Messaggi del 11/11/2011

Lo specchio che non voleva capire

Post n°1182 pubblicato il 11 Novembre 2011 da odette.teresa1958

La luce bianca della luna inondava la notte nera. Illuminava il silenzio che si accompagnava al buio. Solo i rumori della natura erano udibili.
Nella baita solitaria e vuota, uno specchio raccoglieva le immobili immagini che lo circondavano. Era mercoledì ed, essendo la casa disabitata durante la settimana, l’unica cosa che quello specchio poteva riflettere erano oggetti.
“Che solitudine” pensava lo specchio……già perché oltre che le immagini, lui rifletteva anche nella sua mente. “Che noia”, continuava tra sé e sé.
Era uno specchio ambizioso poiché nonostante fosse un oggetto, a furia di stare con gli esseri umani, quando rimaneva solo con gli altri suoi simili, non si sentiva a posto con se stesso. Forse cominciava a sentirsi un po’ umano anche lui.
“Non vedo l’ora che arrivi sabato” continuava “quando Alice si rispecchierà dentro di me e sorriderà guardandosi….il merito in fondo sarà mio! Poi Andrea guarderà, con tutta la curiosità dei suoi due anni, la sua immagine riflessa chiedendosi: “ ma sono io?” E io sarò l’artefice della nascita di questa sua consapevolezza!”
Fu con questi pensieri che quello specchio si addormentò e non si accorse che continuo’ a rispecchiare il mondo intorno a sé anche una volta addormentato, oltre che i suoi sogni.
Si svegliò nel cuore della notte. C’era una luce abbagliante che disturbava il suo sonno. Era la luna, piena e luminosissima.
Volse lo sguardo fuori dalla finestra e nell’increspato luccichio del laghetto adiacente alla casa, vide una luna anche sotto la superficie dell’acqua.
“Come si permette, quell’insolente di un lago!! Riflettere le immagini è una mia esclusiva, sono nato per questo, io! E poi, rispecchiare la luna…..quale cosa inutile e zuccherosa. Se solo questi principianti imparassero da chi di dovere cosa veramente conta in questa attività…..”
Fu sopraffatto da questi pensieri ma poi concluse che, in fondo, gli uomini andavano da lui ad ammirare se stessi. Poi lui era così bello , nella sua cornice di legno, da essere tenuto in casa, come un cimelio e non lasciato al freddo in mezzo alla natura.
I giorni passarono e lo specchio si convinse dell’inutilità di rispecchiare la luna. Certo a lui non era mai capitato e, come uno stupido, per un attimo aveva anche invidiato il laghetto che ci era riuscito. Adesso però era tornato in sé.
Passarono anche le settimane e arrivò un giorno in cui, Alice e il fratellino, giocando con la propria immagine nello specchio si accorsero che essa non c’era più.
Che delusione! Nessuna immagine appariva sulla superficie…..
“Papà…papà?” gridò la bambina. E il papà arrivò e neanche la sua immagine venne riflessa.
“ Ma come è possibile?” si chiedeva l’uomo.
Lo specchio era terrorizzato. Lui li vedeva i suoi amici, ma loro non si vedevano più dentro di lui e, in fondo, non vedevano più lui.
Si girò verso la finestra e una lacrima, che scorreva ormai su una superficie buia e inutile, scivolò fino a terra.
Il lago, in quel momento stava rispecchiando una splendida e gialla luna, che riempiva di bianche stelline lo specchio d’acqua, che, come il coperchio di un magico scrigno, custodiva sotto la superficie, un’ondeggiante seconda luna. In quella dimensione impalpabile era come sprofondata in un regno di poesia.
Anche lo specchio si commosse di fronte a tutto questo e quando vide due innamorati che osservando la luna si rispecchiarono a loro volta nel lago, capì………………
Capì che forse, con gli anni, si era inaridito, capì che rispecchiando solo ciò che aveva di fronte, chissà quante poesie si era perso, quante melodie non aveva ascoltato e quanti sogni non aveva fatto. Capì queste e tante altre cose ma ormai era tardi.
Il giorno dopo venne depositato fuori dalla casa, in mezzo ai rifiuti. In fondo, a cosa serve uno specchio che non rispecchia più.
Passò la giornata fuori dalla casa, a guardare il cielo vuoto e fermo fino a che sopraggiunse la notte. Una miriade di stelle riempirono la volta celeste e quando la luna, tonda e bianca, fece la sua comparsa, la superficie dello specchio si illuminò e per la prima volta si rese conto che guardare il cielo non era poi così inutile e noioso. Pianse, questa volta lacrime diverse, di gioia.
La mattina successiva i suoi amici umani, arrivarono per smaltire quegli inutili rifiuti accumulati vicino alla casa ma quando videro nuovamente la propria immagine nello specchio, si resero conto che non era morto, ma che anzi, nel riflesso, c’era una luce in più che non lo avrebbe mai più abbandonato……..la luce dei sogni.

