zaffiro avevano fremiti di desiderio o collere ridenti; e dove lucidi, precisi con tutti i loro colori, quasi riflessi davanti a lei in uno specchio, le vivevano gli aspetti della sua vita, com’era allora.
Si dondolava andando, ma così leggera! per quel traforo verde del lungo pergolato opaco, con in fondo il sole abbarbagliante; le manine rosee appese alle falde del gran cappello di paglia stretto ai lati da un nastro di velluto nero annodato sotto il mento. Oh quella paglia! Sul cristallo azzurro della fontana in fondo al pergolato, ove lei ora corre a specchiarsi, pare un cestello rovesciato.

– Amina! Amina!

Chi la chiama così? Scende la scalinata sotto il pergolato. Sulla spiaggia non c’è nessuno. E ora, in barca, sola, col mare agitato, si sente assalita dalle ondate che la sferzano, come di piombo. E si sente acqua, si sente vento; viva in mezzo alla tempesta. E ogni volta, a ogni sferzata, ah! è un divino imbevimento, che la fa quasi nitrire, ebbra. Una forza agile, prodigiosa, tremenda, la lancia, poi la culla spaventosamente. E in questo spavento vertiginoso che voluttà!
Non bisogna abusarne; se no, è l’affanno di nuovo e il feroce morso di quei dolori al petto che la fanno urlare come una belva. No no – bisogna tenerla lontana così – la sua vita, per viverla soltanto lì, nel ricordo.
Oh come le piacciono lì certe giornate di nuvole chiare, dopo le piogge, con l’odore di terra bagnata e nella luce umida l’illusione delle piante e degl’insetti che sia di nuovo primavera. La notte, le nuvole dilagano su le stelle e le annegano, per poi lasciarle riapparire su brevi profonde radure d’azzurro. Ed ella, con l’anima piena della piú angosciosa dolcezza d’amore, ecco, affonda gli occhi in quel notturno azzurro, e si beve tutte quelle stelle.
Poche gocce d’acqua, qualche goccia di latte, ora, e nient’altro. Ma nel sogno così, anche a occhi aperti, dov’ella perennemente viveva, venivano a nutrirla in abbondanza i ricordi che per lei erano vita. Le recavano con piú la materialità, ma la fragranza e il sapore dei cibi d’allora, di quelli che piú le piacevano, frutta ed erbe, e l’aria d’allora e la gajezza e la salute.
Come poteva piú morire? Dopo un lieve sonno, la sua anima era pienamente ristorata, e bastava al suo corpo, così com’era ridotto, che quasi non era piú, una goccia l’acqua, una goccia di latte.
La grossolanità goffa dei corpi, non solo del marito e della cugina, ma di quanti le s’accostavano al letto era ormai ai suoi occhi, a tutti i suoi sensi acutissimi, d’una gravezza insopportabile, e cagione di ribrezzo e qualche volta anche di terrore. La diafana gracilità delle pinne el suo nasino fremeva, spasimava, avvertendo i nauseanti odori di quei corpi, la densità acre dei loro fiati; e quasi avevan peso per lei anche i loro sguardi quando le si posavano addosso per commiserarla. Sì, sì questa commiserazione, come tutti gli altri sentimenti e desiderii, in quei corpi, avevan peso per lei e anche cattivi odori. Nascondeva perciò spesso la faccia sui guanciali, finché non si fossero allontanati dal letto. Da lontano, con piú spazio attorno alla chiara, aerea levità del suo sogno, li guardava, e dentro di sé ne rideva, come di grosse bestie strane che non potevano vedersi, da sé, come le vedeva lei, condannate all’affanno di stupidi bisogni, di gravi e non pulite passioni.

