Messaggi del 20/10/2011

La pecora che voleva fare le uova

Post n°1028 pubblicato il 20 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Dagogìa, l’Ape Regina, si era assentata dalla fattoria. Doveva fare il suo volo nuziale.
Dagogìa era la maestra,la guida della cascina, e tutti gli animali si consigliavano con lei, e seguivano i suoi suggerimenti, come fosse il direttore d’orchestra.
Adesso però, con la sua assenza, nessuno sapeva più cosa di preciso doveva fare, mancando la naturale conducente del podere agricolo.
Susan, la pecora, belava:
-Mi sono stufata del mio tran tran, d’ora in poi voglio fare le uova!-
Carolina la Mucca, invece, si era messa in testa di produrre lana, mentre il gallo aveva deciso di sostituirsi al cane da guardia.
Giosuè il Cavallo andava a caccia di topi, e Geltrude la Faraona voleva dare il latte.
Il melo era deciso a procreare carote, mentre le piante di grano volevano fare il vino.
Il trattore cercava di generare formaggio, e il forcone tentava di originare olio.
Astolfo il gatto si arrabbiava:
- Voglio imparare a fare la farina!!-
Gaetano il Toro invece diceva:
-Mi allenerò e diventerò un gran purosangue da corsa!-
Vanessa la Farfalla, differentemente, faceva esperimenti per ottenere il miele, nel tempo in cui l’orto si adoperava per produrre legno e albicocche.
La fontana sognava di far sgorgare champagne, e i topi volevano fare la marmellata.
Calma la Lumaca agognava a trainare l’aratro, e il maiale era intento ad andare di fiore in fiore per provare a impollinarli.
Insomma, era il caos totale.
Finalmente Dagogìa, l’Ape Regina, tornò dal suo stormo di matrimonio, le ci volle un bel po’ per risistemare le cose:
-Miei cari!-disse a tutti-Ciascuno è un essere unico e irripetibile e dotato di caratteristiche personali. Tutti dobbiamo capire quali sono le nostre qualità e fare bene ciò per cui siamo portati, non c’è bisogno di voler sognare di fare l’impossibile, basta scoprire quello di cui la natura ha dotato ognuno e fare con passione il nostro dovere!-



 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Il profumo del pane

Post n°1027 pubblicato il 20 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

