Messaggi del 12/11/2011

Tella e la pazzia

Post n°1190 pubblicato il 12 Novembre 2011 da odette.teresa1958

ella era una bambina sempre allegra.
Era un po’ robustoccia, con due gote rosse, e un paio di codini ritti.
Indossava sempre una gonna a pois bianchi e rossi, e scorrazzava in giro salutando tutti e sorridendo.
Anche quella mattina voleva godere del sorgere del sole.
Si era recata in cima al colle, in attesa che l’astro lucente sbucasse da dietro al pendio.
La palla di fuoco cominciò a rosseggiare.
L’aria era piacevolmente fredda.
-Che bella giornata! Che bella giornata!-gridava Tella entusiasta.
Correva sull’erba morbida.
Ciaf!Ciaf!
Le sue scarpe facevano un buffo rumore, sulle piante erbacee inumidite dalla rugiada.
-Buon giorno signor pecoraio! Che sia una bella giornata…!- augurò Tella.
-Questa è proprio matta!- rispose il pastore, nervoso per quel dì lavorativo che aveva principio.
-Godete del sole!Guardate che splendore!- urlava Tella.
Tella si recò in paese.
Era giorno di mercato.
Presto le vie sarebbero state invase dai concittadini di Tella,e lei avrebbe potuto sorridere e salutare cordialmente tutti.
-Posso aiutarla signora fioraia?- domandò Tella alla fiorista dopo averla salutata.
-Ma sei pazza?Io non voglio l’aiuto di nessuno!- rispose la venditrice di petali e corolle, che la allontanò sgarbatamente.
Tella ispirò forte il profumo emanato dai fiori, poi se ne andò sconsolata.
-E’ ora di colazione!- disse mentre sentiva l’odore dal forno la fanciulla.
Si fermò a prendere un bombolone fumante, quando vide un cane scodinzolargli con l’acquolina in bocca.
Ne staccò un tozzo e lo offrì all’animale.
-Questa è pazza!- diceva la gente.
Le persone cominciavano ad affluire ai banchini.
C’era un gran movimento.
Tutti camminavano seri e spediti, senza degnare di un’occhiata i vicini.
Tella invece salutava e sorrideva a ognuno.
-Dev’essere un’insana!-
-Hai bisogno del manicomio!- commentava ciascuno.
All’ora di pranzo Tella vide un’anziana signora che sotto la sua sporta aveva difficoltà per rincasare.
-Voglio darle una mano!- si offrì la bambina.
-Mai e poi mai! Io non mi fido di nessuno!- rispose la signora, mentre ancora una volta i presenti credettero che l’agire di Tella fosse tipico di un matto.
Tella si recò a casa per mangiare.
Sulla via del ritorno alla sua dimora, si permise di invitare al desco un mendicante.
La mamma di Tella montò su tutte le furie, quando vide la figlia entrare a casa con il nuovo ospite.
-Non siamo mica un ristorante per barboni!- protestò la donna-Che figliola picchiatella!-
Il pomeriggio Tella lo passò a fare compere per gli anziani suoi vicini di casa.
-Questa ragazza deve essere proprio squilibrata, per occupare tutto il suo tempo a darsi al prossimo!-dicevano i conterranei di Tella.
Scoppiò un temporale.
La pioggia prese a battere sulle strade.
Un vecchio in carrozzella venne abbandonato sul selciato.
Tella corse in mezzo alla via, si tolse la mantellina e la pose sul capo del signore.
Un’ennesima volta la gente commentò così:
-Questa Tella è proprio anormale,deve avere qualche malattia!-
Lo scroscio di lì a poco ebbe termine.
Tutta inzuppata Tella andò a casa a cambiarsi d’abito.
-Ma come hai fatto a conciarti così?- chiese la madre.
Tella intanto, tutta tremante cominciò a spiegare il suo atto di generosità nei confronti dell’uomo paralitico.
-Sei la solita scriteriata!Ma cosa ti frulla per la testa?- disse la donna.
Tella dopo essersi mutata di vestiario tornò fuori, e decise di portare il pane secco ai piccioni della piazza.
Era quello un suo quotidiano appuntamento.
Amava ristorare gli uccelli, e nel mentre fermarsi allo stagno a osservare i girini nuotare intorno a mamma rana.
Tella riusciva ad apprezzare ogni gesto d’amore sulla Terra, e si estasiava nell’assistere a qualsiasi fenomeno suggestivo della natura.
Ringraziava il cielo per le magnificenze del creato, e sentendola il popolo diceva:
-Tella è davvero dissennata e irragionevole!-
Nessuno la capiva.
Tutti dicevano che Tella era pazza.
Ella invece agiva come dovrebbe essere nella natura dell’uomo, che ha bisogno di dare e ricevere amore dal prossimo.
Il mondo sarebbe ben diverso se tutti, come Tella, salutassimo e sorridessimo all’altro incrociandolo per la via.
Comportarsi però con elevatezza d’animo e spirito d’altruismo, fa credere agli altri che siamo pazzi.
Tella continuò ad agire come abbiamo veduto per tutta la vita, però, nonostante tutti continuarono sempre a dire che fosse matta, ella si sentiva tanto bene nel cuore….lei che faceva la cosa più adatta all’essere umano, il quale ha bisogno d’amore.