 
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Lo scoiattolo gentile

Post n°1181 pubblicato il 11 Novembre 2011 da odette.teresa1958

In un bosco viveva una famiglia di scoiattoli, padre, madre e tre figli. Per l’inverno che stava per arrivare i genitori avevano costruito un nido in un tronco cavo d’albero; esso serviva a ripararsi dal freddo, in attesa della primavera.
Un giorno la simpatica famigliola era andata a procurarsi il cibo sugli alberi sui cui rami tutti quanti si erano divertiti a saltare e a rimanere sospesi per la coda, facendo l’altalena. Al ritorno però trovarono una sgradita sorpresa: una volpe si era insinuata nei pressi del loro nido e se ne stava beatamente seduta guardandovi dentro.
Il padre, appena la vide, avvertì moglie e figli di tenersi lontani e poi cautamente si avvicinò. Dopodiché prendendo il coraggio a due mani, esclamò forte:
“Via di là, quello è il nostro nido!”.
La volpe abbozzò un sorriso ironico e poi rispose:
“Perché? Qualcuno mi vieta di stare vicino a un albero? Mi sembra che il bosco sia di tutti”.
Lo scoiattolo inviperito, disse ancora:
“Ma quello è il nostro nido. Te l’ho già detto, volpe malvagia, vattene! E che il diavolo ti porti con sè all’inferno”.
La volpe, che si divertiva a tenerlo sulle spine, per tutta risposta, stavolta non lo guardò neppure e anzi cominciò a lisciarsi con la lingua la sua bella coda in segno di dispetto e indifferenza, non accennando affatto ad andarsene.
La moglie dello scoiattolo si avvicinò al marito e gli disse: “Lascia fare a me”.
Si rivolse alla volpe, dicendole stizzita: “Ma chi pensi di essere? Non riuscirai a impadronirti della nostra casa; va’ piuttosto a cibarti di topi di campagna, sono quelli i roditori che devi cercare. Lasciaci in pace, brutta strega!”.
La volpe allora si volse elegantemente verso la mamma scoiattolo e poi esclamò:
“Mi è appena venuta un’idea. Prenderò questo vostro nido come tana per il mio letargo invernale”.
Dunque una cosa era chiara: la volpe proprio non voleva saperne di abbandonare la zona. Avesse fatto o no del nido la sua tana, certamente non avrebbe permesso alla famiglia degli scoiattoli di entrarci.
A questo punto gli scoiattoli più piccoli cominciarono a tirarle sassolini, ma essa si divertiva semplicemente a schivarli. Allora si fece avanti il figlio maggiore della famigliola e, rivolto alla volpe, le parlò così:
“Signora volpe, noi siamo scoiattoli e lei sa che siamo abituati a passare l’inverno negli alberi, dove ci costruiamo la casetta. Sia buona e ce la lasci, altrimenti non sapremmo proprio dove andare. Lei potrà trovare una tana più in là. Io le auguro di vivere a lungo e che nessun cacciatore mai le spari. Anzi, venga a trovarci con l’arrivo della bella stagione e noi le offriremo frutta e noccioline, per ringraziarla di aver ascoltato le nostre preghiere”.
La volpe prima lo guardò imperiosa, poi mite disse:
“Tu sei stato gentile e questo atteggiamento merita considerazione. Me ne vado per te, giovane scoiattolo. In primavera passerò a trovarti, perché tutti ci considerano avide e astute e ci aggrediscono, come ha fatto la tua famiglia; ma tu sei stato buono e hai dimostrato una grande sensibilità. Arrivederci e buon inverno!”.
E così dicendo, corse via.