asciami, qui, Avian
L'autovettura accostò: una grande macchina, grigia, scura, silenziosa. In quella città piuttosto diffuse, come il benessere, presenti, come la ricchezza.
- Orientativamente dovrei sbrigarmi in due ore, se hai qualcosa da fare, fai pure, ma, mi raccomando, puntuale
- D'accordo, signore, proprio sicuro che voglia andare da solo? Va bene, me lo ha già detto, oggi vuole due ore tutte per sé.
Lo guardò come a volergli far notar che l'aveva assunto come autista e non come balia, e che, con tutta probabilità, sapeva bene ciò che voleva.
- Comunque, non si preoccupi, sarò puntuale!
Lasciò andare la portiera, mentre si incamminava in quella via principale di quella che per tanti versi era l'unica città in cui sarebbe potuto vivere. Lì si parlava frequentemente di economia, si incontravano i cosiddetti pezzi grossi della finanza. Insomma era il cuore economico dell'intera nazione. E lui di certo era una parte di tutto questo. Quel giorno non voleva proprio avere vicino a sé il personale di sorveglianza. Sapeva che erano nei dintorni, li aveva avvertiti, con il suo solito sorriso, per far capire che non era cattivo e che scherzava, che li avrebbe licenziati se si fosse accorto di loro.
Non c'era stranamente molta gente, lungo la strada, e si potevano vedere con facilità le vetrine, e gli ingressi degli edifici del centro. Aveva trascorso la sua giovinezza in quella via, ma certo le cose erano cambiate negli anni.
Infine, lui era cambiato.
Non si può negare quanto faccia la differenza, cambiare stile di vita. Aveva imparato anche a tenere le distanze, lui che da ragazzo era così impetuoso.
Sì fermò attratto da un portone. La struttura era muraria, ma al suo interno aveva un'intera parete in legno, e da una parte, sempre in legno, una porticina. Non ricordava quell'edifico in quella via.
L'edificio era vecchio, vi era pure la data incisa nel legno: 1601.
No, doveva essere un errore, leggeva male, forse era 1801, vista l'età e la vetustà. Non vi erano edifici così vecchi, non ricordava che ve ne fossero almeno. Era una chiesa. Sì, innegabilmente era una vecchia chiesa. Ma non c'erano chiese di quel tipo nella sua città.
Perché dunque non entrare e vederne l'interno? Una cosa veloce, cinque minuti, non di più.
Vi era un particolare odore, forse erano le candele, forse il vecchio legno dei banchi. Era piuttosto diversa dalle chiese suntuose a cui era abituato.
Possibile che fosse davvero del 1601? Ma no, non vi erano chiese così vecchie in quel posto. Lo avrebbe saputo. Sua madre era così religiosa, che non avrebbe mancato di farglielo sapere. Cinque soli, minuti, poi gli affari e tutte le cose che doveva fare non gli avrebbero permesso di starvi più tempo. Da piccolo sedeva sulla parte destra della chiesa. Accarezzò il banco, come a voler accarezzare i ricordi.
Si guardò intorno e non vide anima viva.
Una chiesa aperta senza qualcuno che prega, qualche anziano o qualche studente o ... qualcuno! Ed il prete dov'era? Strano, sembrava deserta, una sensazione che gli metteva tristezza e con questa sopraggiungeva un certo grado di stanchezza.
Si sedette, per non disturbare con la sua curiosità, qualche fedele dedito alla preghiera. Ed ascoltò in silenzio ... il silenzio.
Ed il silenzio l'avvolse, distogliendolo da ogni pensiero.
Non si accorse nemmeno di essersi appisolato, sui banchi della chiesa. Che bel silenzio che c'era ...
Nemmeno a casa sua ricordava un tale silenzio!E sì che con quella villa di oltre un migliaio di metri quadrati, circondata da un'ottantina di ettari di boscaglia, il silenzio non mancava.
Se qualcuno fosse passato in quel momento, nella penombra, non si sarebbe nemmeno accorto di lui, oramai addormentato, piegato su se stesso. Raccolto, come la vita nascente. Addormentato come un pupo.
E non si sarebbe nemmeno accorto nessuno di quel forte russare, dovuto sicuramente ad una gran fatica, poiché quella chiesa era completamente vuota.
Si girò e rigirò, per tutto il tempo, come fosse insoddisfatto di qualcosa,finché non riaprì gli occhi, tenendosi lo stomaco. Non ricordava di aver mai sentito una sensazione del genere.
Che cos'era? Stava male? Così, all'improvviso? Subito pensò a ciò a cui si cerca per tanti versi di non pensare mai.
Una fitta tremenda lo prendeva all'altezza dello stomaco. Ma che cos'era?
Dio ... certo era più facile, lì, ricordarsi di lui. Dio ... che male. Si sentiva mancare. Gli girava la testa: avrebbe voluto tanto che qualcuno lo aiutasse ad uscire da quel momento di dolore, di difficoltà, ma non c'era nessuno.
Nessuno poteva sentirlo. C'era il vuoto tutt'intorno a lui. Gli sembrò quasi di averlo detto.
- Qualcuno ... mi aiuti ... sto male ... -
A fatica, nel buio della chiesa, si mosse, tra i banchi, cercando un'area con più luce;Vide della luce naturale provenire da quella che sembrava, intuitivamente, la sagrestia.
Il dolore allo stomaco era così forte da sentirsi sul punto di svenire e proveniva dallo stomaco. Ma lui seguiva una dieta semplice, sana, era sempre sotto controllo.
Ad esempio, l'ultima volta aveva fatto colazione ...
Colazione? Ma doveva essere l'alba del giorno successivo, doveva aver dormito, senza accorgersene in quel luogo. Dovevano essere passate ventiquattr'ore dall'ultimo pasto.
Capì, allora che era fame.
Subito non l'aveva compreso. Come poteva farlo? Una sensazione sconosciuta. Era fame: si doveva essere addormentato lì, appena entrato, in quella chiesa, e non aveva messo niente nello stomaco per diverse ore, fintanto che lo avevano svegliato i morsi della fame.
- Dio ... che male! -
Continuò a camminare verso la luce, verso la luminosità della finestra, e del giardino che si intravedeva. Sulla sinistra, oltre un piccolo corridoio, una camera. Forse il sacerdote si trovava lì, doveva chiedere aiuto. Doveva mangiare qualcosa, subito.
- Lo lascio qui
Una voce, qualcuno si trovava nella stanza: finalmente! Mantenendosi lo stomaco si portò verso la maniglia della porta e con un colpo secco, l'apri. La stanza era luminosa, datata certo, tutto era vecchio lì, come tutta la chiesa, ma luminosa.
- C'è nessuno?... ho bisogno di aiuto ... -
Si meravigliava di poter fare quella richiesta. Non era abituato ad una situazione come quella. Era sicuro di aver sentito qualcuno ... Ne era certo. Aveva sentito chiaramente una voce e gli sembrava che avesse pure detto qualcosa del tipo ... lo lascio qui. Sì, aveva detto proprio così ...lo lascio qui. Ma che cosa ha lasciato ... che cosa? Qui ... dove? E chi ...? Sul grande tavolo di legno, vi era una busta, tondeggiante, e forse a causa della fame gli sembrava che provenisse dalla stessa un buon profumo di pane. Un profumo di pane che non sentiva più da tanti anni.