 
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Pochettino

Post n°1189 pubblicato il 12 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Era una famiglia povera ma onesta e laboriosa. Il loro cruccio era Pochettino. Si chiamava così perchè era piccoletto, non cresceva, e in compenso era dispettoso, disobbediente, cocciuto. D'abitudine s'intrufolava nell'orto dei vicini, rubava la frutta matura, e i vicini spesso si lamentavano. Un giorno però era stato più bravo del solito, la mamma in premio gli regalò un soldino, e Pochettino, dopo aver tergiversato sulla scelta, comprò dei fichi secchi.
Tornando a casa, col suo piccolo tesoro, non voleva esser visto dagli altri ragazzini (forse temeva che glieli rubassero), cercò quindi il luogo sicuro per gustarli.
Quale luogo più sicuro se non l'orto del Drago? Era cattivo, nessuno s'avventurava nei suoi possedimenti. Per star tranquillo Pochettino entrò lì, si nascose su un albero per mangiare.
Il Drago però, rientrando a casa, osservò in terra quelle orme piccole, alzò gli occhi, e vide chi c'era.
- Cosa fai? - urlò con la sua voce cavernosa.
- Mangio i fichi -
- Me ne dai uno? - domandò l'orco (se fosse un orco non si sa, ma è probabile).
- No! - rispose il piccoletto, temendo d'esser catturato, poi aggiunse: - te lo tiro, il fico! -
- Ma è caduto su una cacca! -
Allora Pochettino, messo alle strette, provò a porgere un altro fico, ma il Drago, allungando la manona non afferrò solo il fico, ma tirò giù il nostro amico, con una risata terribile e trionfante.
Lo portò in casa sua, dalla moglie, una donna non cattiva cattiva, ma succube al marito, di nome Maiea.
- Lo voglio stasera per cena, questo qui! -
Per fortuna la Maiea, si allontanò un attimo dalla cucina, per andare a prendere la legna per la paea. Pochettino approfittò del momento per sfuggire dalla finestra, scappò per il bosco, dove incontrò dei compagni, insieme ai quali andò per castagne.
Ma il Drago, che non si era dato per vinto, lo andò a cercare. Il ragazzino, staccatosi dai compagni, rimasto solo, fu facile preda. Lo ficcò in un sacco e se lo mise in spalla.
Ad un certo punto del cammino al Drago scappava la cacca. Mentre si accingeva ad un lato del sentiero a fare i suoi bisogni, da dentro il sacco Pochettino:
- Và ciu n là, che ne gh'en sà, ghe sà de merda de condanà! - Più o meno: và più in là, che qui c'è cattivo odore.
Il Drago si allontanava e il ragazzino ripeteva la formula, più volte.
Pochettino approfittò del momento propizio, ficcò nel sacco il cane dell'orco e alcuni sassi. Giunto a casa il Drago ordinò alla moglie:
- Maiea, meta su a paea, che Poghetin o l'è chì!-
Quando la grossa pentola borbottava forte, l'orco volle immediatamente rovesciare il sacco nell'acqua bollente. Allora il povero cane, al contatto con la pentola, saltò via spaventato e con un morso staccò il naso al padrone, fuggendo dalla finestra verso la campagna. Invano il Drago ripetè più volte:
- Tò, tò, porta o naso a mì che ne ghe l'ho! - (questa frase, quando si narra ai bambini la si ripete più volte, portandosi la mano al volto).
Anche questa volta Pochettino aveva fregato il Drago.
Però il cattivo omone non si dette per vinto e si inventò qualcosa. Scavò un grosso buco, in una radura del bosco, vi si nascose dentro, ricoprendosi di terra e foglie, lasciando fuori solo un orecchio. L'orecchio sembrava un grosso fungo buono da mangiare. Il ragazzino, curioso, lo vide e si chinò pensando di raccogliere il bel fungo, col quale avrebbe di certo fatto una gran figura, tornando dai suoi. Afferrato l'orecchio del Drago, inesorabilmente, dal buco emerse con tutta la sua mole, e, ancora una volta, lo portò a casa sua.
Stavolta sembrava non vi fosse scampo, la Maiea doveva cucinarlo per il marito, al suo ritorno. La pentolona era pronta.
- Io mi vergogno a spogliarmi! - iniziò Pochettino, che di certo aveva in mente qualcosa. E aggiunse: - Spogliati anche tu! -
La Maiea per convincerlo cominciò a spogliarsi. Una cosa la donna, una cosa il ragazzino. Quando la donna (un pò grassa e vecchiotta, non certo un bello spettacolo) fu ignuda, si chinò sul focolare, per attizzare il fuoco. Allora Pochettino approfittò del momento e la spinse, di sorpresa, dentro la grossa pentola.
Quando le grasse membra furono cotte, il nostro birbante apparecchiò la tavola, vi collocò la sperlunga fumante a fianco del fiasco di vino, e si nascose su per il camino. All'ora di cena il Drago era di ritorno, affamato e vendicativo:
- Maiea, te l'è coto ò Pochetìn? -
Da dentro il camino, imitando da voce femminile: - Sì! -
- Dove sei, Maiea? Ti sei nascosta? -
Non udendo risposta dalla moglie l'orco si mise comunque a mangiare. Pochettino, sentendo il rumore di ganasce all'opera:
- Mangia bè, che te mangi do tè, te mangi e tete de te mogè! - Traduzione: mangia la carne, che mangi del tuo, mangi le tette di tua moglie. Ovviamente, narrando ai bimbi, la frase si ripete più volte (che paura!).
Al sentir questa voce misteriosa il Drago chiese:
- Dove sei? -
- Son qui, su per il camino! -
- Vengo su a prenderti! -
Il drago s'infilò su per il camino, agganciandosi ad una corda penzolante lasciata apposta dal nostro eroe. Quando era nel punto giusto, zac! Con un coltello Pochettino la tagliò e il cattivo finì anch'esso nella pentola.
Fu così che anche il Drago fece una brutta fine, e tutti, in quel paese lontano nel tempo, festeggiarono a lungo.
Se una nonna è in gamba a raccontare, a questo punto i bambini dormono già, ovviamente.




 
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L'altra metà

Post n°1188 pubblicato il 12 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Un giorno, un autore annoiato, probabilmente non sapendo cosa fare, diede vita ai personaggi di questa vicenda. Partì sul treno delle favole, sul quale prenotò un posto vicino al finestrino e arrivò su un pianeta lontano, in qualche galassia smarrita nell’universo. Poi, probabilmente per fare uno scherzo, collocò i due protagonisti al polo sud e al polo nord di quel mondo, riprese il treno delle fiabe e ritornato sulla terra si sdraiò nel suo letto e si addormentò cominciando a immaginare la loro storia...