Morale: A volte se usassimo una parola gentile, riusciremmo ad ottenere di più dagli altri.

 

 
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Donna Dindia

Post n°1180 pubblicato il 11 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Il sole irradiava gli ultimi porpurei raggi attraverso le finestre del grande salone e il giovane cavaliere stava conversando, seduto al lungo tavolo, con donna Dindia.
Egli s'era spinto fino alla selva Lamarida in cerca del gioiello "Raiètta" per assecondare i capricci della sua futura sposa, la bellissima castellana di Badia.
Udite queste parole, la dama abbozzò un sottile sorriso di tenerezza e l'ammonì:
"Sì il gioiello di cui parli si trova proprio nella grotta ai piedi del castello, ma a sorvegliarlo c'è un ferocissimo drago. Lo stesso drago che mi tiene prigioniera e che, finora, nessuno è mai riuscito a sconfiggere."
Leggendo poi la grande curiosità che illuminava gli occhi del giovane forestiero, l'affascinante Dindia prese a narrare dello sventurato legame che la univa alla Reiètta. Tale gioiello era il dono di un malvagio stregone che voleva ad ogni costo prenderla in sposa. Punto però nell'orgoglio dai suoi sdegnosi rifiuti, il mago l'aveva rapita e rinchiusa in questo castello.
L'incredibile racconto animò il cuore del giovane condottiero che, giunte le prime luci del giorno, si avventurò fino alla grotta deciso a liberare la nobile prigioniera e donare all'amata il fantastico gioiello.
Il duello divampò ben presto in un furibondo scambio di colpi finché, all'improvviso, la possente spada del cavaliere trafisse il drago da parte a parte.
Donna Dindia era finalmente libera, ma quando il giovane uscì trionfante dalla caverna, cadde ai suoi piedi stravolto dalle mortali ferite.
In quello stesso momento, un urlo di dolore echeggiò nell'aria e una fanciulla si gettò sul corpo esamine: era la castellana di Badia venuta in cerca del suo amato.
Per lungo tempo le due dame si fissarono silenziosamente negli occhi, poi donna Dindia raccolse il corpo senza vita del paladino, lo adagiò sul suo cavallo bianco e scomparve nella foresta.

leggenda della Val Badia

 

 

 
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Personaggio (Pirandello)

Post n°1179 pubblicato il 11 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Oggi, udienza.
Ricevo dalle ore 9 alle ore 12, nel mio studio, i signori personaggi delle mie future novelle.

Certi tipi!

Non so perchè tutti i malcontenti della vita tutti i traditi dalla sorte, i gabbati, i disillusi i mezzi matti debbano venire proprio da me. Se li trattassi bene, capirei. Ma li tratto spesso a modo di cani; e sanno che non sono di facile contentatura, che sono crudelmente curioso, che non mi lascio ingannare dalle apparenze né abbindolare dalle chiacchiere. Perdio, da certuni pretendo finanche prove, testimonianze e documenti. Eppure...
Ma essi hanno tutti o credono d’avere (che è lo stesso) una loro particolar miseria da far conoscere, e vengono da me a mendicare con petulanza voce e vita.