Era sicuramente la fame. Dio che cosa avrebbe dato per un pezzo di pane ed una scodella di latte.
Si sedette. Anche con la stanchezza ci voleva poco a capire che non vi erano né telefoni, lì, né altro. Ah ... il profumo del pane ... Dio, come si sente il profumo del pane, quando si ha fame, e com’è buono. E com'è forte: ma che cosa c'era in quella busta? La prese, e l'aprì. C'era del pane ... del pane fresco. DEL BUON PANE APPENA SFORNATO! Cominciò a mangiarlo. Con appetito. Ma quale appetito ... la sua era fame ... fame ...
Dopo il secondo panino cominciò a stare meglio. Riprendeva i suoi colori, il dolore allo stomaco era passato: aveva anche pianto senza accorgersene.
Cercò ancora qualcuno, per chiedere dove si trovasse, ed a chi doveva ringraziare, ma era deserto quel posto.
Percepì il senso del deserto. Non il deserto dei luoghi nei quali era stato diverse volte, in vacanza, anche se a debita distanza, con tutti i comfort.
Prese il pane, se lo strinse forte al petto, e cercò un'uscita. Uscendo dalla chiesa sentì subito l'aria fresca, vide che vi era un viottolo, rustico, e lo seguì.
Chissà quanta Polizia si era oramai mobilitata per cercarlo. Sicuramente l'autista aveva dato subito l'allarme. Un po' gli dispiaceva, dopotutto si era solo addormentato in chiesa. Va bene, avrebbe chiarito ogni cosa e fatto le sue scuse.
Infilò la mano nella busta e prese un altro panino: Non ricordava di aver mai patito la fame.
Si sentiva stordito, svuotato, stanco. Eppure lucido, pieno di voglia di fare. Le gambe si muovevano, ma lui non si rendeva nemmeno conto della strada che facevano. Oh, beh ... era nella sua città, fra poco avrebbe visto la sua "Madonnina" e si sarebbe sentito meglio.
Uscito dal giardino vide subito davanti a sé la propria autovettura, con all'interno l'autista che leggeva un giornale. Ne fu meravigliato. Sapevo però che era meticoloso, preciso: ma essere già lì, presente. L'unica cosa che stonava era vederlo assorto nella lettura. Non aveva mai pensato che fosse un cultore di quell'attività. Beh, pensò, da ieri che mi aspetta, poveretto, sarò stanco.
L'uomo lo vide.
- Oh, è già arrivato, Signor Silvoni?
- In che senso, sono già arrivato ... ?
Scese dall'autovettura per aprirgli lo sportello.
- Beh ... ho chiamato mia moglie, dopo averla lasciata, e visto che non vi era niente da fare, mi sono comprato un giornale ed ho deciso di aspettarla qui.
- Ma scusi, quanto tempo è passato da quando ci siamo lasciati ? da quando sono sceso dalla macchina e ...
- Non più di un'ora .
Guardò la busta di pane, come a cercare una conferma.
- Ah, vedo che ha comprato del buon pane ! io lo conosco quel Panificio, lo compro sempre lì, riconosco la busta ! Sa, noi ci serviamo lì, da generazioni, e loro, i panificatori sono tali da generazioni, una cosa di famiglia.
- Ah, sì ?
- Sì, pensi che si dice i primi, quelli che iniziarono, anche se non c'è traccia storica, dai racconti che si fanno, un po' come dal barbiere, cominciarono nel 1601 addirittura !
- Come nel 1601? - Si portò la mano alla bocca per non far uscire le parole.
- Sa, ultimamente, però, hanno avuto qualche problema, e si dice che forse prima di Natale chiuderanno! Sono bravi panettieri, ma sembra che la crisi di questi anni ed alcuni investimenti sbagliati di quei signori che ti propongono gli investimenti, li abbiano messi KO, maledetti speculatori, gente che diventa ricca sulle spalle degli altri, ricconi balordi, delinquenti, ... scusi, nessuno riferimento a ... sì, insomma, Lei non c'entra! E così, le dicevo, pur essendo brava gente, dovranno chiudere. E noi perderemo oltre che della brava gente anche del gran buon pane, mi creda, noi ci serviamo sempre lì, mi madre e mia nonna, facevano la stessa cosa .
Si asciugò la fronte. Sudava in quella fresca giornata di Dicembre. Sentiva l'aria fresca e sudava. Non era stato fuori tutta la notte. Non era entrato in una nessuna vecchia chiesa.
Ciò che gli era successo aveva un'altra spiegazione.
Ciò che gli era successo non poteva essere spiegato.
- Ma lei sa dove si trova questo panificio ?
- Cavaliere ... - Ed indicò la busta del pane - Lei sta tornando da lì, no?
Come poteva spiegargli che non era andata così. Che non era andato nel Panificio. Immaginava già le battute dell'autista.
- Oh, Sciur ... è il pane che è venuto da lei? Caspita, noi gente comune, se non andiamo a prenderlo, mica viene a trovarci !
Respirò forte, con sotto le narici il profumo del pane fresco ed anche di un'aria che nella sua città, negli ultimi tempi non si sentiva tanto .
- Forse non sono più abituato a camminare in città .
- Mi scusi, non avevo capito, ha ragione, venga, cioè mi segua, no, l'accompagno.
- Grazie ... e scusi lei se continuo a mangiare, non gliene ho nemmeno offerto !
- Oh, si figuri ... sono in servizio !
- Forse lei può comprendermi : forse può comprendere che cosa vuol dire aver sofferto la fame; lo stomaco mi faceva male da quanto tirava, non avevo mai sentito un dolore del genere !
- Beh ... no, Cavaliere - Si tolse il berretto, grattandosi la fronte nervosamente, - No, la prego di credermi, ..no ... i miei erano poveri, ma... non mi hanno mai fatto mancare niente e la stessa cosa faccio io con i miei due figli, il pane e la pasta c'è sempre stato a casa, e poi noi siamo gente forte, resistente .
E si battè soddisfatto la pancia - Grazie a Dio non ho mai sofferto la fame!
- Eh, io, invece, la fame ... grazie a Dio - E guardò in alto, nel cielo - Grazie a Dio, l'ho sofferta. Non avrei capito l'importanza di certe cose, altrimenti: non possiamo permettere che chiuda una sì nobile attività, come un vecchio Panificio, vero amico mio?
- No, Cavaliere, noi non possiamo proprio ... Noi?
- Certo noi, noi due, eh ! pensava che io usassi solo il Plurale Maiestatis ! luoghi comuni, vecchio mio!
Lo aveva sempre divertito quel suo autista di circa due metri d'altezza, aveva delle espressioni che lo facevano somigliare ad un personaggio dei cartoni animati: Yogi Bear (Yoghi). Chi li avesse visti insieme, in quel momento, incrociandoli lungo la via, parlando come due vecchi amici, e scherzare avrebbe facilmente pensato, invece a lui, di statura, diciamo così, medio-bassa, o media se si prendevano in esame le statistiche del secolo precedente, come all'amico boo-Boo (Bubu).


