Messaggi del 27/10/2011

Ti hanno dimenticata,io no!!!

Post n°1083 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

17 Dicembre 1968 Un Balordo entra per rubare in una stanza di una cascina nella zona di Bricco Barrano frazione di Villafranca d'Asti, vi trova inaspettatamente una ragazzina tredicenne, la rapisce ritenendo la famiglia molto più facoltosa di quanto fosse.
Si trattava di Maria Teresa Novara, di tredici anni, residente a Cantarana, ma che nel periodo scolastico per comodità si trasferiva presso gli zii.
Mentre gli inquirenti svolgevano indagini in modo fiacco (anche a causa del fatto che essendo lo zio un simpatizzante del Msi volevano a tutti i costi trovare una pista politica interna al partito.) Il Balordo che nel frattempo aveva portato la ragazzina in un altra cascina a Canale d'Alba in provincia di Cuneo, resosi conto che la famiglia non poteva pagare il grosso riscatto sperato, decise di monetizzare comunque la ragazza: A Canale d'Alba e dintorni, non erano pochi i facoltosi che non si facevano scrupoli ad avere rapporti sessuali con una tredicenne, senza curarsi dell'età e senza por caso al fatto se fosse libera o meno. Trascorsero otto mesi, il balordo, dopo aver tentato un furto a Torino, per sfuggire alle forze dell'ordine si gettò nel Po. Travolto dalla corrente annegò.
Intanto Maria Teresa, era chiusa in uno stanzino, semibuio con poca aria e senza cibo.
Mentre Con la solita solerzia, gli inquirenti aspettarono vari giorni prima di perquisire la casa del balordo, nessuno dei pedofili che avevano approfittato della ragazzina si diede pena di avvisare qualcuno che nella cascina era rinchiusa una persona, eppure, sarebbe stato facilissimo farlo, anche in modo anonimo, con una lettera, o tramite un prete. Ma loro con spietata crudeltà, preferirono tacere, sicuramente anche per evitare il rischio che la ragazzina sopravvivendo potesse riconoscerli e denunciarli, pur sapendo che Maria Teresa stava morendo prigioniera, cinicamente tacquero.
Maria Teresa trascorse quei giorni quasi sempre dormendo, finché l'inedia e la scarsità d'aria l'uccisero alcune ore prima che gli inquirenti scoprissero il suo corpo.
Dato che si era "prostituita" della sua atroce fine, non si fece un caso, Famiglia Cristiana trovò solo da moralizzare sul fatto che nello sgabuzzino furono trovate riviste pornografiche, indicandole come causa del degrado della fanciulla (dimenticandosi che era prigioniera e costretta.) Uno del posto alcuni anni dopo scrisse un libro, ma senza poter indicare i nomi, e sul caso scese l'oblio del tempo e dell'indifferenza.
I pedofili assassini la fecero franca, Nessuna giustizia potrà mai più raggiungerli.
Ma che sulla tomba di ciascuno di loro, : MALEDETTO! Scriva la mano di Dio.
Stefano Cattaneo.
Ps: Questo scritto, non è fine a sé stesso, ma ha lo scopo di indurre il sindaco di Canale a compiere un atto che costringerà gli innominabili ancora vivi, che l'hanno violentata a pagamento, a chinare il capo quando passeranno sotto la targa della via che porterà il suo nome. Ma purtroppo, nonostante le molteplici sollecitazioni ricevute da numerosi amici, il sindaco di Canale continua a fare muro di gomma.
Pertanto, invito tutti coloro che hanno letto la storia di scrivere a
sindaco@comune.canale.cn.it
Il Seguente Messaggio:
Stimatissimo Silvio Beoletto
Vorrei pregarla di dedicare una via una piazza od un istituto di Canale a Maria Teresa Novara.