...All’alba di quel nuovo giorno Dark, il buio, aprì gli occhi. Al polo nord il silenzio, immenso e infinito, già abbracciava la natura ed ora arrivò lui ad invadere con la sua oscurità, tutto. Si guardò intorno. Quello era il luogo in cui avrebbe dovuto vivere? Solo e senza uno scopo? Guardò al suo fianco e vide una grossa ampolla di vetro. Al suo interno galleggiavano delle strane figure, nell’aria come palloni aerostatici. Dark non capiva cosa fossero e le osservava a bocca aperta.
Erano le parole e per noi, ovviamente sarebbero state facilmente riconoscibili ma Dark, non le sapeva interpretare, leggere non era tra le sue capacità. In quello strano contenitore c’erano quattro parole: stima, sintonia, empatia e attrazione, che galleggiavano nel silenzio ovattato e buio. Erano simboli senza senso per lui, ma erano i suoi unici compagni e Dark si chiedeva: cosa c’è oltre l’orizzonte, oltre il punto dove arriva l’occhio. Prese una sacca, aprì l’ampolla e, come per incanto, le parole uscirono da lì ed entrarono nello zaino. Una piccola parte di ognuna di esse, Dark la lasciò nell’ampolla in modo che avesse fatto da punto di riferimento al suo ritorno, era il momento di intraprendere un viaggio……

...Light, la luce, si svegliò al polo sud di quel pianeta e si stiracchiò per accogliere l’alba a braccia aperte. Subito fu circondata da emozioni intense. Già, proprio quei sentimenti per noi ben riconoscibili, ogni mattina auguravano il buongiorno alla luce, che però non sapeva mai cosa farsene. Li illuminava e pensava:
“Bellissimi colori…..ma, a cosa servono? Vivo qui, sono la loro regina probabilmente e li devo proteggere….ma da che cosa e soprattutto perché?"
Prese una sacca e la aprì, tutte le emozioni capirono subito che quella sarebbe stata la loro casa per i giorni a seguire, anche se una parte di esse rimase lì a custodire quel luogo. Era venuto il momento di intraprendere un viaggio…….
Dark sedeva nella locanda. Quell’uomo di fronte a lui era l’immagine della tristezza. Guardava il bicchiere ma non lo vedeva veramente. Il suo sguardo era in fermo immagine e forse anche la sua mente. Dark gli si avvicinò e fu come se lo risvegliasse da una trance.
Quell’uomo gli raccontò il fiume tortuoso che era stata la sua vita fino a quel momento, in quella locanda, e per lui non c’era futuro fuori da lì, quella scena del loro incontro, nella sua mente, finiva senza un seguito. C’era solo il passato, corvo nero appollaiato sulle sue spalle, ventiquattr’ore su ventiquattro, a ricordargli che sua figlia non c’era più, che sua moglie se n’era andata con lei quando la piccola aveva visto la luce e insieme mano nella mano erano volate via. Lui avrebbe voluto terminare la sua vita lì, in quel locale, ogni sera vedeva così la fine ma ogni volta si alzava, tornava a casa e raccontava a suo figlio tutto quello che avrebbe voluto credere anche lui, una fantasia poetica che per suo figlio diventava realtà e così ogni volta. Ma quella sera pensava veramente di non farcela, forse non avrebbe più smesso di osservare il vuoto che attorniava quel bicchiere.
Dark aprì lo zaino ed estrasse una delle parole. Non sapeva il perché, il significato di quella parola era oscuro come lui stesso e nemmeno l’uomo di fronte a Dark lo conosceva, però la parola “stima” fu quella che scelse e la diede all’uomo che sorrise, perché qualcuno gli aveva insegnato che quando ricevi qualcosa in regalo la tua anima è più serena, ma diavolo se capiva il significato di quello che quello strano personaggio gli aveva donato.
Dark uscì da quella locanda ed entrò in un’altra per rifugiarsi dal freddo della notte e anche perché cercava qualcosa. Aveva notato che le persone entrando in quei luoghi, insieme al soprabito appendevano anche la maschera che ogni giorno erano obbligati a portare alla luce del sole, poi si sedevano e complice la fine della giornata e la presenza di altre persone, desiderose anch’esse di aprirsi e raccontare se stesse, rovesciavano sul tavolo tutte le amarezze e i problemi tenuti nascosti fino a quel momento.
Dark vide due donne che parlavano spensierate. Era bello guardarle perché una sembrava essere una parte di quello che mancava all’altra, in quel momento. I loro dialoghi erano come i tasti di un pianoforte: il bianco lasciava il posto al nero, che a sua volta lasciava il posto al bianco, in un intercalarsi armonioso, per formare insieme una dolce melodia. I sorrisi erano uno specchio delle reciproche emozioni e Dark si commosse di fronte a tutto questo. Si alzò e interruppe solo per un istante quel bellissimo ritratto di vita, per consegnare loro una parola dalla sua sacca.
Non seppe neanche lui perché proprio quella e le due donne tanto meno, ma accettarono lo stesso il suo regalo: la parola “sintonia”. Dark uscì dalla locanda quella sera e guardò la luna che faceva da lampadario nella stanza della notte e superò un confine invisibile che lo portò a iniziare la seconda metà del suo viaggio……..