- A qual pro’? - io dico loro. - Siamo già in troppi qua, in questo mondaccio vero, a reclamare il diritto alla vita, cari miei: a una vita che forse potrebbe esser facile (vana com’è e stupidissima), ove noi con zelo accanito non ce la rendessimo sempre più difficile di giorno in giorno, complicandola maledettamente (e forse appunto per nascondere ai nostri occhi stessi la sua stupida e terribile vanità) con invenzioni e scoperte peregrine, che pure hanno la pretesa di rendercela più facile e più comoda! Voi avete la fortuna, signori miei, d’esser ombre vane. Perchè volete assumer vita anche voi, a mie spese? E che vita poi? Da poveri inquilini d’un mondo più vano; mondaccio di carta, nel quale, vi assicuro, non c’è proprio sugo ad abitare. Guardate: tutto, in questo mondo di carta, è combinato, congegnato, adattato ai fini che lo scrittore, piccolo Padreterno, si propone. Mai nessuno di quei tanti ostacoli improvvisi che, nella realtà, contrariano graziosamente e limitano e deformano i caratteri degli individui e la vita. La natura senza ordine almeno apparente, irta (beata lei!) di contraddizioni, è lontanissima - credetelo - da questi minuscoli mondi artificiali, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. Vita concentrata, vita semplificata, senza realtà vera. Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere non si stagliano torse su un fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni? Ebbene, gli scrittori non se n’avvalgono, come se queste vicende. questi particolari non abbiano valore e sieno inutili. L’oro, in natura, non si trova frammisto alla terra? Ebbene, gli scrittori buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impressi. Ma le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita insomma, così varia e complessa, non contraddicono poi aspramente tutte queste semplificazioni ideali e artificiose? non costringono ad azioni, non ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori? E l’impreveduto che è nella vita? e l’abisso che è nelle anime? Perdio, non mi sento io guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un’anima diversa da quella che normalmente mi riconosco? E quante occasioni imprevedute, imprevedibili occorrono nella vita, ganci improvvisi che arraffano le anime in un momento fugace, di grettezza o di generosità, in un momento nobile o vergognoso, e le tengon poi sospese o sull’altare o alla gogna per l’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quel momento solo, d’ebbrezza passeggera o d’incosciente abbandono?... L’arte, signori miei, ha l’ufficio di rendere immobili le anime, di fissar la vita in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo immutabile. Ma che tortura! E la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione continua in cui le anime si trovano? -

Così parlo ai miei signori personaggi. Ma sì! Come se parlassi al muro.
E allora, per levarmeli di torno, per sfuggire al loro muto assedio opprimente, mi sobbarco a dar loro ascolto.
Ah che canaglia! dopo che io ho dato loro il mio sangue, la mia vita, e ho sentito come miei i loro dolori, le loro sventure, - sissignori! - appena usciti dal mio studio, vanno dicendo per il mondo che io sono uno scrittore beffardo, che invece di far piangere la gente su le loro miserie la faccio ridere, ecc. ecc.
Non possono soffrire, soprattutto, la descrizione minuta che io faccio di certi loro difettucci fisici o morali. Vorrebbero essere tutti beni, i miei signori personaggi, e moralmente inammendabili. Miseri sì, ma beni. Vedete un po’!

Veniamo all’udienza.

Fa da usciere una mia servetta, la quale, quantunque vesta sempre di nero e legga - quando può - libri di filosofia (tutti i gusti son gusti!), ride spesso a scatti come una pazzerella. Oh, certe risate che paiono capriole di moneHaccio innanzi ape fanfare. Per il caso che qualcuno volesse saperlo. la mia servetta si chiama Fantasia.
Ho il sospetto che, per farmi stizza. vada lei furtivamente a cercare, a scovare tutti questi bei messeri che si presentano alle mie udienze.
E un’altra cosa. Le ho detto e ripetuto mine volte che me li introduca nego studio a uno a uno. Nossignori! Tutti insieme, a frotta; cosicché io non so a chi debba prima dare ascolto.
Oggi, per esempio, m’è saltato nello studio un ragazzotto a cavallo d’un bastone, che s’è messo a fare il diavolo a quattro, ridendo, correndo, gridando, rovesciandomi tutte le seggiole.

- Fantasia! Fantasia! - gridò.

Entra una vecchia bonne inglese, magra, asciutta, legnosa, vestita monacalmente di grigio, con gli occhiali d’oro a staffa e una cuffietta bianca su i capelli stopposi, e si mette a correre appresso al ragazzotto che le sguiscia dalle mani e non si lascia ghermire.
Intanto Fantasia mi susurra in un orecchio che quel ragazzo così vispo e allegro ha una storia ben dolorosa, che quel bastone su cui va a cavallo è dell’amante della madre, e non so che altro mi dica.