 
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La sfera del ricordo

Post n°1082 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Ma dove va, Antonio, è tutto il giorno che va in giro con quel muso triste, avanti ed indietro senza sosta, senza meta ? -
- Lasciamolo andare, era molto legato alla zia Elena, sin da quando era molto piccolo, è stata come un'altra madre od una sorella per lui, l'ha sentita molto, la sua dipartita ... ed è la prima volta che "sente" la morte .-
- Speriamo che sia davvero così, io devo riprendere il lavoro non posso stargli dietro, vorrei stargli dietro, ma non posso, lo sai, devo consegnare quella panca per mercoledì, devo portare avanti il lavoro .-
La donna annuì.
Lo guardarono allontanarsi verso la periferia del paese, ove cominciava il vecchio bosco. Il ragazzo cercò un punto ove finalmente sedersi, era stanco, non già della camminata, ma stanco come se avesse fatto tanta strada, come se l'evento lo avesse costretto a percorrere tutta la propria vita, di corsa, in avanti, in fretta, per vederne la fine, per capire che cosa fosse veramente questa strana cosa chiamata morte.
Finalmente trovò un bel punto, completamente coperto di foglie, un giaciglio di foglie, piacevano tanto le foglie a sua zia, lo chiamava il suo tappeto del tempo, diceva che in tutti i suoi ricordi migliori c'erano le foglie, lei d'altronde non era mai andata oltre quel paesino, quella valle .
Non era pronto per quelle cose: chissà quanto ancora potevano dirsi, lui e sua zia, uno che stava iniziando la vita ed un'altra che la stava finendo.
Sua zia era signorina, non si era mai sposata, forse per questo, gli aveva voluto bene come ad un figlio.
Si distese, continuando a guardarle, ferme, con tutte le loro variazioni di colori: alla zia piaceva passeggiare in quel posto, ce l'aveva portato tante volte, insegnandogli quel che sapeva sulla natura e facendogli apprezzare anche un certo modo di vivere, lento, quieto, più a misura d'uomo.
Poteva rivederla, dentro di sé, quando faceva i dolci, o lavorava la lana. Immagini che, come quadri, decoravano le pareti del suo quotidiano in continuo divenire.
Ed ora la zia non c'era più. Se ne era andata per quella via che tutti prima o poi dobbiamo prendere, e lo aveva fatto com'era nel suo stile. Nel silenzio di una mattina.
Si strinse in se stesso, accovacciandosi, assumendo istintivamente quella che altrimenti si sarebbe chiamata una posizione fetale. Con il viso aderente al suolo, poteva vedere meglio le foglie.
Le foglie morte ...
Perché allora, lui non le sentiva così? Continuò a guardarle fintanto che gli si chiusero gli occhi, stanchi della tristezza del giorno, e si addormentò, o forse si rilassò solamente, perché continuava a vedere le sue foglie .
Pian piano, forse animate da un venticello, cominciavano a muoversi, a girargli intorno, a danzare quasi, intorno a lui.
Anche la zia pensava che danzassero, quando il vento le animava.
- Antonio ... -
Si desto' frastornato. Era sicuro di essere solo lì. Qualcuno lo aveva seguito? Chi lo chiamava?
Si asciugò gli occhi, c'erano tanti luccichii davanti a lui, ma che cos'erano?
- Antonio ... -
Dinanzi a sé, tra mille colori abbaglianti, una giovane figura femminile.
- Ciao, Antonio . -
- Io non ti conosco ... -
Era quasi impossibile guardarla, tanto luccicava.
- ... chi sei tu? -
Lei sorrise.
- È naturale che non mi riconosca .-
Lui scrollò le spalle. Proprio non capiva. Che cos'era quella figura, una Dea, una fata, ... lo spirito che faceva danzare le foglie?
- Volevo solo dirti che non devi rattristarti per me .-
- Per te? E perché mai dovrei rattristarmi per te? Nemmeno ti conosco .-
Abbassò lo sguardo, non riusciva proprio a guardare tutta quella luce. Gli occhi, poi, erano ancora pieni di lacrime, gonfi di pianto.
-Sono triste per la morte di una mia parente, mia zia Elena ... se n'è andata senza che abbia avuto il tempo di salutarla, senza che abbia avuto il tempo di dirle che le volevo bene, senza il tempo per ... -
La figura fatta di luce comprese che il dolore per il ragazzo era stato troppo grande, che non avrebbe capito quei discorsi che voleva fargli sulla vita dell'anima, sull'inesistenza della morte. Non era né il momento adatto, né il luogo.
Piangeva per qualcosa, che credeva perduto, e lo aveva davanti a sé in una nuova veste senza nemmeno riconoscerlo. Il dolore per lui era stato così grande che forse lo avrebbe caratterizzato negativamente tutta la vita. Doveva portare fuori di sé i pensieri, perché non gli facessero male, senza rinunciare ai propri ricordi.
Allora, formò una sfera di luce, al cui interno fece entrare delle foglie che aveva lì davanti; con la luce, ancora, prese i ricordi, del ragazzo e li portò dentro la sfera, in questo modo non li avrebbe persi.
Avrebbe, però, in questo modo, potuto vivere più sereno, senza soffrire, senza perdersi così il suo presente, fatto ancora di tante cose vitali. Essendo i ricordi del ragazzo, gli altri guardando all'interno della sfera avrebbero visto solo delle foglie morte, e l'avrebbero vista come una sua bizzarria od un suo gusto, e non già qualcosa di più importante.
Con i ricordi della persona anche il dolore della sua perdita, finì nella sfera.
La gioia del giovane era davvero grande, i ricordi, una volta fuori di sé, poteva vederli meglio, e non gli procuravano più fastidio, al contrario, gli facevano compagnia.
Si era liberato di un forte peso, senza rinunciare ad una cosa fondamentale.
- Ora devo andare, Antonio .-
- Ti rivedrò? -
- Forse! Coloro che rimangono fanciulli riescono a vederci ancora, per tutto il resto della loro vita, dipende più da te che da noi!-
- Ce ne sono tante come te? -
- Vuoi mettere un limite ... alla vita? -
- Non ti ho ancora ringraziato, per la sfera e per le foglie: sono bellissime !-
- Le rendi tu tali, con i tuoi ricordi .-
- Me la porto a casa, li porto con me questi ricordi!-
- Tuo padre e tua madre saranno contenti di rivederti, sono ore che aspettano che il tuo rientro a casa .-
- Oh, mamma e papà, hai ragione, scusami se scappo via, grazie per la sfera e le foglie, devo scappare ciaoooo! -
Lo vide andar via, saltellando, in quel modo curioso con cui corrono i ragazzi.
Adesso anche lei poteva uscire, dalla sfera dei ricordi (La Terra), per vivere finalmente la sua vita: nell'eternità dell'anima.