...Light si trovava in una locanda. Chissà perché quel luogo? Forse perché lì la vita esce allo scoperto, complici anche un po’ i gomiti che si alzano. Non potette fare a meno di ascoltare due ragazzi che parlavano, erano così vicini a lei. Uno dei due raccontò all’altro che da quando era partito in cerca di fortuna, gli mancava talmente tanto quello che aveva lasciato, da mancargli il fiato ogni sera quando ci pensava. Però la strada che aveva imboccato sentiva che era quella giusta, tornare sui suoi passi sarebbe stato un madornale errore. Il suo interlocutore fece qualcosa che colpì molto Light: si fece prestare gli immaginari occhiali con cui l’amico guardava il mondo e una volta indossati, cercò di capire come lui vedeva le cose: lo fece parlare tanto, senza interromperlo, poi gli fece tante domande ascoltando attentamente le risposte e per qualche tempo si sforzò di cercare di essere lui, che guardava il passato con una lacrima di rimpianto e il futuro con coraggio e determinazione.
Light si alzò, aprì la sua sacca, ne estrasse un sentimento e lo trasmise nella mente dei due ragazzi, che subito si sentirono più vicini tra loro, ma senza riuscire a dare un nome a quello che aveva provocato quella sensazione. Il viaggio della nostra amica continuò. Lo zaino sulle sue spalle pesava ma lei lo portò con felicità perché era come una forte emozione che ti attanaglia il cuore: senti la sua potenza ma essa e’ vestita di piacere. Seduta in un’altra locanda Light osservava due giovani che si osservavano da un tavolo all’altro.
Era probabile che non si conoscessero neanche ma i loro sguardi parlavano per le loro bocche. Il locale per loro, probabilmente era come se non esistesse, dall’intensità di quel muto dialogo, e se di colpo fosse scomparso, i due avrebbero probabilmente continuato a guardarsi, seduti sulle panche di legno rimaste ormai sotto il cielo stellato. Light si alzò e passò vicino ad entrambi, lasciando nella loro mente una forte sensazione, a cui loro e lei non riuscirono a dare un nome, ma Light era sicura fosse quella giusta. Uscì dal locale nella notte, guardò la natura intorno a sé e sorrise. Il cielo probabilmente le rispose, perché la luna quella sera aveva proprio la forma di un sorriso. Superò anche lei un confine invisibile e si trovò nella seconda metà del suo viaggio……si ritrovò in una terra buia e sentì che quel luogo stava aspettando qualcosa. Iniziò a inoltrarsi in quella landa oscura, con il suo fedele zaino sulle spalle e notò che anche lì c’erano delle locande, per cui si fermò, aveva veramente bisogno di riposare.
Nel bar cominciò ad osservare due donne. Si sentì di colpo sola, confrontando se stessa a quello splendido legame che le univa, che forse occhi distratti potevano non notare ma lei ormai di sentimenti umani se ne intendeva abbastanza da non lasciarselo sfuggire. Si alzò, passò di fianco a loro e le inondò della polvere magica che la sua borsa conteneva.
Subito le due donne capirono cosa fare della parola data loro da Dark. Sintonia era proprio quello che a loro stava succedendo in quel momento. Era proprio la sintonia che riempiva di fiori colorati i loro cuori, ora quella parola aveva anche un significato.
Light entrò in un secondo pub e si sedette, circondata dal vociare e dal caos. Un uomo solo sedeva senza allegria e fissava nel vuoto, colmo di tristezza. Lesse nella sua mente e notò che in mezzo a tutta quella disperazione galleggiava la parola “stima” ma non vide negli occhi dell’uomo la consapevolezza di quello che essa rappresentava. Decise che era il momento di entrare in azione. Gli passò a fianco e fece ricadere su di lui, un altro dei sentimenti delle sua sacca. L’uomo capì immediatamente l’importanza di ogni sua giornata. Il coraggio che infondeva a suo figlio ogni sera e automaticamente, quello che infondeva verso se stesso e provò stima. Quella parola data a lui dallo sconosciuto, aveva preso corpo e adesso la provava verso se stesso, verso suo figlio e, nei recessi della sua mente, cominciava anche a provarla anche per la vita. Light raggiunse la fine di quel nuovo regno e pianse. Pianse di gioia perché sapeva di trovarsi di fronte al motivo di quel viaggio.....

Dark, iniziò la seconda metà del suo viaggio. Entrò nella zona di luce. La luce attendeva qualcosa. Si incamminò con la sua sacca sulla schiena e entrò in una locanda. Che stranezza! Di solito le persone si sedevano una di fronte all’altra per poi comunicare, mentre questi due ragazzi lo facevano a distanza.
Rovistò nella sua sacca e la parola “attrazione” gli sembrò la più appropriata. Uscì dal locale, regalandola ai due sprovveduti che si resero conto subito di piacersi. Ora quegli sguardi avevano un senso e la loro emozione non vagava più selvaggia nella loro mente. In un secondo bar, Dark vide i due ragazzi che Light aveva incontrato all’inizio del suo viaggio.
Li osservò a lungo, ma neanche più di tanto, ormai conosceva bene i sentimenti umani: uno dei due uomini stava leggendo i sentimenti dell’altro con un linguaggio che si avvicinava molto al linguaggio con cui quest’ultimo leggeva se stesso. Dark ormai riusciva a scegliere con facilità un nome adatto per le sensazioni umane e se quella non era “empatia”, lui da quel momento non si sarebbe più chiamato Dark. Passò a fianco ai due uomini e regalò ad essi quella parola, che vestì le loro sensazioni e le rese più comprensibili, e il significato che presero le rese ancora più importanti. Era il momento di uscire dalla locanda e Dark sapeva che sarebbe stata l’ultima del suo viaggio. Aprì quella porta e si guardò alle spalle: gli umani, in fondo, gli sarebbero un po’ mancati, con tutte quelle debolezze e quella voglia di scovare un sorriso, di stare insieme a qualcun altro per condividere le proprie amarezze e le proprie gioie. Tirò fuori un’ultima parola, che trasformò in polvere e sparse sul locale ed essa invisibile cadde dappertutto: serenità. Forse sarebbe rimasta solo una parola nel cuore e nella mente di molti uomini ma pensando ad essa forse non si sarebbero mai dimenticati di desiderarla e cercarla. Uscì nella notte e si accinse a capire il motivo di quel viaggio...
Light arrivò al polo nord. In quella terra buia e silenziosa sentì che qualcuno aveva vissuto fino a poco tempo prima. Si guardò intorno e vide un’ampolla di vetro nella quale era rimasta una piccola parte di alcune parole che galleggiavano senza un senso, senza uno scopo...
Dark arrivò al polo sud e si trovò attorniato da sensazioni che volavano libere nell’aria senza un nome, senza un significato.

Light aprì la sua borsa al polo nord. Dark aprì la sua al polo sud. E fu in quel momento che le parole si unirono per sempre a quei sentimenti selvaggi, li sellarono e cavalcarono per sempre nel mondo, su quel cavallo bianco che da sempre corre impazzito nelle nostre vite: l’amore.


 
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Volare (Pirandello)

Post n°1187 pubblicato il 12 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Cortesemente la morte, due anni fa, le aveva fatto una visitina di passata:

- No, comoda! comoda!

Solo per avvertirla che sarebbe ritornata tra poco. Per ora, lì, da brava, a sedere su quella poltrona; in attesa.
Ma come, Dio mio? Così, senza più forza neanche di sollevare un braccio?
Brodi consumati, polli, che altro? Latte d'uccello; lingue di pappagallo...
Cari, i signori medici!
Prima che questo male la assolasse così, poteva almeno ajutare un poco le due povere figliuole, recandosi a cucire a giornata ora da questa ora da quella signora, che le davano da mangiare e qualche soldo; più per carità che per altro, lo capiva lei stessa. Non ci vedeva quasi più; le dita avevano perduto l'agilità, le gambe la forza di mandare avanti il pedale della macchina. Eh, ci galoppava, prima, su un pedale di macchina! Ora, invece...
Niente quasi, quel che portava a casa; ma pure poteva dire allora di non stare del tutto a carico delle figliuole. Le quali lavoravano, poverine, dalla mattina alla sera, la maggiore a bottega, la minore a casa: astucci, scatole, sacchettini per nozze e per nascita: lavoro fino, delicato; ma che non fruttava quasi più nulla ormai. Figurarsi che la maggiore, Adelaide, nella bottega dov'era anche addetta alla vendita e alla cassa, tirava in tutto tre lire al giorno. Guadagnava un po' più la minore, col lavoro a cottimo; ma non trovava da lavorare ogni giorno, Nené.