Piú che per tutti gli altri rideva tra sé per il marito, quando lo vedeva piantato in mezzo alla camera con la pensosità pesante e lugubre dei buoi. Anche così da lontano, gli scorgeva la pelle spungosa, seminata di puntini neri. Certo egli credeva di lavarsi bene, ogni mattina; bene come si lavavano tutti gli altri; ma anche a tutti gli altri, per quanto si lavassero, restavano sempre nella pelle tutti quei puntini neri. Poteva scorgerli lei sola, come lei sola scorgeva la granulosità dei nasi e tant’altre cose che, a guardar così da lontano, erano per lei divertentissime.
La grossa cugina con gli occhiali, per esempio, non poteva fare a meno d’abbassar le palpebre, appena ella la fissava col capo di solito reclinato giú dal guanciale, sul bianco della rimboccatura del lenzuolo.
In quel bianco, il suo visino quasi spariva, e solo si vedevano, acuti e brillanti, i due grandi occhi di zaffiro, come due vive gemme posate lì.
Ridevano però, ardevano diabolici di riso, non perché sotto gli occhiali della cugina scorgessero grossi e lunghi i peli delle ciglia, quasi antenne d’insetto, ma perché ella sapeva bene che la cugina, venendo qua così pacifica, con l’aria di niente, ad assisterla, lasciava nelle altre stanze di là un dramma che piú goffo nella sua grossolanità non si sarebbe potuto immaginare: il dramma della sua passione, povera grossa cugina con gli occhiali; il dramma, certo, della sua vergogna e del suo rimorso; ma anche – oh Dio, perdono! – anche de’ suoi segreti piaceri carnali col grosso cugino, attossicati da chi sa quante lagrime, poverina!
Avrebbe voluto dirle che, via, non stesse a pigliarsela tanto, perché ella sapeva, aveva indovinato da un pezzo, e le pareva naturalissimo che tutti e due, cugino e cugina, visto che la morte non veniva di qua a liberarli, di là si fossero messi insieme maritalmente, con quei loro grossi corpi – oh Dio, si sa – tentati l’uno verso l’altro dalla vicinanza e dal bisogno d’un conforto reciproco. Naturalissimo. E già due volte, in sei anni, la poverina era stata costretta a sparire, la prima volta per tre mesi, la seconda per due. Perché – si sa, oh Dio – non è senza conseguenze, il piú delle volte, questo cocente bisogno di conforto reciproco. Il marito le aveva detto che era andata in campagna a riposarsi un poco. Glie lo aveva detto però con tale aria smarrita e vergognosa, che certo ella sarebbe scoppiata a ridergli in faccia, se veramente avesse ancora potuto ridere. Ma non poteva, altro che con gli occhi, ormai. Ridere, ridere forte, con la sua bocca rossa, coi suoi denti splendenti, ridere come una pazza, poteva là soltanto, nel sogno vivo in cui si vedeva, con la sua immagine rosea e fresca di salute; e là, sì, là aveva riso riso riso, ma tanto, come una pazza!
Avrebbe forse dovuto pentirsene, come d’un peccato, perché costava necessariamente lagrime agli altri questo suo inutile riso. Ma che poteva farci se non moriva? E del resto, che pentimento, se l’uno e l’altra, stanchi d’aspettare invano la sua morte, s’erano di là accomodati tra loro? Perché non potevano, con lei ancora lì, regolare la loro unione, la nascita dei due figliuoli? Avrebbero dovuto pensarci prima, ai figliuoli! Li avevano fatti e ora piangevano? Per fortuna, certo, i due piccini non potevano ancora prender parte a quel loro affanno. fuori come le i dalla goffaggine delle grossolane e complicate passioni.