 

 

 
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L'usignolo del Sassolungo

Post n°1081 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta, ai piedi del Sassolungo, un magnifico castello abitato da una principessa di rara bellezza.
Oltre ad essere molto graziosa, la fanciulla aveva la straordinaria capacità di trasformarsi, a proprio piacere, in usignolo. Tale privilegio, però, sarebbe svanito con la morte di una persona misteriosa.
Spesso la principessa s’era domandata chi poteva essere questo sconosciuto, ma mai aveva trovato una risposta.
Un giorno, mentre la nobile donzella volteggiava nell’aria sopra la foresta di Vallenosa, notò un vecchio castello che pareva disabitato. Colta dalla curiosità vi si avvicinò cautamente e posatasi su un ramo di betulla si mise a cantare.
Di lì a poco, un possente cavaliere apparve alla finestra della torre attratto dall’incantevole melodia e rimase ad ammirarla fino al tramonto. Compiaciuta dell’interessamento del castellano, la principessa usignolo iniziò a dedicargli frequenti visite.
Ma com’erano tristi e malinconiche, però, le giornate del prode cavaliere quando il grazioso uccellino non l’allietava col suo canto. Non riusciva proprio a darsi pace. Così infine decise di andare nella foresta per trovare un amico salvàno e confidargli le sue pene.
Il salvàno gli rivelò che, in realtà, quell’usignolo era una principessa e che lui se ne era innamorato profondamente.
Il cavaliere, quanto mai confuso, fece ritorno al castello ed ecco riudire il dolce cinguettio. Colto dall’ardore, il castellano confessò il suo amore per la fanciulla, ma lei, spinta dalla paura, spiccò il volo e fuggì via.
Passarono molti giorni prima che la ragazza trovasse il coraggio di tornare alla rocca di Vallenosa e quando lo fece era ormai troppo tardi: il prode signore era morto di crepacuore e giaceva immobile al centro del cortile.
Da quel giorno la principessa mantenne le spoglie dell’usignolo, ed ancora oggi si può udire, nei pressi del Sassolungo, la sua incantevole melodia.