Tutt'e tre, insomma, riuscivano a mettere insieme appena appena tanto da pagar la pigione di casa e da levarsi la fame; non sempre. Ma ora, al principio di quell'inverno, anche Adelaide s'era ammalata, e come! Veramente avvertiva da un pezzo quello spasimo fisso alle reni; ma finché s'era potuta reggere, non ne aveva detto nulla. Poi le si erano gonfiate le gambe e aveva dovuto farsi vedere da un medico.

- Dottore, che è?

Niente. Cosa da nulla. Nefrite. State a letto tre o quattro mesi, ben riguardata dal fresco, con una bella fascia di lana attorno alla vita; letto, lana e latte; latte, lana e letto. Tre elle. La nefrite si cura così.
Quel guadagno fisso, su cui facevano il maggiore assegnamento, era venuto per tanto a mancare. E allegramente! La padrona della bottega aveva promesso di serbare il posto ad Adelaide, e che intanto, per tutto il tempo della malattia, non avrebbe fatto venir meno il lavoro a Nené. Ma con un pajo solo di mani che poteva fare adesso questa povera figliuola, cresciute le spese per la cura di due malate?
Tutto quello che avevano potuto mettere in pegno, lo avevano già messo. Fosse morta lei, almeno, vecchia e ormai inutile! Adelaide, dal letto, pur con quel tarlo alle reni, ajutava la sorella, incollava i cartoncini, li rifilava. Ma lei? Niente. Neanche la colla in cucina poteva preparare. Doveva rimanere lì, per castigo, lei, su quella poltrona, ad affliggere le due figliuole con la sua vista e i suoi lamenti. Perché si lamentava, anche, per giunta! Sicuro. Certi lamenti modulati, nel sonno. La debolezza - bestialmente - la faceva lamentare così, appena socchiudeva gli occhi. Per cui si sforzava di tenerli quanto più poteva aperti.
Ma che bello spettacolo, allora! Pareva una tomba, quella camera. Senz'aria, senza luce, là, a mezzanino, in una delle vie più vecchie e più anguste, presso Piazza Navona. (E dalla piazza, piena di sole nelle belle giornate, arrivavano in quella tomba gli allegri rumori della vita!)
Avrebbe tanto desiderato, la signora Maddalena, d'andare ad abitar lontano lontano, magari fuor di porta, non potendo dove sapeva lei. Si sarebbe contentata anche su ai quartieri alti, magari in una stanza più piccola, ma non così oppressa dalle case di rimpetto. Lì però eran più basse le pigioni, e vicina la bottega ove Adelaide doveva recarsi ogni mattina; quando vi si recava.
Tre lettini, in quella camera, un cassettone, un tavolino, un divanuccio e quattro sedie. Puzzo di colla, tanfo di rinchiuso. La povera Nené non aveva più tempo, e neanche voglia, per dir la verità, di fare un po' di pulizia. Sul cassettone, ci si poteva scrivere col dito, tanta era la polvere. Stracci e ritagli per terra. E lo specchio, su quel cassettone, fin dall'estate scorsa, tutto ricamato dalle mosche. Ma se non si curava più neanche della sua persona, quella povera figliuola...

Eccola là, tutta sbracata, senza busto, in sottanina e col corpetto sbottonato, e i capelli spettinati che le cascavano da tutte le parti. Ma che seno e che respiro di gioventù!
S'era forse ingrassata un po'; ma era pur tanto bellina ancora! Un po' meno, forse, della sorella maggiore, che aveva un volto da Madonna, prima che il male glielo gonfiasse a quel modo. Ma ormai Adelaide aveva trentasei anni. Dieci di meno, Nené, perché tra l'una e l'altra c'erano stati tre maschi che il buon Dio aveva voluti per sé. I maschi, che avrebbero potuto sostener la casa e formarsi facilmente uno stato, morti; e quelle due povere figliuole, invece, che le avevano dato e le davano tuttora tanto pensiero, quelle sì, le erano rimaste. E non trovare in tanti anni da accasarsi, belline com'erano, sagge, modeste, laboriose. Eppure, oh, se ne facevano, di matrimonii! Quanti sacchetti, quante scatoline ogni giorno! Ma li facevano per le altre, i sacchetti e le scatoline, le sue figliuole.
Uno solo s'era fatto avanti, l'inverno scorso: un bel tipo! Vecchio impiegato in ritiro, tutto ritinto, doveva aver messo da parte - chi sa come - una buona sommetta, perché prestava a usura. Nené aveva detto di sì, solo per farle chiudere gli occhi meno disperatamente. Ma poi s'era presto capito che tanta voglia di sposare colui non la aveva, e che invece... Ma sì, tutt'a un tratto, s'era sparsa la voce che lo avevano messo dentro per offese al buon costume.
Così vecchio, e così... Ma già, il mondo, tutto rivoltato! E non aveva avuto il coraggio di ripresentarsi, dopo tre mesi, appena uscito dal carcere? Prima nero come un corvo, e ora biondo come un canarino... Per poco Nené non gli aveva fatto ruzzolar le scale. Eppure ancora, laido vecchiaccio sfrontato, la seguiva e la infastidiva per via, quand'ella si recava a lasciare a bottega i sacchettini e le scatolette o a prender le commissioni.
Più che per Adelaide la signora Maddalena sentiva pietà per questa più piccola. Perché Adelaide, almeno, da ragazzina, aveva goduto, mentre Nené era nata e cresciuta sempre in mezzo alla miseria.
Di tratto in tratto la signora Maddalena alzava gli occhi a un ritratto fotografico ingiallito e quasi svanito, appeso in cornice alla parete di faccia; e, contemplando quella figura d'uomo zazzeruto, tentennava amaramente il capo.