 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Il pozzo dei desideri

Post n°1026 pubblicato il 20 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Stellina bianca nella notte nera, dormi di giorno e attendi la sera e non aver paura perché, ed è cosa vera, la vita aiuta spesso chi spera”.
La filastrocca eccheggiava nella mente della piccola Matilde, mentre si avvicinava al pozzo dei desideri. Il problema era che l’unico suo desiderio era non desiderare. Nonostante questo, la bambina portava nella sua mano una monetina da gettare nel pozzo. Una moneta che avrebbe dovuto racchiudere un sogno mentre la sua vita aveva racchiuso solo un incubo, fino a quel momento…
Vi rivelerò, in quanto Matilde non se lo ricorda, che questo incubo e’ iniziato un giorno lontano anni dalla vicenda che ho iniziato a narrarvi, un giorno in cui la piccola iniziò a vivere con uomini oscuri, cavalieri malvagi che vivevano in un regno buio che dominava tutti gli altri regni.
Bene adesso che sapete questo possiamo tornare dalla nostra piccola amica…
… “ Perché conosco queste parole” pensava tra sé e sé la bambina, riferendosi alla filastrocca “ nessuno delle persone con cui vivo me le ha insegnate eppure sono sempre nella mia testa, nel mio cuore”.
Il pozzo era ora davanti a lei: un passaggio che poteva anche condurre dal mondo della realtà al mondo dei sogni.
Purtroppo guardando sul fondo, l’unica cosa che vide fu il suo volto riflesso sulla superficie dell’acqua e le monete lanciate da qualcun altro addormentate sul fondo.
Lanciò la sua moneta ma non riuscì ad esprimere nessun desiderio. I suoi sogni si erano assopiti o erano volati via, lontani da lei, forse da qualche altro bambino che adesso era felice. Con un “pluf” la moneta cadde in acqua e poi il silenzio si impadronì di tutto.
Matilde si allontanò nella notte buia…
…il vociare in fondo al pozzo era insopportabile. Sembrava di essere in una taverna piena di uomini che urlano e parlano a voce alta. La piccola moneta era appena arrivata lì e tutti gli occhi furono di colpo su di lei.
“Ah, ecco una nuova arrivata” disse quella che la piccola monetina pensò dovesse essere la più anziana
“ Sentiamo sentiamo… e tu perché saresti qui?” nessuna risposta arrivò dalla piccola moneta “ Non sarai per caso muta? Qual è il desiderio che devi realizzare?”
La nuova moneta non sapeva veramente cosa dire. Un desiderio? Che cos’era questa strana cosa?
“Vedi” incalzò “l’anziana”, io sono stata gettata qui perché facessi diventare ricca la persona che mi ha gettato, ma non e’ ancora successo, lei…” indicando un’altra moneta “ arrivo’ qui portando con sé il desiderio di una coppia di avere un figlio e questo invece si è realizzato. Insomma, tutte quelle monete hanno con sé un sogno da far diventare realtà … tu non ce l’hai?”
… quello che l’anziana moneta si dimenticò di dire, era quello che c’era dietro il sipario: ciò che diventava la loro vita dopo che il desiderio si era realizzato, oppure quando la persona che aveva espresso il desiderio volava in cielo prima che questo si realizzasse o di quando il sogno non diventava realtà e gli anni passavano e passavano… e quest’ultimo effettivamente era il suo caso…
La piccola monetina proferì parola per la prima volta…
“ forse io sono caduta giù?”
Questa frase suscitò una sonora risata di gruppo.
“ Quanto sei stupida e giovane!” continuò la vecchia moneta “ noi non abbiamo volontà propria. C’è un disegno per noi e non siamo noi a prendere la matita in mano!”
La piccola moneta capiva sempre meno il suo ruolo in quel pozzo. Non poteva essere caduta lì per caso, quindi c’era un motivo… ma non sapeva quale!
La notte buia fuori dal pozzo continuava a fare da regina, come il direttore di un’orchestra di grilli. Una donna più che camminare, arrancava verso il pozzo. Erano anni che non si sentiva più viva, erano anni che non si sentiva più.
Rebecca, questo era il suo nome, un giorno era una regina, la regina di un regno fantastico, la regina di un regno felice. Poi tutto era caduto miseramente. Adesso la sua mente era come un deserto silenzioso. Nessuna pianta cresceva più in quel deserto. Nella mano stringeva una moneta ma ormai non osava più avere desideri perché sapeva che non si realizzavano mai e il suo ormai l’aveva chiuso nel cassetto e forse avrebbe dovuto buttarci la chiave in quel pozzo, visto che quel cassetto non l’avrebbe aperto più.
La sua moneta cadde nell’acqua e la regina si trascinò nella notte buia allontanandosi…
… “ Oggi e’ proprio giornata di arrivi” commentò la vecchia moneta, vedendo cadere la seconda monetina in mezzo a loro. “ Tu cara, quale sogno porti con te?”
Non arrivò risposta dalla moneta, che continuava a guardarla incredula.
“ Non ci posso credere, non mi dire che non sai neanche tu perché sei qui?”
No, non lo sapeva e continuava a guardarsi intorno. Tutti ridevano e facevano domande solo una moneta era in un angolo e la guardava zitta. Forse anche lei non sapeva cosa stava succedendo. Fu come guardarsi allo specchio, per le due piccole monetine “fuor d’acqua”, ma non fu come vedere esattamente la propria immagine riflessa. Fu come vedere anche quella parte in più che nessuno dei due aveva da solo, fu un po’ come cominciare a vedere, dopo aver vagato per ore nella nebbia fitta, i contorni della propria casa…
“ Stellina bianca nella notte nera dormi di giorno e attendi la sera e non aver paura perché, ed è cosa vera, la vita aiuta spesso chi spera”…
… quelle parole, quella filastrocca….Rebecca ebbe un tuffo nel cuore e si girò di scatto.
Una bambina sedeva in un angolo, per terra e ripeteva tra sé e sé quei versi, quei versi che in una gelida mattina la regina aveva detto alla sua bambina per ore prima che i cavalieri che stavano assediando il castello, invasero il regno e tutto quello che fino a quel momento aveva portato felicità nel suo cuore, cadesse come un ponte mal costruito.
I loro sguardi si incontrarono, il tempo si fermò e per qualcosa di inspiegabile anche la bambina si rese conto di chi era quella donna che aveva davanti.
Il loro abbraccio asciugò tutte le lacrime piante e coccolò quelle che adesso scendevano dagli occhi delle due donne.
Il pozzo continuava a sonnecchiare nella notte silenziosa.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Adolescenza inquieta