N’ebbe la prova, un giorno.
Nell’ampia camera luminosa non c’era nessuno. Di tanto in tanto alla cugina faceva comodo credere ch’ella dormisse e che poteva perciò lasciarla sola, non ostante l’espressa raccomandazione del marito. (S’erano messi insieme i due, ma certo in un modo molto curioso, salvando cioè nei loro cuori grossi ma teneri l’affetto per lei, un affetto che appariva tanto piú comico quanto piú si dimostrava sincero e commovente, ma che pur forse doveva dare alla cugina, qualche volta, una cert’ombra di gelo sia, se egli, per esempio, nel sostenerla negli accessi del male, le ravviava con dita tremanti i lunghi capelli d’oro, ricordo d’intime carezze lontane.)
Quel giorno, la cugina la aveva lasciata con tanto d’occhi aperti; ma non importa: doveva credere che dormisse, ed era uscita da un pezzo dalla camera, quando a un tratto l’uscio s’era schiuso ed era entrata una grossa bamboccetta con gli occhiali, che reggeva con un braccino sul petto una bambola tignosa, in carnicino rosso e senza un piede, e nell’altra mano una mela sbocconcellata. Smarrita e titubante, pareva una pollastrotta scappata dalla stia e penetrata per caso in un salotto.
Ella, sorridente, le aveva fatto cenno con la mano d’accostarsi al letto; ma la bimba era rimasta come incantata a mirarla da lontano.
Con gli occhiali, povera mimma, chi sa qualcuno non volesse credere di chi era figlia; ma ben pasciuta poi, sana, placida e – si poteva giurare – perfettamente ignara dell’affanno che aveva dovuto costare alla madre il metterla al mondo illecitamente; ignara e beata de le belle rosse mele che si potevano intanto mangiare, così con tutta la buccia e col solo ajuto dei dentini, in questo illecito mondo, dove per lei forse solamente alle bambole poteva capitare la disgrazia di perdere un piede e il parrucchino di stoppa.
Volle avere pietà; e quando, poco dopo, la madre accorse tutta sossopra e quasi atterrita a ritirar di furia quella bimba dalla camera, ove certo s’era introdotta eludendo la rigorosa vigilanza, chiuse gli occhi e finse di dormire davvero. Finse di dormire anche quando la cugina, ancora tutta rimescolata, venne a riprendere il suo posto d’assistenza presso il letto; ma, Dio Dio, che tentazione d’aprire un tratto gli occhi ridenti e di domandarle all’improvviso:

– Come si chiama?

Sì, via, bisognava un giorno o l’altro venire a questa risoluzione. Chi sa quali disordini cagionava di là il mantenere ancora, qua, tutto questo inutile mistero! E poi anche si moriva dalla curiosità di sapere se l’altro figliuolo fosse un bamboccetto o un’altra bamboccetta, e se anche questa seconda, per non sbagliare, fosse con gli occhiali.
Ma s’infranse da sé il mistero, in un modo inopinato, pochi giorni dopo l’entrata furtiva di quella bimba nella camera.
Urli, pianti, fracasso di seggiole rovesciate, un gran subbuglio, quel giorno, venne dalle stanze di là, nell’ora del desinare. Ella indovinò che qualcuno era trascinato con molto stento, sorretto per la testa e pei piedi, da una stanza all’altra, dalla sala da pranzo a un letto. Il marito? Un colpo d’apoplessia? I pianti, gli urli erano disperati. Doveva esser morto.
Non per lei, che da tanto tempo stava qui ad aspettarla, sua preda accaparrata, ma per un altro che non se l’aspettava, la morte era entrata nella casa. Era entrata, forse; passando innanzi all’uscio socchiuso di quella camera bianca; forse s’era fermata un momento a guardarla sul bianco letto; poi s’era introdotta di là nella sala da pranzo per picchiar di dietro col dito adunco sul cranio lucido del grosso marito intento a divorare senza sospetto il suo pranzo quotidiano.
Doveva ora piangere di questa disgrazia? Era per quelli che restavano in vita. Le feste, i lutti, le gioje, i dolori degli altri non erano piú da gran tempo per lei, che dal suo letto li considerava solo come buffi aspetti di qualche cosa che piú non la riguardasse. Era anche lei della morte. Quell’esile filo di vita che conservava ancora, serviva per condurla fuori, lontano, nel passato, tra le cose morte, in cui solo il suo spirito viveva ancora, non chiedendo altro di qua, alla vita degli altri, che una goccia d’acqua, una goccia di latte; non poteva dunque legarla piú a questa vita degli altri, ormai estranea a lei, come un sogno senza senso.
Chiuse gli occhi ed aspettò che di là quel subbuglio a poco a poco si quietasse.