Lo aveva sposato per forza. Ai suoi tempi, quel tomo lì, era stato un famoso baritono buffo.
Da giovane lei aveva studiato canto, perché aveva una bellissima voce di soprano sfogato. Faceva all'amore, allora, con un giovanotto che forse l'avrebbe resa felice. Ma la madre, donna terribile, un giorno - rimedio spiccio - l'aveva schiaffeggiata pulitamente al balcone, coram populo, mentre stava in dolce corrispondenza con l'innamorato seduto sul balcone dirimpetto.
Aveva esordito a Palermo, prima del 1860, al Carolino, e aveva fatto furore. Eh, altro... Ma quell'uomo là con la zazzera, che cantava con lei, innamorato cotto, l'aveva chiesta subito in moglie. E subito, appena sposati, le aveva proibito di seguitare a cantare. Per gelosia, pezzo d'imbecille! Sì, guadagnava tesori, lui, è vero, e la teneva come una regina, ma sempre incinta, e senza casa, di città in città, con un esercito di casse e di fagotti appresso. E i denari, com'erano entrati, eran volati via. Poi lui s'era ammalato, aveva perduto la voce di baritono buffo, e buonanotte ai sonatori! Lui, morto in un ospedale; e lei rimasta in mezzo alla strada con cinque figliuoli, tutti piccini così.
Non solo il corpo, ma pure l'anima si sarebbe venduta per dar da mangiare a quei piccini. Aveva fatto di tutto; anche da serva, tre mesi; poi, i tre maschietti le erano morti fra gli stenti; e quelle due femminucce se le era tirate su, non sapeva più come neanche lei. Eccole là.

- Piove, Nené?

- Piove.

Da quindici giorni pioveva, signori miei, senza smettere un momento. E per l'umidaccio che la acchiappava subito alle reni, Adelaide, ecco, non si poteva tenere neppure a sedere sul letto.

Oh! sonavano alla porta. E chi poteva essere con quella bella giornata?

La signora Elvira, che piacere!, la padrona della bottega d'Adelaide. S'era incomodata a venir lei stessa a pagare fino in casa la settimana? Quanta bontà... No?

- No, care mie, - prese a dire la signora Elvira, deponendo nelle mani di Nené l'ombrello sgocciolante e poi un fazzoletto e poi la borsetta, per tirarsi su e commiserare le sue sottane zuppe da strizzare.

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In gioventù, una trentina d'anni fa, si doveva esser molto compiaciuta di se stessa, quella signora Elvira, se con tanta ostinazione aveva voluto conservarsi tal quale, coi capelli biondi d'allora e il roseo delle guance e il rosso delle labbra e quella ridicola formosità del busto e dei fianchi. Sapendo di non poter più ingannare nessuno e neanche se stessa, si ritruccava quella sua povera maschera sciupata con violento dispetto per rappresentare almeno per qualche momento, di sfuggita, davanti allo specchio quella lontana immagine di gioventù passata invano, ahimè. Se non che, certe volte, se ne dimenticava; e allora il contrasto fra quella truccatura di rosea zitellina e la sguajataggine della vecchia inacidita, strideva buffissimo e sconcio.

- No no, care mie, - seguitò. - Bontà, scusate, bontà fino a un certo punto! Se non mi sfogo, schiatto. Dov'è la tasca? Eccola qua! Leggi, leggi tu, anima mia; leggi qua!

- Che cos'è? - domandò la signora Maddalena dalla poltrona, costernata.

La signora Elvira porse a Nené una lettera e rispose con le mani per aria:

- Che cos'è? Centoquattordici lire di ritenuta! Bisogna che mi vuoti il cuore dalla bile, o schiatto! Sono parti da fare a una come me? Ma dico.. Lo sa Dio quel che sto patendo per voi a bottega, per serbare il posto a Lalla, e tu intanto, anima mia, qua... centoquattordici lire di ritenuta? Impazzisco.

- Ma che c'entro io? - fece Nené.

- Che c'entri tu? - rimbeccò pronta quella. - E il lavoro chi l'ha fatto?

- Non io sola.

- Tu per la maggior parte; tu che vuoi prendertene sempre più di quello che puoi fare! Ed ecco che ne viene. Hai visto? Piombi la sera tardi a bottega, approfitti che non ho tempo di vedere e che mi fido di te... Ah, cara mia, no! Io non le pago. Centoquattordici lire? Fossi matta! Ci ho colpa anch'io, che non ho sorvegliato. Pagheremo, metà io, metà tu.

- E con che pago io? - fece Nené, quasi ridendo.

- Me lo sconti col lavoro, - rispose la signora Elvira. - Oh bella, toh! Cominciando da questa settimana.

- Signora Elvira...

- Non sento ragioni!

- Ma guardi come siamo tutt'e tre! Se ci toglie... Domani viene il padron di casa per la pigione...

- E tu non gliela dare!

- Come non gliela do? Siamo in arretrato di due mesi. Ci butta in mezzo alla strada. Creda, signora Elvira, che le vogliono fare una soperchieria, perché il lavoro...

- Zitta, zitta, bella mia, non mi parlare del lavoro! - la interruppe quella. - Ridammi il paracqua e ringrazia Dio, anima mia, se non ti volto le spalle, come dovrei. Se non tutto in una volta, sconterai a poco a poco, in considerazione, bada bene! di tua sorella che mi lasciò sempre contenta e di tua madre. C'è malattie; compatisco. Ti do la metà, e basta. Statevi bene.