- Va bene! - le grido io. - Ma per adesso caccialo via! Come vuoi che badi a gli altri con lui qua dentro? E chi è quel vecchiaccio là, cieco, con tutta quella trucia addosso e la corona del rosario in mano? Caccialo via anche lui! e caccia anche via quelle tre ragazze allegre che gli stanno attorno.

- Zitto, per carità! Sono le figlie...

- Ebbene?

Egli non sa; non vede. È un sant’uomo; e le figlie... lì, in casa di lui (che casa, se vedessi!), mentr’egli recita il rosario...
Non voglio saperne! Via! via! Storie vecchie... Non ho tempo da perdere con costoro. Lasciami dare ascolto a questo signore qua, che almeno è ben vestito.
Il signore ben vestito - (per modo dl dire: ha un certo abito lungo, aperto davanti, a cui non si può dire che il sarto si sia dimenticato d’attaccare le falde) - mi sorride, s’inchina, si passa lievemente due dita su uno dei baffi incerati. Che baffi! Paiono due topi acquattati sotto il naso, con le code all’erta. Può avere da quarant’anni: tacchinotto, bruno, calvo, con occhi nerissimi, foschi accostati al naso vigoroso. (Pretenderà d’esser dipinto bello anche lui!).

- S’accomodi, - gli dico. - Non si tocchi i baffi, per carità; non se li guasti; se no, glieli levo. Stabiliamo, prima di tutto, il nome. Come si vuol chiamare lei?

- Io, Leandro, se non le dispiace, ai suoi comandi, - mi risponde con una vocina di ragnatele, alzandosi e inchinandosi di nuovo. - E di cognome, se non le dispiace, Scoto.

- Leandro Scoto? Vediamo un po’: si metta più in là... così, basta... ora si giri... Sì, mi pare che il nome le quadri. Leandro Scoto, va bene.

- E dottore? - soggiunge timidamente l’ometto con un altro sorriso. - Se non le dispiace, vorrei esser dottore.

- Dottore in che? - gli domando, squadrandolo.

E lui:

- Se non le dispiace...

Non ne posso più: scatto:

- E la finisca una buona volta con codesto se non le dispiace! Dica pure...

- Ecco, allora, se mi permette, - replica egli, guardandosi mortificato le unghie d’una mano, lunghe e ben coltivate, - dottore in iscienze fisiche e matematiche.

- Uhm, - faccio io. - Mi pare che lei abbia piuttosto l’aria d’un notajo di provincia, d’un capo-archivista. Ma passi. Dunque si dice: Leandro Scoto, dottore in scienze fisiche e matematiche. Lei ha un libro con sè? Che libro è? Venga avanti.

Il dottor Leandro Scoto mi s’avvicina e mi porge con una certa titubanza il libro.

- È inglese, - mi dice con gli occhi bassi. Un libro del Leadbeater.

Il teosofo? - grido io. - Ah, non voglio saperne, sa! Via, via! Se lei viene per esser preso in considerazione con codesti titoli, se ne può pure andare. Ho già messo un teosofo in un mio romanzo, e basta. So io quanto ho dovuto faticare per non farlo parer nojoso! Basta, basta.

- No, dicevo... - arrischia con uno sguardo supplichevole il dottor Leandro Scoto.

- Le dico basta! - torno a gridargli in tono perentorio. - Mi faccio meraviglia, che un dottore in iscienze fisiche e matematiche, come lei pretende di essere, uomo serio dunque, si occupi di siffatte sciocchezze senza costrutto.

Profondamente amareggiato, il dottor Leandro Scoto si rimette in piedi per la terza volta e per la terza volta s’inchina, con una mano sul petto.