Post n°1025 pubblicato il 20 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Gran brutta età l'adolescenza,cari lettori!Ne sanno qualcosa i coniugi Cuccurullo che per copa del figlio Asmodeo hanno visto i sorci verdi,come vedrete se continuate a leggere.
LUNEDI- Ottenuto finalmente il motorino,Asmodeo ha finalmente rivelato il pericolo pubblico che si nasconde in lui.In un pomeriggio ha
Quasi investito la Clementina
Fatto il motocross al cimitero
Tentato di attraversare al volo la concimaia.
A questo punto le sue tirste imprese sono finite perchè il motorino è finito nella concimaia.
I Martellacci hanno reso gloria a Dio
MARTEDI'- Per far colpo sulla ragazza che gli piace,Asmodeo si ètagliato i capelli alla mohicana,e li ha tinti di blu con la bomboletta spray.Telesforo se l'è fatta addosso;la Cleopatra,convinta di aver partorito Alien,si è buttata dal balcone;Erode si è mandato a male dal ridere.La ragazza,quando lo ha visto,è sparita all'orizzonte in una nuvola di polvere
MERCOLEDI'- Fan sfegatato dei "Meglio morti" Asmodeo ,in assenza dei suoi,ha pensato di sentire un po' di musica.
I vetri del paese non esistono più;i paesani sono sordi;Cesarone è finito sul campanile e adesso il record è suo.
GIOVEDI'- Asmodeo ha comprato tre bidoni di vernice nera e ha tinto la sua camera,poi ha buttato via il letto e lo ha sostituito con una bara presa a prestito dallo zio Geremia.
Telesforo,superstiziosissimo,dorme in caserma;la Cleopatra ha fatto esorcizzare casa;Erode dorme con un paletto di frassino sotto il materasso.
VENERDI'- Asmodeo si è fatto tatuare in nome in testa.
Erode ha detto al fratello che,già che c'era,poteva farsi tatuare sul corpo anche cognome,data di nascita,indirizzo,recapito telefonico e codice fiscale.
Asmodeo ha ha detto che lo farà quanto prima.
Per non levare dal mondo i figli Telesforo si è fatto chiudere in camera di sicurezza
SABATO- Asmodeo ha decorato la facciata di casa con un murales raffigurante Ireneo sul water (altezza tre metri).
Il Cornacchioni non lo ha levato dal mondo perchè è arrivato Cuccurullo.
DOMENICA-Asmodeo è stato spedito d'urgenza in Burundi.
E' passata una settimana.
La fotografa Scipionilla Orapronobis (una dei 56 nipoti dell'Ildebrando)di passaggio a S.Tobia ha immortalato il murales e con la foto ha vinto il primo premio del concordo fotografico "Il gusto dell'orrido".
Il vescovo Ildebrando ha tappezzato S.Tobia,Prato,Firenze e Pistoia di gigantografie della foto incriminata,con tanto di biografia del modello involontario.
Il barometro dell'umore di Ireneo segna uraganissimo.
Asmodeo,in società con lo zio Isaia, ha aperto uno studio di tatuatore in Burundi e fa soldi a palate e a tornare non ci pensa affatto.
Sperando continui,passo e chiudo

 

Tornare in alto

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

L'eresia catara (Pirandello)

Post n°1024 pubblicato il 20 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Bernardino Lamis, professore ordinario di storia delle religioni, socchiudendo gli occhi addogliati e, come soleva nelle piú gravi occasioni, prendendosi il capo inteschiato tra le gracili mani tremolanti che pareva avessero in punta, invece delle unghie, cinque rosee conchigliette lucenti, annunziò ai due soli alunni che seguivano con pertinace fedeltà il suo corso:

– Diremo, o signori, nella ventura lezione, dell'eresia catara.

Uno de' due studenti, il Ciotta – bruno ciociaretto di Guarcino, tozzo e solido – digrignò i denti con fiera gioja e si diede una violenta fregatina alle mani. L'altro, il pallido Vannìcoli, dai biondi capelli irti come fili di stoppia e dall'aria spirante, appuntì invece le labbra, rese piú dolente che mai lo sguardo dei chiari occhi languidi e stette col naso come in punto a annusar qualche odore sgradevole, per significare ch'era compreso della pena che al venerato maestro doveva certo costare la trattazione di quel tema, dopo quanto glien'aveva detto privatamente. (Perché il Vannìcoli credeva che il professor Lamis quand'egli e il Ciotta, finita la lezione, lo accompagnavano per un lungo tratto di via verso casa, si rivolgesse unicamente a lui, solo capace d'intenderlo.)
E difatti il Vannìcoli sapeva che da circa sei mesi era uscita in Germania (Halle a. S.) una mastodontica monografia di Hans von Grobler su l'Eresia Catara, messa dalla critica ai sette cieli, e che su lo stesso argomento, tre anni prima, Bernardino Lamis aveva scritto due poderosi volumi, di cui il von Grobler mostrava di non aver tenuto conto, se non solo una volta, e di passata, citando que' due volumi, in una breve nota; per dirne male.
Bernardino Lamis n'era rimasto ferito proprio nel cuore; e piú s'era addolorato e indignato della critica italiana che, elogiando anch'essa a occhi chiusi il libro tedesco, non aveva minimamente ricordato i due volumi anteriori di lui, né speso una parola per rilevare l'indegno trattamento usato dallo scrittore tedesco a uno scrittor paesano. Piú di due mesi aveva aspettato che qualcuno, almeno tra i suoi antichi scolari, si fosse mosso a difenderlo; poi, tuttochè – secondo il suo modo di vedere – non gli fosse parso ben fatto, s'era difeso da sè, notando in una lunga e minuziosa rassegna, condita di fine ironia, tutti gli errori piú o meno grossolani in cui il con Grobler era caduto, tutte le parti che costui s'era appropriate della sua opera senza farne menzione, e aveva infine raffermato con nuovi e inoppugnabili argomenti le proprie opinioni contro quelle discordanti dello storico tedesco.
Questa sua difesa, però, per la troppa lunghezza e per lo scarso interesse che avrebbe potuto destare nella maggioranza dei lettori, era stata rifiutata da due riviste; una terza se la teneva da piú d'un mese, e chi sa quanto tempo ancora se la sarebbe tenuta, a giudicare dalla risposta punto garbata che il Lamis, a una sua sollecitazione, aveva ricevuto dal direttore.
Sicché dunque davvero Bernardino Lamis aveva ragione, uscito dall'Università di sfogarsi quel giorno amaramente coi due suoi fedeli giovani che lo accompagnavano al solito verso caca. E parlava loro della spudorata ciarlataneria che dal campo della politica era passata a sgambettare in quello della letteratura prima, e ora, purtroppo anche nei sacri e inviolabili dominii della scienza; parlava della servilità vigliacca radicata profondamento nell'indole del popolo italiano, per cui è gemma preziosa qualunque cosa venga d'oltralpe o d'oltremare e pietra falsa e vile tutto ciò che si produce da noi; accennava infine agli argomenti piú forti contro il suo avversario, da svolgere nella ventura lezione. E il Ciotta, pregustando il piacere che gli sarebbe venuto dall'estro ironico e bilioso del professore, tornava a fregarsi le mani, mentre il Vannìcoli, afflitto, sospirava.