Posò il denaro sul cassettone, e scappò via.
Le tre donne rimasero un pezzo a guardarsi negli occhi senza fiatare. La signora Maddalena e Adelaide s'erano accorte, e lei stessa, Nené, sapeva bene, che veramente la manifattura di quelle scatoline per un dolciere d'Aquila lasciava molto a desiderare. Premeva a Nené di raggranellare il mensile per il padrone di casa, e aveva lavorato anche di notte, con le mani stanche e gli occhi imbambolati dal sonno. Ora, con la giunta di quelle poche lire, il mensile per il padrone di casa lo metteva insieme; ma non restava nulla per la settimana ventura. Cioè, restavano i debiti coi fornitori, i quali certo, non ricevendo neppure il piccolo acconto promesso, non le avrebbero fatto più credito per un'altra settimana.
Stimando vano ogni sfogo di parole, si stettero zitte tutt'e tre. Nello sguardo della madre però e in quello d'Adelaide parve a Nené di scorgere come un rimprovero per quel lavoro eseguito male; quel rimprovero che forse avrebbero voluto rivolgerle a tempo e che non le avevano rivolto per delicatezza, giacché vivevano ormai alle spalle di lei. Parve anche a Nené che quel poco denaro lasciato lì sul cassettone dalla padrona della bottega fosse dato come in elemosina a lei che aveva lavorato, non perché lo meritasse, ma solamente per riguardo alla sorella che se ne stava a letto e alla madre che se ne stava in poltrona. Così infatti aveva detto colei. Non meritava dunque nessuna considerazione, lei come lei, pur essendo ridotta in quello stato, peggio d'una serva? E sissignori! Per disgrazia, a un certo punto, ad Adelaide scappò un sospiro in forma di domanda:

- E ora come si fa?

- Come si fa? - rispose agra Nené. - Si fa così, che mi corico anch'io e staremo a guardar dal letto tutte e tre come piove.

Tin tin tin - di nuovo alla porta. Un'altra visita? La provvidenza, questa volta.

Un'amica di Nené. Una spilungona miope, tutta collo, dai capelli rossi crespi; e gli occhi ovati e una bocca da pescecane. Ma tanto buona, poverina! Da più d'un anno non si faceva vedere. Ora veniva tutta festante, vestita bene, ad annunziare all'amica il suo prossimo matrimonio. Sposava, sposava anche lei, e pareva non ci sapesse credere lei stessa. Stringeva forte forte le braccia a Nené nel darle l'annunzio, e rideva (con quella bocca!) e per miracolo non saltava dalla gioja, senza pensare che lì, in quella camera squallida, c'erano due povere malate e che la sua amica, tanto più giovane, tanto più bellina di lei... Oh, ma ella era venuta per un buon fine! Sapeva delle malattie, sapeva delle angustie, e aveva pensato subito alla sua Nené. Ecco: per commissionarle i sacchettini dei confetti. Li voleva fatti da lei. Cento. E belli, belli, belli li voleva, e senza risparmio. Pagava lui, lo sposo.

- Un ottimo posto, sai! Segretario al Ministero della Guerra. E un anno meno di me. Un bel giovine, sì. Eccolo qua!

Aveva il ritratto con sé: lo aveva portato apposta per farlo vedere a Nené. Bello, eh? E tanto buono, e tanto innamorato: uh, pazzo addirittura! Fra una settimana le nozze. Bisognava dunque che fossero fatti presto, quei sacchettini.
Parlò sempre lei in quella mezz'oretta che si trattenne in casa dell'amica. Più non poteva, perché era già tardi: alle cinque e mezzo lui usciva dal Ministero, volava da lei, e guai se non la trovava a casa.

- Geloso?

- No, Dio liberi! Geloso no, ma non vuol perdere neanche un minutino, capisci? Oh, senti, Nené mia: senza cerimonie tra noi! Tu avrai certo bisogno di qualche anticipazioncina per le spese...

- No, cara, - le disse subito Nené. - Non ho proprio bisogno di nulla. Va' pure tranquilla.

- Proprio di nulla? E allora, cento, eh?

- Cento, ti servo io. E rallegramenti!

La sposina corse a baciare la signora Maddalena, poi Adelaide; baciò e ribaciò Nené, bacioni di cuore, e via.
Le tre donne, questa volta, non tornarono a guardarsi negli occhi. La madre li richiuse, mentre le labbra le fremevano di pianto. Adelaide li volse senza sguardo al soffitto. Poco dopo, Nené scoppiò in una fragorosa risata.

- Bello davvero, oh, quello sposino!

- Fortune! - sospirò, dalla poltrona, la madre.

Adelaide, dal letto:

- Imbecille!

L'ombra s'era addensata nella camera. E spiccava solo, in quell'ombra, un fazzoletto bianco sulle ginocchia della madre, e il bianco della rimboccatura del lenzuolo sul letto d'Adelaide. Ai vetri della finestra, lo squallore dell'ultimo crepuscolo.

- Intanto, - riprese la madre, che non si scorgeva quasi più, - l'anticipazione... Sei andata a dirle che non ne avevi bisogno...

- Già! Come farai? - soggiunse Adelaide.

Nené guardò l'una e l'altra, poi alzò le spalle e rispose:

- Semplicissimo! Non glieli farò.

- Come? Se hai preso l'impegno! - disse la madre.

E Nené:

- Mi prenderò il gusto di farla sposare senza sacchettini. Oh, a lei poi non glieli fo, non glieli fo e non glieli fo! Questo piacere me lo voglio prendere. Non glieli fo.

La madre e la sorella non insistettero, sicure che la mattina dopo, ripensandoci meglio, Nené si sarebbe recata a provvedersi a credito della stoffa per quel lavoro di cui c'era tanto bisogno. Ma tutta la notte Nené s'agitò in continue smanie sul letto. Il padrone di casa venne nelle prime ore della giornata e si portò via tutto il denaro.

- Piove, Nené?

Pioveva anche quel giorno; e tutta la notte era piovuto.

Nené rifece il suo lettino; ajutò la madre a vestirsi; l'adagiò pian piano sulla poltrona; rifece anche il letto di lei e aggiustò alla meglio quello di Adelaide, che volle provarsi a seder di nuovo, sorretta dai guanciali. Ma perché? Se non c'era proprio nulla da fare...

Stettero in silenzio per un lungo pezzo. Poi la madre disse:

- E pettinati almeno, Nené! Non posso più vederti così arruffata!

- Mi pettino, e poi? - domandò Nené, riscotendosi.

- E poi... poi t'acconci un po' - aggiunse la madre. - Non vuoi davvero andare per quei sacchettini?

- Dove vado? con che vado? - gridò Nené, scattando in piedi, rabbiosamente.

- Potresti da lei...

- Da chi?

- Dalla tua amica, con una scusa...

- Grazie!

- Oh, per me, sai, - disse allora, stanca, la madre, - se mi lasci morire così, tanto meglio!

Nené non rispose, lì per lì; ma sentì in quel breve silenzio crescere in sé l'esasperazione; alla fine proruppe:

- Ma se non basto! se non basto! Non vedete? M'arrabatto e, per far più presto, invece di guadagnare, la ritenuta a quella strega ritinta! e qua i sacchettini alla giraffa sposa, che li vuol belli... Non ne posso più! Che vita è questa?