- Mi perdoni, - dice. - Se Lei non vuol sapere di me, io me ne posso anche andare: sparire! Ma non mi giudichi così superficialmente. Non sono un teosofo, io. Tutti, oggi, sentiamo un bisogno angoscioso di credere in qualche cosa. Un’illusione ci è assolutamente necessaria, e la scienza, Lei lo sa bene, non ce la può dare. Così, ho letto anch’io qualche libro di teosofia. Ne ho riso, creda. Oh, aberrazioni, aberrazioni... Pure, guardi: in questo libro ho trovato un passo curiosissimo, una certa idea che mi pare abbia un qualche fondamento di verità e possa interessarla moltissimo. Permette?

Mi si pone a sedere accanto, apre il libro a pagina 104 e si mette a leggere, traducendo correntemente dall’inglese:

- «Abbiamo detto che l’essenza elementale che ne circonda da ogni parte è singolarmente soggetta, in tutte le sue varietà, all’azione del pensiero umano. Abbiamo descritto ciò che produce su essa il passaggio del minimo pensiero errante, cioè a dire la formazione subitanea d’una nubecola diafana, dalle forme di continuo mobili e cangianti. Ora diremo ciò che avviene allorchè lo spirito umano esprime positivamente un pensiero o un desiderio ben netto. Il pensiero assume essenza plastica, si tuffa per così dire in essa e vi si modera istantaneamente sotto forma d’un essere vivente, che ha un’apparenza che prende qualità dal pensiero stesso, e quest’essere, appena formato, non è più per nulla sotto il controllo del suo creatore, ma gode d’una vita propria la cui durata è relativa all’intensità del pensiero e del desiderio che l’hanno generato: dura, infatti, a seconda della forza del pensiero che ne tiene aggruppate le parti. »

Il dottor Leandro Scoto chiude il libro e mi guarda:

- Ebbene, soggiunge, - nessuno meglio di Lei può sapere che questo è vero. Ed io, per quanto ancora non sia libero e indipendente da Lei, ne sono la prova. Ne sono una prova tutti i personaggi creati dall’arte. Alcuni han pur troppo vita efimera, altri immortale. Vita vera, più vera della reale, sto per dire! Angelica Rodomonte, Shylock, Amleto, Giulietta, Don Chisciotte, Manon Lescaut, Don Abbondio, Tartarin: non vivono d’una vita indistruttibile, d’una vita indipendente ormai dai loro autori?

Io guardo a mia volta il dottor Leandro Scoto che mi si dimostra così erudito e gli domando:

- Scusi, dove vuole arrivare con codesta dissertazione teosofico-estetica?

- Alla vita! - esclama lui, allora, con un gesto melodrammatico. - Io voglio vivere, ho una gran voglia di vivere per la mia e per l’altrui felicità. Mi faccia vivere, signore! mi faccia viver bene, la prego: ho buon cuore, guardi! un discreto ingegno, oneste intenzioni, parchi desiderii; merito fortuna. Mi dia, la prego, un’esistenza imperitura.

Non posso soffrire la gente presuntuosa. Gli figgo gli occhi negli occhi, poi gli guardo i piedi quasi per allontanarlo, e gli dico:

- Ma via, tu, dottorino, sul serio? Che hai tu in te da rimanere immortale?

- Ah, non presumo, non presumo, - s’affretta a rispondermi, tirandosi indietro con le mani sul petto, il dottor Leandro Scoto. - Scusi, non deve dipendere da me, deve dipendere da Lei. Io posso benissimo essere magari uno scemo, che c’entra! consideri per citare un esempio, che Don Abbondio, santo Dio, che è? un pretucolo di villaggio, un’animella spaventata, e sissignori! che bella fortuna ha avuto quello là! Vive eterno! Ecco, mi faccia commettere magari qualche grossa bestialità: affrontare la morte, putacaso, per salvare un mio simile, beneficare un amico per averne gratitudine, mi faccia financo prender moglie, che debbo dirle? con la lusinga di viver contento e in pace; ma non mi abbandoni, per carità! mi dia vita, si serva di me! Creda pure che in me, ad approfondirmi bene, Lei troverebbe la stoffa per un capolavoro.