 
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Amore eterno

Post n°1080 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Gia’ da un’epoca ormai remota, il sole e la luna dominavano il giorno e la notte, cosi’ come tutti sanno.
Quello che pero’ molti non sanno e’ che i due astri, fin dal giorno in cui sono nati, si amavano follemente.
La natura, come spesso fa, aveva un po’ giocato e li aveva creati re e regina di due mondi diversi e separati, che mai avrebbero potuto coesistere.
Eppure anche dopo secoli, durante i quali non erano mai riusciti a stare insieme, il sole e la luna sapevano di amarsi ancora. Quante volte lui sorgendo aveva avuto la prova di mancarle, vedendo le sue lacrime su foglie e piante e lei comparendo nel cielo della sera, ancora pallida e trasparente, quante volte aveva visto lui tramontare arrossendo nel vederla arrivare.
Il dolore di non poter stare insieme, divento’ un giorno troppo forte e i due astri decisero che l’unico modo era incontrarsi sulla terra. Allora divennero una bellissima ragazza e uno splendido giovane e cominciarono a cercarsi.
Lui emanava allegria, era il classico tipo “solare” e tutti, quando lo incontravano, diventavano di buon umore e lui ne era felice. Pero’ si rese conto di riuscire a dare solo quello e la vita invece era fatta anche di altre emozioni, cosi’ la sua anima era per meta’ vuota.
Lei era perennemente malinconica e tutti si intenerivano e si affezionavano a lei, per la sua dolcezza. Purtroppo in lei non c’era neanche un minimo di allegria e la sua anima, per meta’ colma di struggevole tristezza, era per l’altra meta’ vuota.
Un giorno si incontrarono per caso e fu subito amore, un amore che avrebbe potuto essere eterno e lo era.
Troppi erano pero’ gli impegni di entrambi verso l’umanita’ ed effettivamente senza di loro la terra sarebbe andata a rotoli .Tornarono quindi in cielo, ma continuarono ad amarsi.
Lui continuo’ a riscaldarla durante le fredde notti con la sua luce e lei continuo’ a piangere rugiada per lui e, raramente, in quelle che tu chiami eclissi, si incontrano e si accarezzano, diventando, anche se solo per pochi istanti, una cosa sola.

 
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La Messa di quest'anno (Pirandello)