Adelaide allora balzò dal letto, pallida, risoluta:

- Qua la veste! Dammi la veste! Torno a bottega!

Nené accorse per costringerla a rimettersi a letto; la madre si protese, spaventata, dalla poltrona; ma Adelaide insisteva, cercando di svincolarsi dalla sorella.

- La veste! la veste!

- Sei matta? Vuoi morire?

- Morire. Lasciami!

- Adelaide! Ma dici sul serio?

- Lasciami, ti dico!

- Ebbene, va'! - disse allora Nené, lasciandola. - Voglio vederti!

Adelaide, lasciata, si sentì mancare; si sorresse al letto; sedette sulla seggiola, lì, in camicia; si nascose il volto con le mani e ruppe in pianto.

- Ma non fare storie! - le disse allora Nené. - Non prendere altro fresco, e non scherziamo!

La ajutò a ricoricarsi.

- Esco io, più tardi, - poi disse, facendosi davanti allo specchio sul cassettone, e ravviandosi dopo tanti giorni i capelli con un tale gesto, che la madre dalla poltrona rimase a mirarla per un lungo pezzo, atterrita.

Non disse altro Nené.
Prima d'uscire, col cappello già in capo, stette a lungo, a lungo, presso la finestra a guardar fuori, attraverso i vetri bagnati dalla pioggia.
Sul davanzale di quella finestra, in un angolo, era rimasta dimenticata una gabbietta, dalle gretole irrugginite, infradiciata ora dalla pioggia che cadeva da tanti giorni.
In quella gabbietta era stata per circa due mesi una passerina caduta dal nido, nei primi giorni della scorsa primavera.
Nené l'aveva allevata con tante cure; poi, quando aveva creduto ch'essa fosse in grado di volare, le aveva aperto lo sportellino della gabbia:

- Godi!

Ma la passeretta - chi sa perché! - non aveva voluto prendere il volo. Per due giorni lo sportellino era rimasto aperto. Accoccolata sulla bacchetta, sorda agli inviti dei passeri che la chiamavano dai tetti vicini, aveva preferito di morir lì, nella gabbia, mangiata da un esercito di formiche venute su per il muro da una finestrella ferrata del pianterreno, dov'era forse una dispensa. Proprio così. Quella passeretta era stata uccisa dalle formiche in una notte mangiata dalle formiche, sciocca, per non aver voluto volare. Per non aver voluto cedere all'invito, forse, d'un vecchio passero spennacchiato, ch'era stato in gabbia anch'esso tre mesi, una volta, per offese al buon costume.
Ebbene, no. Dalle formiche, no, lei non si sarebbe lasciata mangiare.

- Nené, - chiamò la madre, per scuoterla.

Ma Nené uscì di fretta, senza salutar nessuno. Mandò i denari, ogni giorno. Non la rividero più.

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Da un estremo all'altro

Post n°1186 pubblicato il 12 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Grande notizia,cari lettori:Pippiù non ride più,grazie alla magia di Zibidè!
Ora però però piange,istericamente e fragorosamente continua a provocare cataclismi su cataclismi,come passo a raccontarvi.
LUNEDI'- La Sargenta presente Pippipù ha ucciso un coniglio.Pippipù per il dispiacere ha allagato l'orto della cognata
MARTEDI'- Andata al cinema a vedere il film romantico "Senz'amore io non vivo a Spilamberto",Pippipù ha allagato il locale e a furia di singhiozzi ha fatto cadere il lampadario
MERCOLEDI'- Pippipù affettava la cipolla.
Ha allagato casa,danneggiato il soffitto di quelli del piano di sotto,che avevano appena finito di imbiancare casa.
Il vicino ha avuto un travaso di bile.
GIOVEDI'- Assistendo a un documentario sulle scimmie piangine Pippipù si è commossa.
I singhiozzi hanno mandato in frantumi i vetri nel raggio di 5km,e Cesarone per lo spavento è zompato sul campanile diventando il nuovo detentore del record di salto.
VENERDI'- Al compleanno della Carolina,i singhiozzi di Pippipù hanno fatto crollare il soffitto del soggiorno dei Piripicchi,che abitano al piano di sotto.
SABATO- Impietosita perchè Ireneo le ha raccontato che Belva deve fare dolorosissime iniezioni per i reumatismi,Pippipù ha consumato 1193 fazzoletti di carta.Ireneo ha dovuto prestarle una sua vecchia tonaca per soffiarsi il naso.
DOMENICA- Be'erino disperato ha riportato Pippipù in Burundi,sperando in un altro miracolo di Zibidè.
E' passata una settimana.
Cesarone è sempre sul campanile.
Il vicino e i Piripicchi hanno mandato il conto dei danni a Be'erino.Non oso pensare alla sua reazione quando lo vedrà.
Dal Burundi tutto tace ed io passo e chiudo

 
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Bacio (neruda)

Post n°1185 pubblicato il 12 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Ti manderò un bacio con il vento
e so che lo sentirai,
ti volterai senza vedermi ma io sarò li
Siamo fatti della stessa materia
di cui sono fatti i sogni
Vorrei essere una nuvola bianca
in un cielo infinito
per seguirti ovunque e amarti ogni istante
Se sei un sogno non svegliarmi
Vorrei vivere nel tuo respiro
Mentre ti guardo muoio per te
Il tuo sogno sarà di sognare me
Ti amo perché ti vedo riflessa
in tutto quello che c'è di bello
Dimmi dove sei stanotte
ancora nei miei sogni?
Ho sentito una carezza sul viso
arrivare fino al cuore
Vorrei arrivare fino al cielo
e con i raggi del sole scriverti ti amo
Vorrei che il vento soffiasse ogni giorno
tra i tuoi capelli,
per poter sentire anche da lontano
il tuo profumo!
Vorrei fare con te quello
che la primavera fa con i ciliegi.

 
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Libri dimenticati:Nell

Post n°1184 pubblicato il 12 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Una ragazza selvatica e libera,che insegna a due scienziati l'amore e la compassione.Da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°1183 pubblicato il 12 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Passare per idiota agli occhi di un imbecille è voluttà da finissimo buongustaio

 
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