Auff! Non mi so più reggere. Balzo in piedi.

- Caro dottor Leandro Scoto, - gli dico, - senta: per il capolavoro ripassi domani.

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Quando morrò (Neruda)

Post n°1178 pubblicato il 11 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Quando morrò voglio le tue mani sui miei occhi:
voglio che la luce e il frumento delle tue mani amate
passino una volta ancora su di me la loro freschezza:
sentire la soavità che cambiò il mio destino.

Voglio che tu viva mentr' io, addormentato, t'attendo,
voglio che le tue orecchie continuino a udire il vento,
che fiuti l'aroma del mare che amammo uniti
e che continui a calpestare l'arena che calpestammo.

Voglio che ciò che amo continui a esser vivo
e te amai e cantai sopra tutte le cose,
per questo continua a fiorire, fiorita,

perchè raggiunga tutto ciò che il mio amore ti ordina,
perchè la mia ombra passeggi per la tua chioma,
perchè così conoscano la ragione del mio canto.

 
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Il riso fa buon sangue

Post n°1177 pubblicato il 11 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Motil di voi mi chiedono notizie di Pippipù,la simpaticissima ciccionazza del Burundi che ha spostato Be'erino.
Per l'appunto proprio lei è la protagonista della mia cronaca.
Ma è d'uopo una premessa.
Pippipù ha un grandissimo difetto:ride di un riso isterico e fragoroso,alla minima provocazione,e il suo riso causa cataclismi inauditi come quelli che mi accingo a raccontarvi.
LUNEDI'- Pippipù è una fedele ascoltatrice del programma radiofonico "Vi parlo di me".
Stamattina,a causa di una battuta del conduttore,ha cominciato a ridere così fragorosamente che i vetri sono andati in frantumi.Senza colpa alcuna l'Anarchico si è ritrovato sepolto sotto una montagna di vetro
MARTEDI'- Pippipù è andata a trovare la Sargenta,che poi è sua cognata.
Quella ha fatto l'errore di esibirsi nell'imitazione della Targiona ed è finita a capofitto nel paiolo della polenta:Pippipù,in preda a riso isterico,le è franata addosso
MERCOLEDI'- La Carolina e Pippipù sono andate in piscina.
Per cause sconosciute,qualcosa ha provocato l'ilarità di Pippipù,che col suo riso ha provocato un'onda anomala.La Carolina è viva per grazia di Dio
GIOVEDI'- Be'erino e Pippipù sono andati al funerale di Adelasio Papagnoccheri,padre dell'Aiace.
La vista di un moscone che si è posato sul naso di Ireneo ha scatenato l'ilarità della ciccionazza.
Per colpa delle vibrazioni si è aperta una voragine con diametro di 5 mt che ha inghiottito tutti.
Per tirarli fuori ci sono volute 4 ore.
VENERDI'- La cesira ha raccontato a Pippipù che da anni la zitellona Cassiopea Puzzettoni corre dietro a Teobaldo.
Pippiù naturalmente ha cominciato a ridere.
38 galline sono morte d'infarto.
SABATO- Pippipù,visto Ireneo in bicicletta,ha riso così tanto che l'unico lampione di S.Tobia è crollato addosso al pretone.
DOMENICA- Be'erino ha portato la moglie in Burundi da Zibidè,per vedere se con la sua magia può far qualcosa per questo flagello.
E' passata una settimana
L'Anarchico odia i vetri e la Sargenta è allergica alla polenta.
La Carolina usa il salvagente anche sotto la doccia.
Ireneo pensa di esser stato investito dall'astronave dei genitori di ET e va in bicicletta con lo scafandro.
Dal Burundi tutto tace.
"Niente nuova buona nuova"dice il proverbio.
Augurandomelo di cuore,passo e chiudo



 

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Libri dimenticati:La bella Otero

Post n°1176 pubblicato il 11 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Biografia della celebre danzatrice della Belle Epoque,dalla vita movimentata e romanzesca.Da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°1175 pubblicato il 11 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Dio deve proprio amare gli stupidi,visto che ne ha creati così tanti

 
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