A un certo punto il professor Lamis tacque e prese un'aria astratta: segno, questo, per i due scolari, che il professore voleva esser lasciato solo.
Ogni volta, dopo la lezione, si faceva una giratina per sollievo giú per la piazza del Pantheon, poi su per quella della Minerva, attraversava Via dei Cestari e sboccava sul Corso Vittorio Emanuele. Giunto in prossimità di Piazza San Pantaleo, prendeva quell'aria astratta, perché solito – prima d'imboccare la Via del Governo Vecchio, ove abitava– d'entrare (furtivamente, secondo la sua intenzione) in una pasticceria, donde poco dopo usciva con un cartoccio in mano.
I due scolari sapevano che il professor Lamis non aveva da fare neppur le spese a un grillo, e non si potevano perciò capacitare della compera di quel cartoccio misterioso, tre volte la settimana.
Spinto dalla curiosità, il Ciotta era finanche entrato un giorno nella pasticceria a domandare che cosa il professore vi comperasse.

– Amaretti, schiumette e bocche di dama.

E per chi serviranno?
Il Vannìcoli diceva per i nipotini. Ma il Ciotta avrebbe messo le mani sul fuoco che servivano proprio per lui, per il professore stesso: perché una volta lo aveva sorpreso per via nel mentre che si cacciava una mano in tasca per trarne fuori una di quelle schiumette e doveva già averne un altra in bocca, di sicuro, la quale gli ave a impedito di rispondere a voce al saluto che lui gli aveva rivolto.

– Ebbene, e se mai, che c'è di male? Debolezze! gli aveva detto, seccato, il Vannìcoli, mentre da lontano seguiva con lo sguardo languido il vecchio professore, ti quale se n'andava Pian piano, molle molle, strusciando le scarpe.

Non solamente questo peccatuccio di gola, ma tante e tant'altre cose potevano essere perdonate a quell'uomo che, per la scienza, s'era ridotto con quelle spalle aggobbate che pareva gli volessero scivolare e fossero tenute su, penosamente, dal collo lungo, proteso come sotto un giogo. Tra il cappello e la nuca la calvizie del professor Lamis si scopriva come una mezza luna cuojacea; gli tremolava su la nuca una rada zazzeretta argentea, che gli accavallava di qua e di là gli orecchi e seguitava barba davanti – su le gote e sotto il mento – a collana.
Né il Ciotta né il Vannìcoli avrebbero mai supposto che in quel cartoccio Bernardino Lamis si portava a casa tutto il suo pasto giornaliero.
Due anni addietro, gli era piombata addosso da Napoli la famiglia d'un suo fratello, morto colà improvvisamente: la cognata, furia d'inferno, con sette figliuoli, il maggiore dei quali aveva appena undici anni. Notare che il professor Lamis non aveva voluto prender moglie per non esser distratto in alcun modo dagli studi. Quando, senz'alcun preavviso, s'era veduto innanzi quell'esercito strillante, accampato sul pianerottolo della scala, davanti la porta, a cavallo d'innumerevoli fagotti e fagottini, era rimasto allibito. Non potendo per la scala, aveva pensato per un momento di scappare buttandosi dalla finestra. Le quattro stanzette della sua modesta dimora erano state invase; la scoperta d'un giardinetto, unica e dolce cura dello zio, aveva suscitato un tripudio frenetico nei sette orfani sconsolati, come li chiamava la grassa cognata napoletana. In mese dopo, non c'era piú un filo d'erba in quel giardinetto. Il professor Lamis era diventato l'ombra di se stesso: s'aggirava per lo studio come uno che non stia piú in cervello, tenendosi pur nondimeno la testa tra le mani quasi per non farsela portar via anche materialmente da quegli strilli, da quei pianti, da quel pandemonio imperversante dalla mattina alla sera. Ed era durato un anno, per lui, questo supplizio, e chi sa quant'altro tempo ancora sarebbe durato, se un giorno non si fosse accorto che la cognata, non contenta dello stipendio che a ogni ventisette del mese egli le consegnava intero, ajutava dal giardinetto il maggiore dei figliuoli a inerpicarsi fino alla finestra dello studio, chiuso prudentemente a chiave, per fargli rubare i libri:

– Belli grossi, neh, Gennarie', belli grossi e nuovi!

Mezza la sua biblioteca era andata a finire per pochi soldi su i muricciuoli.
Indignato, su le furie, quel giorno stesso, Bernardino Lamis con sei ceste di libri superstiti e tre rustiche scansie, un gran crocefisso di cartone, una cassa di biancheria, tre seggiole, un ampio seggiolone di cuojo, la scrivania alta e un lavamano, se n'era andato ad abitare solo – in quelle due stanzette di via Governo Vecchio, dopo aver imposto alla cognata di non farsi vedere mai piú da lui.
Le mandava ora per mezzo d'un bidello dell'Università, puntualmente ogni mese, lo stipendio, di cui tratteneva soltanto lo stretto necessario per sé.
Non aveva voluto prendere neanche una serva a mezzo servizio, temendo che si mettesse d'accordo con la cognata. Del resto, non ne aveva bisogno. Non s'era portato nemmeno il letto: dormiva con uno scialletto su le spalle, avvoltolato in una coperta di lana, entro il seggiolone Non cucinava. Seguace a modo suo della teoria del Fletcher, si nutriva con poco, masticando molto. Votava quel famoso cartoccio nelle due ampie tasche dei calzoni, metà qua, metà là, e mentre studiava o scriveva, in piedi com'era solito, mangiucchiava o un amaretto o una schiumetta o una bocca di dama. Se aveva sete, acqua. Dopo un anno di quell'inferno, si sentiva ora in paradiso.
Ma era venuto il von Grobler con quel suo libraccio su l'Eresia Catara a guastargli le feste.