Post n°1079 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Debbo compiangere veramente la mia povera vecchia zia Velia di Cargiore per un gran cordoglio che le è toccato quest’anno e di cui si mostra inconsolabile, perché prevede che non le passerà più e le amareggerà orribilmente il pensiero, prima così dolce, della prossima morte, se il vescovo... se Monsignore non ci porta rimedio.
Monsignore, sì: perché il cordoglio di zia Velia, condiviso da tutti i fedeli di Cargiore, è cagionato dal nuovo curato venuto quest’anno .
Un uomo d’altri tempi, per compiangere una sua vecchia zia dall’anima candida, primitiva, afflitta da un dolore di questo genere, avrebbe trovato certamente parole semplici, espressioni tenere, qualche ragione alla buona, spontanea, a lei comprensibile. Ma io, uomo di oggi, a lei come a lei non ho saputo dir nulla, e ora per compiangerla m’immergo in certe riflessioni... Auff! Che tempo! Che afa!
Dicono che le grandi macchine moderne hanno nei loro lucidi, possenti, complicatissimi congegni una loro particolare bellezza. E sarà così. Dal canto mio, confesso che l’ammirazione per questi bellissimi mostri usciti con sì strane forme dal cervello dell’uomo è rattenuta in me da una specie d’angoscioso ribrezzo; e il rispetto che l’uomo m’ispira per queste sue solide magnifiche invenzioni è commisto a una certa diffidenza, non lieve, ed a profonda costernazione.
L’anima dell’inventore è là, nella macchina. Altrimenti essa non si moverebbe. Ci fu un momento, dunque, che l’inventore si sentì dentro, nel cervello, tutta questa deliziosa complicazione di ruote dentate e di stantuffi e di leve e di corregge, questo bel mostro d’acciajo, sbuffante, dal complesso movimento saldamente imprigionato in sé. Non c’è da costernarsi? Da diffidare? Avere, per esempio quella ruota là, nel cervello, che farebbe chi sa quanti chilometri all’ora, a lasciarla andare, e non impazzire; aver quello stantuffo là, che dà senza posa quei cupi tonfi strani, e non sentirsi scoppiare il cuore... Si celia? La tortura a cui l’uomo sottopose il cervello nell’inventare, nel concepire quella macchina ora è là, visibile, perpetuata in essa. E non c’è da soffrire, ammirandola? Forse i miei nervi son malati; ma io provo angoscia e ribrezzo.
Me ne incute però infinitamente di più un’altra macchinetta invisibile, che l’uomo da secoli e secoli porta in sé, non inventata propriamente da lui, ma dalla natura che ci vuol tanto bene. Essa comincia ad agire in noi, quando abbiamo raggiunto una certa età. Avremmo tutti dovuto, per la salute nostra, lasciarla irruginire, non muoverla, non toccarla mai; ma sì! certuni si son mostrati così orgogliosi, stimati Così felici di possederla, che si son mossi a perfezionarla con ogni cura, con zelo accanito, sicché ora essa è divenuta il nostro supplizio maggiore. Ma se Aristotile ci scrisse sopra perfino un libro, un grazioso trattato che si adotta ancora nelle scuole, perché i fanciulli imparino presto e bene a baloccarcisi...
È una specie di pompa a filtro, che mette in comunicazione il cervello col cuore; e la chiamano Logica. Il cervello pompa con essa i sentimenti del cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido; si refrigera, si purifica, si idealizza. Un povero sentimento, destato da un caso particolare da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta, diventa idea astratta, generale, e che ne segue? Ne segue che l’uomo non deve soltanto soffrire di quel caso particolare, di quella contingenza passeggera; ma deve anche attossicarsi la vita con l’estratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica.
E molti disgraziati credono tuttavia di guarire così di tutti i malanni che ci procura la vita, e pompano e filtrano, pompano e filtrano finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno stipetto pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta nera un teschio e due stinchi in croce, con la leggenda: Veleno.

*****

Ho avuto la buona ventura d’imbattermi in uno di questi tali, durante il viaggio da Roma a Cargiore.
Era un uomo su i sessant’anni, smilzo, altissimo di statura, ma tutto gambe. Sedeva su la schiena con quelle gambe sperticate, magre a cavalcioni e attorcigliate l’una sull’altra, la testa piccolissima affondata nel petto cavo. Gli spiccavano stranamente nel volto squallido, giallognolo, malaticcio, gli occhi neri, acuti, d’una vivacità straordinaria.
Costui, non avendo più nulla da pompare e da filtrare in sé pompava e filtrava dal cuore altrui, vorace come un vampiro, con quella sua macchinetta micidiale. Mi vide afflitto durante il viaggio e suppose ch’io fossi così perché mi toccava a passare in treno la notte di Natale. Schiuse le labbra a un dolcissimo sorriso e disse:

- Domani, Natale, eh?... Sciocchezze! Già è provato scientificamente che noi ci ostiniamo in un grossolano anacronismo. Ho letto nei giornali i calcoli di quell’astronomo... come si chiama? non ricordo più il nome... sì, i calcoli sul ritorno periodico della cometa che videro i famosi Magi? Gesù di Nazareth, insomma, non nacque certamente in questo giorno, né 1904 anni fa. Questo è positivo. E poi, via! a questi lumi, dopo tanti secoli...

E seguitò per un pezzo, indugiandosi nella consolantissima dimostrazione che il giorno di Natale è alla fin fine un giorno come tutti gli altri, né più né meno.
Ebbi l’ingenuità di fargli osservare che la precisione della data importava poco veramente, non trattandosi di una dissertazione storica, ma di una festa, ormai più familiare, in fondo, che religiosa. Il venticinque di dicembre non era dunque un giorno come tutti gli altri, se per tanta gente rappresentava il caro e mesto ricordo d’una gioia lontana o la promessa d’una gioia ventura.

- Che passerà! - s’affrettò a pompar colui, storcigliando le gambe e attorcigliandosele di nuovo, inversamente. - Ricordi di gioia? Promesse di gioia? Ah, signor mio! L’afflizione del ieri e la delusione di domani! Ma perché? Ma meglio niente!

Eh sì, difatti era felice, lui, con quella faccia là, con quel niente nel cuore e con tutti quei barattolini di veleno nella cassetta del cranio.
Per fortuna, mi lasciò presto in pace. Ma non mi aspettavo di trovare il lutto a Cargiore, a causa del nuovo curato, che - a quanto ho potuto arguire - dev’essere un messer tale da fare il pajo con questo mio compagno di viaggio. Un uomo terribilmente logico.
Per me, debbo dirlo, è una gran pena ritornare a Cargiore, dove di tutta la mia famiglia non trovo ormai che la zia Velia. Ci vado per lei, povera vecchina! Ma ella non basta, ahimè, a riempire il vuoto ch’io sento in quella mia casa antica. E lei lo sa, poveretta, e ogni anno, per Natale, si fa in quattro per accogliermi con la massima festa, mi prepara i cibi tradizionali della nostra famiglia, mi vessa, quasi, di cure, nei tre giorni che passo con lei.
Quest’anno, trattenuto dagli affari, non son potuto partire all’antivigilia per assistere colla mia cara vecchietta alla messa di mezzanotte e far quindi il cenone con lei e la famiglia Prever, da tanti anni amica di casa nostra.
Sono arrivato la mattina del venticinque, e ho trovato la povera zia Velia in lagrime e desolata.
Credetti dapprima che fossi io la cagione di quelle lagrime e volli scusarmi del ritardo con cui arrivavo; ma zia Velia m’interruppe subito, angosciata:

- No, sai? No! Anzi hai fatto bene a non venire... È finita la festa! Non se ne fa più... È finito tutto! Come se Nostro Signore non fosse nato tant’anni come oggi... Nessuno deve far festa... Di là, dice, di là! Niente capponi, niente pan giallo... niente di niente... Non t’ho preparato nulla, sai? figliuolo mio. Dopo, dice... alla nostra morte... di là!

- Chi lo dice? - esclamai io, stordito e costernato, temendo che la mia povera vecchina fosse già andata un po’ via col cervello.

- Lui, don Grotti.. - mi rispose, tra due singulti.

- Il nuovo curato?

- Sì. Ah, Signore Iddio!