Dopo alcuni giorni vide entrare nella camera, vestita di nero, tra le due bambine vestite anch’esse di nero, la grossa cugina con gli occhiali, disfatta dal pianto. Le si piantò come un incubo lì davanti al letto; poi prese a sussultare, arrangolando; e infine stimò giustizia gridarle in faccia tra infinite lagrime la sua disperazione, mostrando le due piccine orfane, e il danno ormai irreparabile ch’ella aveva fatto loro non morendo prima. Come, come sarebbero rimaste adesso quelle due piccine?
Ella ascoltò da prima sbigottita; ma poi, protraendosi a lungo lo spettacolo un po’ teatrale di quella disperazione pur sincera, non ascoltò piú: fissò l’altra bimba che ancora non conosceva e notò con piacere che questa era senza occhiali. Le parve un refrigerio sentirsi così esile, quasi impalpabile, tra il fresco delle lenzuola bianche, bianca, di fronte a tutto quel nero angoscioso tempestoso bagnato di lagrime, che involgeva e sconvolgeva la grossa cugina; e ben buffo le parve, che se lo fosse assunto lei, così, il lutto del marito, e lo avesse anche imposto a quelle due povere piccine che fortunatamente avevano l’aria di non ricordarsi piú di nulla e una gran maraviglia avevano negli occhi spalancati d’esser penetrate finalmente in quella camera proibita e di veder sul letto lei che le guardava con curiosità affettuosa.
Non comprendevano, certo, quelle due bambine ch’ella avesse loro fatto un gran danno, quel gran danno che la loro mamma gridava così disperatamente. Ma non c’era proprio rimedio? nessun rimedio? Lo chiese a nome delle due piccine, per risparmiar loro lo sbigottimento di tutto quel pianto e di tutte quelle grida. C’era? E dunque, perché quel pianto e quelle grida? di che si trattava? di lasciar tutto ciò che ella possedeva a quelle due piccine? Ma subito! ma pronta! Veramente, per sé, ella credeva di non possedere piú altro che quell’esile filo di vita, il quale aveva soltanto bisogno di qualche goccia d’acqua, di qualche goccia di latte. Che le importava di tutto il resto? Che le importava di lasciare agli altri ciò che non era piú suo da tanto tempo? Era una faccenda difficile e molto complicata? Ah sì? e come? perché? Ma dunque davvero era una goffaggine insopportabile la vita, se una cosa così semplice poteva diventar difficile e complicata.
E le parve di vedersela entrare in camera, alcuni giorni dopo, la complicata goffaggine della vita nella persona d’un notajo, il quale alla presenza di due testimonii, prese a leggerle un atto interminabile, di cui non comprese nulla. Alla fine, con molta delicatezza, si vide presentare un oggetto che non vedeva piú da tanto tempo. Una penna, perché apponesse la firma a quell’atto, non solo in fondo, ma parecchie volte, in margine a ogni foglio di esso.

La sua firma?
Prese la penna; la osservò. Quasi non sapeva piú reggerla tra le dita. E alzò poi in faccia al notajo i limpidi occhi di zaffiro con un’espressione smarrita e ridente. La sua firma? Aveva ancora dunque il peso d’un nome ella? un nome da lasciare là su quella carta?
Amina... e poi come? Il nome di zitella, e poi quello di maritata. Oh, e anche vedova bisognava mettere? Vedova... lei? E guardo la cugina. Poi scrisse: Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara.
Rimase a contemplarla un pezzo quella sua incerta scrittura sulla carta. E le parve così buffo che si potesse credere che in quel rigo di scrittura lì ci fosse veramente lei, e che gli altri se ne potessero contentare, non solo, ma se ne beassero tanto, come d’un atto di grande generosità, che costituiva una vera fortuna per le due povere piccine vestite di nero, quella firma. Sì? E ancora, dunque! ancora... Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara... Per lei era come uno scherzo, strascicare quel lungo nome goffo su per tutti quei fogli di carta bollata, come una bambina parata da grande, la lunga coda della veste di mamm

 
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Fingere di esser forte (Coelho)

Post n°1002 pubblicato il 17 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Tu non hai bisogno di fingere che sei forte, non devi sempre dimostrare che tutto sta andando bene, non puoi preoccuparti di ciò che pensano gli altri, se ne avverti la necessità piangi perché è bene che tu pianga fino all'ultima lacrima, poiché soltanto allora potrai tornare a sorridere.

 
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Libri dimenticati:Claretta

Post n°1001 pubblicato il 17 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Biografia molto bella di Claretta Petacci,scritta da Roberto Gervaso

 
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Frase del giorno

Post n°1000 pubblicato il 17 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Bisogna opporre al pessimismo dell'intelligenza l'ottimismo della volontà (Gramsci)

 
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