Quel giorno, appena rincasato, Bernardino Lamis si rimise al lavoro, febbrilmente.
Aveva innanzi a sè due giorni per finir di stendere quella lezione che gli stava tanto a cuore. Voleva che fosse formidabile. Ogni parola doveva essere una frecciata per quel tedescaccio von Grobler.
Le sue lezioni egli soleva scriverle dalla prima parola fino all'ultima, in fogli di carta protocollo, di minutissimo carattere. Poi, all'Università, le leggeva con voce lenta e grave, reclinando indietro il capo, increspando la fronte e stendendo le pàlpebre per poter vedere attraverso le lenti insellate su la punta del naso, dalle cui narici uscivano due cespuglietti di ispidi peli grigi liberamente cresciuti. I due fidi scolari avevano tutto il tempo di scrivere quasi sotto dettatura. Il Lamis non montava mai in cattedra: sedeva umilmente davanti al tavolino sotto. I banchi, nell'aula, erano disposti in quattro ordini, ad anfiteatro.
L'aula era buja, e il Ciotta e il Vannìcoli all'ultimo ordine, uno di qua, l'altro di là, ai due estremi, per aver luce dai due occhi ferrati che si aprivano in alto. Il professore non li vedeva mai durante la lezione: udiva soltanto il raspìo delle loro penne frettolose.
Là, in quell'aula, poiché nessuno s'era levato in sua difesa, lui si sarebbe vendicato della villania di quel tedescaccio, dettando una lezione memorabile.
Avrebbe prima esposto con succinta chiarezza l'origine, la ragione, l'essenza, l'importanza storica e le conseguenze dell'eresia catara, riassumendole dai suoi due volumi; si sarebbe poi lanciato nella parte polemica, avvalendosi dello studio critico che aveva già fatto sul libro del von Grobler. Padrone com'era della materia, e col lavoro già pronto, sotto mano, a una sola fatica sarebbe andato incontro: a quella di tenere a freno la penna. Con l'estro della bile, avrebbe scritto in due giorni, su quell'argomento, due altri volumi piú poderosi dei primi.
Doveva invece restringersi a una piana lettura di poco piú di un'ora: riempire cioè di quella sua minuta scrittura non piú di cinque o sei facciate di carta protocollo. Due le aveva già scritte. Le tre o quattro altre facciate dovevano servire per la parte polemica.
Prima d'accingervisi, volle rileggere la bozza del suo studio critico sul libro del von Grobler. La trasse fuori dal cassetto della scrivania, vi soffiò su per cacciar via la polvere, con le lenti già su la punta del naso, e andò a stendersi lungo lungo sul seggiolone.
A mano a mano, leggendo, se ne compiacque tanto, che per miracolo non si trovò ritto in piedi su quel seggiolone; e tutte, una dopo l'altra, in meno d'un'ora, s'era mangiato inavvertitamente le schiumette che dovevano servirgli per due giorni. Mortificato, trasse fuori la tasca vuota, per scuoterne la sfarinatura.
Si mise senz'altro a scrivere, con l'intenzione di riassumere per sommi capi quello studio critico. A poco a poco però, scrivendo, si lasciò vincere dalla tentazione d'incorporarlo tutto quanto di filo nella lezione, parendogli che nulla vi fosse di superfluo, né un punto né una virgola. Come rinunziare, infatti, a certe espressioni d'una arguzia così spontanea e di tanta efficacia? a certi argomenti così calzanti e decisivi? E altri e altri ancora gliene venivano, scrivendo, piú lucidi, piú convincenti, a cui non era del pari possibile rinunziare.