E scoppiò in un più dirotto pianto, affondando il volto nel fazzoletto.
Quando si fu sfogata così alquanto, prese a narrarmi le belle prodezze di questo don Grotti, niente capponi, niente pan giallo... niente di niente.
Appena giunto a Cargiore, sei mesi or sono, don Venanzio Grotti, savoiardo, cominciò a spogliar la cura di tutte le «delicatezze» che le fedeli parrocchiane avevano offerto in dono al vecchio curato defunto - sant’anima. Via tende, via cortine trapunte, via dal letto parato a padiglione, via tappetini di lana, via candelabri, via tutto!
È rimasto, dice zia Velia, con un letticciuolo, un tavolino, una cassapanca e tre seggiole impagliate. E fece seccare e poi strappare tutte le piante del giardinetto della cura, allevate e custodite con tanto amore dal vecchio don Anselmo Lais. E quindi, non contento ancora, si mise a spogliar la chiesa.

E il denaro?

- In limosine...

Sì, ma spogliar la Madonna degli ori antichi, preziosi, toglier le candele a gli altari, le frange ai paramenti sacri, il merletto ai mensali, le brusche d’oro alle pianete e ai manipoli... Una stalla, una stalla: ha ridotto la chiesa una stalla!

- Perché in una stalla nacque nostro Signore Gesù Cristo, hai capito? E in una stalla davvero l’ha fatto nascere, iersera! S’è messa la pianeta più brutta; pareva uno straccione innanzi a quel povero altare senza luminaria, con quella tonaca inverdita che gli lascia scoperti, con licenza parlando, i fusoli delle gambe e con quelle scarpacce da contadini su la predella nuda, senza uno straccio di tappeto... Oh santo nome di Dio! E non è una profanazione codesta? Trattar così il Bambino Gesù? il nostro Redentore? E se sentissi, che prediche! Dice che Lui, Gesù vuole così; che volle nascere Lui, apposta, in una stalla... E magari sarà vero! Ma dobbiamo per questo farlo nascere anche noi in una stalla? Ti par giusto, Martino mio, ti par giusto? E ci ha proibito di fare il cenone, «di far carnevale», come lui dice; ci ha ingiunto di far penitenza anche oggi, perché siamo tutti ridivenuti pagani. Penitenza! penitenza! Questa, dice, sarà la più bella festa per Gesù Bambino! - E tu hai obbedito? - le domandai, indignato.

- Per forza! - esclamò zia Velia, giungendo le mani. - Se è il nostro pastore!

Mi nacque una vivissima curiosità di conoscere questo terribile prete, che cruciava così crudelmente i suoi fedeli.

Ma, per quanto, ivi a poco, girassi dall’uno all’altro ceppo di case tra i prati e le acque scorrenti del mio villaggetto lassù tra le prealpi, non mi venne fatto d’incontrarlo. Mi parve però di veder l’anima sua in tutto quello squallore, in tutta quella desolazione invernale. Tra i borri e per le zane mi parve che l’acqua si lagnasse di lui. E non un suono di festa in tutte quelle misere case!
La cupa logica del prete aveva fatto il silenzio, aveva assiderato il villaggio.
Ah, chi sa quante povere vecchie, intanto, in quelle case, piangevano come zia Velia e pensavano che la casa del Signore, almeno quella, se la loro è così squallida e nuda, la casa del Signore dev’essere bella e ricca e luminosa; che la Madonna, almeno lei, se gli abiti loro son così logori e rozzi, la Madonna deve avere un magnifico manto di seta sopraffina a stelle d’oro e ai polsi e al collo e agli orecchi gemme preziose; che se di ferro sono i loro dolori, di ferro gli attrezzi delle loro aspre fatiche, d’argento schietto dev’essere almeno lo spadino che passa il cuore dell’Addolorata, d’argento la corona di spine, d’argento i chiodi del divino Crocifisso; pensavano che se anche la fede doveva così cruciarle e opprimerle, se anche in essa non dovevano più trovar conforto, una parola di pace e d’amore, la loro esistenza, già per sé così triste e così amara, sarebbe divenuta davvero insopportabile.
Ma io son sicuro che il vescovo ci porterà rimedio e presto. Coraggio, zia Velia! Coraggio, mio villaggetto natale! Questo prete don Grotti è troppo logico e non può aver fortuna, segue troppo alla lettera l’insegnamento di Cristo. Pompa e filtra troppo. Niente capponi, niente pan giallo... niente di niente. Ma non intende che se Cristo fu logico, quando, per togliere a Dio la responsabilità del male, spostò la finalità suprema dalla terra al cielo, più logico di Cristo fu poi il Cattolicesimo, il quale si avvide bene che gli uomini non potevano per un premio non ben sicuro di là, oltre la vita, durare a lungo nell’amara e dura rassegnazione e nel disprezzo dei beni di quaggiù e volle la pompa, volle le feste... e tant’altre cose volle e permise.
Via, non vorrà essere Monsignore buon cattolico?