Quando fu alla mattina del terzo giorno, che doveva dettar la lezione, Bernardino Lamis si trovò davanti, sulla scrivania, ben quindici facciate fitte fitte, invece di sei.
Si smarrì.
Scrupolosissimo nel suo officio, soleva ogni anno, in principio, dettare il sommario di tutta la materia d'insegnamento che avrebbe svolto durante il corso, e a questo sommario si atteneva rigorosissimamente. Già aveva fatto, per quella malaugurata pubblicazione del libro del von Grobler, una prima concessione all'amor proprio offeso, entrando quell'anno a parlare quasi senza opportunità dell'eresia catara. Piú d'una lezione, dunque, non avrebbe potuto spenderci. Non voleva a nessun costo che si dicesse che per bizza o per sfogo il professor Lamis parlava fuor di proposito o piú del necessario su un argomento che non rientrava se non di lontano nella materia dell'annata.
Bisognava dunque, assolutamente, nelle poche ore che gli restavano, ridurre a otto, a nove facciate al massimo, le quindici che aveva scritte.
Questa riduzione gli costò un così intenso sforzo intellettuale, che non avvertì nemmeno alla grandine, ai lampi, ai tuoni d'un violentissimo uragano che s'era improvvisamente rovesciato su Roma. Quando fu su la soglia del portoncino di casa, col suo lungo rotoletto di carta sotto il braccio, pioveva a diluvio. Come fare? Mancavano appena dieci minuti all'ora fissata per la lezione. Rifece le scale, per munirsi d'ombrello, e s'avviò sotto quell'acqua, riparando alla meglio il rotoletto di carta, la sua « formidabile » lezione.
Giunse all'Università in uno stato compassionevole: zuppo da capo a piedi. Lasciò l'ombrello nella bacheca del portinajo; si scosse un po' la pioggia di dosso, pestando i piedi; s'asciugò la faccia e salì al loggiato.
L'aula – buja anche nei giorni sereni – pareva con quel tempo infernale una catacomba; ci si vedeva a mala pena. Non di meno, entrando, il professor Lamis, che non soleva mai alzare il capo, ebbe la consolazione d'intravedere in essa, così di sfuggita, un insolito affollamento, e ne lodò in cuor suo i due fidi scolari che evidentemente avevano sparso tra i compagni la voce del particolare impegno con cui il loro vecchio professore avrebbe svolto quella lezione che tanta pena e tanta fatica gli era costata e dove tanto tesoro di cognizioni era con sommo sforzo racchiuso e tanta arguzia imprigionata.
In preda a una viva emozione, posò il cappello e montò, quel giorno, insolitamente, in cattedra. Le gracili mani gli tremolavano talmente, che stentò non poco a inforcarsi le lenti sulla punta del naso. Nell'aula il silenzio era perfetto. E il professor Lamis, svolto il rotolo di carta, prese a leggere con voce alta e vibrante, di cui egli stesso restò meravigliato. A quali note sarebbe salito, allorché, finita la parte espositiva per cui non era acconcio quel tono di voce, si sarebbe lanciato nella polemica? Ma in quel momento il professor Lamis non era piú padrone di sè. Quasi morso dalle vipere del suo stile, sentiva di tratto in tratto le reni fènderglisi per lunghi brividi e alzava di punto in punto la voce e gestiva, gestiva. Il professor Bernardino Lamis, così rigido sempre, così contegnoso, quel giorno, gestiva! Troppa bile aveva accumulato in sei mesi, troppa indignazione gli avevano cagionato la servilità, il silenzio della critica italiana; e questo ora, ecco, era per lui il momento della rivincita! Tutti quei bravi giovani, che stavano ad ascoltarlo religiosamente, avrebbero parlato di questa sua lezione, avrebbero detto che egli era salito in cattedra quel giorno perché con maggior solennità partisse dall'Ateneo di Roma la sua sdegnosa risposta non al von Grobler soltanto, ma a tutta quanta la Germania.
Leggeva così da circa tre quarti d'ora, sempre piú acceso e vibrante, allorché lo studente Ciotta, che nel venire all'Università era stato sorpreso da un piú forte rovescio d'acqua e s'era riparato in un portone, s'affacciò quasi impaurito all'uscio dell'aula. Essendo in ritardo, aveva sperato che il professor Lamis con quel tempo da lupi non sarebbe venuto a far lezione. Giú, poi, nella bacheca del portinajo, aveva trovato un bigliettino del Vannìcoli che lo pregava di scusarlo presso l'amato professore perché « essendogli la sera avanti smucciato un piede nell'uscir di casa, aveva ruzzolato la scala, s'era slogato un braccio e non poteva perciò, con suo sommo dolore, assistere alla lezione ».

A chi parlava, dunque, con tanto fervore il professor Bernardino Lamis?
Zitto zitto, in punta di piedi, il Ciotta varcò la soglia dell'aula e volse in giro lo sguardo. Con gli occhi un po' abbagliati dalla luce di fuori, per quanto scarsa, intravide anche lui nell'aula numerosi studenti, e ne rimase stupito. Possibile? Si sforzò a guardar meglio.
Una ventina di soprabiti impermeabili, stesi qua e là a sgocciolare nella buja aula deserta, formavano quel giorno tutto l'uditorio del professor Bernardino Lamis
Il Ciotta li guardò, sbigottito, sentì gelarsi il sangue, vedendo il professore leggere così infervorato a quei soprabiti la sua lezione, e si ritrasse quasi con paura.
Intanto, terminata l'ora, dall'aula vicina usciva rumorosamente una frotta di studenti di legge, ch'erano forse i proprietarii di quei soprabiti.
Subito il Ciotta, che non poteva ancora riprender fiato dall'emozione, stese le braccia e si piantò davanti all'uscio per impedire il passo.

– Per carità, non entrate! C'è dentro il professor Lamis.

– E che fa? – domandarono quelli, meravigliati dell'aria stravolta del Ciotta.

Questi si pose un dito su la bocca, poi disse piano, con gli occhi sbarrati:

– Parla solo!

Scoppiò una clamorosa irrefrenabile risata.

Il Ciotta chiuse lesto lesto l'uscio dell'aula, scongiurando di nuovo:

– Zitti, per carità, zitti! Non gli date questa mortificazione, povero vecchio! Sta parlando dell'eresia catara!

Ma gli studenti, promettendo di far silenzio, vollero che l'uscio fosse riaperto. Pian piano, per godersi dalla soglia lo spettacolo di quei loro poveri soprabiti che ascoltavano immobili, sgocciolanti neri nell'ombra, la formidabile lezione del professor Bernardino Lamis.

– ... ma il manicheismo, o signori, il manicheismo, in fondo, che cosa è? Ditelo voi! Ora, se i primi Albigesi, a detta del nostro illustre storico tedesco, signor Hans von Grobler...

Inizio pagina

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Stanco d'amore (Hesse)

Post n°1023 pubblicato il 20 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nei rami s'addormenta cullando
il vento stanco. La mia mano
lascia un fiore rosso sangue
morire lacerato sotto un sole rovente.

Ho già visto fiorire e morire
molti fiori;
vengono e vanno gioie e dolori,
e custodirli nessuno può.

Anch'io ho sparso
nella vita il mio sangue;
non so però, se mi dispiace,
so solo, che sono stanco.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Libri dimenticati:La gloria

Post n°1022 pubblicato il 20 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Gran bel romanzo di Giuseppe Berto,l'ultimo,dedicato a Giuda Iscariota

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Frase del giorno

Post n°1021 pubblicato il 20 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Solo i coraggiosi possono amare,tutto il resto è coppia (Alberti)

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

Archivio messaggi

 
 << Ottobre 2011 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
          1 2
3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 21 22 23
24 25 26 27 28 29 30
31            
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 4
 

Ultime visite al Blog

giovirocSOCRATE85comagiusdott.marino.parodisgnudidavidamoreeva0012lutorrelliDUCEtipregotornacrescenzopinadiamond770cdilas0RosaDiMaggioSpinosamaurinofitnessAppaliumador
 

Ultimi commenti

Ciao, serena serata
Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
 
Ciao per passare le tue vacanze vi consigliamo Lampedusa...
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
 
Buon pomeriggio.Tiziana
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
 
i gatti sono proprio così.:)
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
 
questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963