 
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Che combina,sor priore?!

Post n°1078 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Da quando vivo qui ne ho viste tante,lettori miei,ma quanto ha fatto Ireneo Cornacchioni supera ogni immaginanzione!
Tutto è cominciato quando l'ex compagno di seminario del pretone,Eufrosino Scodelloni (vedi Ireneo al giubileo) ha convinto il Cornacchioni a farsi una bella mangiata nella nuova trattoria di Firenze "Da Cecco porco" e i due hanno finito con l'ubriacarsi.
Il Cornacchioni,dimentico dell'abito talare,è zompato su un tavolo lanciandosi in uno sfrenato ballo cosacco,mentre lo Scodelloni distruggeva sistematicamente piatti e bicchieri cantando "Oci ciornie" (è stonato come non so che).
Ireneo,poi,ha abbrancato la prima donna che ha trovato (nel nostro caso la contessa Marianastasia Strascicotti,nostra vecchissima conoscenza)e ha cominciato a farle ballare un valzer sempre più vorticoso finchè la poverina non è finita a sedere sui fornelli accesi della cucina.
Lui e il suo degno compare sono poi andati via senza pagare il conto,lasciando dietro di loro rovina e distruzione.
Arrivati in Piazza del Duomo,hanno avuto la meravigliosa idea di mettersi a imitare i Blues Brothers quando cantano "Everybody needs somebody"
Dato che erano decisamente bravi,ben presto intorno a loro si è raccolto un pubblico plaudente e hanno pure guadagnato 200 euro.
Dato che Piazza Signoria non era lontana,lo Scodelloni gli ha proposto un bagno notturno nella fontana del Biancone.
E come si fa detto bagno,se non nudi bruchi?
Vigili urbani e poliziotti hanno avuto il loro bel da fare per convincerli ad uscire.
Una volta in commissariato,i due si sono esibiti in un medley delle più note canzonacce da osteria,finchè Dio volendo l'alcool non ha avuto ragione di loro e non si sono addormentati.
E' passata una settimana.
La trattoria ha chiuso.
La Strascicotti è di nuovo nella clinica Luminaris.
Lo Scodelloni è stato trasferito a Tukambakabalo,mentre Ireneo è ai domicliari in canonica.
Quando ha ricevuto il conto dei danni è caduto in stato catatonico.
Stretta la foglia,larga la via dite la vostra che ho detto la mia.




 
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Preghiera (Ungaretti)

Post n°1077 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida e attonita sfera

Quando il mio peso mi sarà leggero

Il naufragio concedimi Signore
di quel giovane giorno al primo grido.

 
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Libri dimenticati:Winkie

Post n°1076 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

La surreale vicenda di un orsacchiotto di pezza arrestato e processato per terrorismo.
E' un libro tragicomico,ironico,a volte anche toccante,che lo scrittore Clifford Chase ha voluto dedicare al suo giocattolo preferito

 
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Frase del giorno

Post n°1075 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Il tempo è un grande maestro,ma sfortunatamente uccide tutti i suoi studenti (Berlioz)

 
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