Messaggi del 22/12/2011

Luci rosse a S.Tobia

Post n°1448 pubblicato il 22 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Settimana di passione quella appena trascorsa,lettori!
Tutto è cominciato quando nel nostro ameno paesino si è sparsa la notiza che nel suo film "Smutandati si gode meglio"il famoso regista porno Aleksej Porcolowsky aveva impiegato alcune insospettabili signore e signorine del posto.
Ne sono successe di ogni,vi assicuro,e per non tediarvi ulteriormente scendo subito nei dettagli.
LUNEDI'- Arcistraconvinto che una delle attrici fosse la moglie,Geremia per farla confessare l'ha chiusa in una bara irta di chiodi che ha poi spinto giù per la collina.La disgraziata è viva per miracolo
MARTEDI'- Adalberto Lepracchioni ha accusato la moglie di aver partecipato alla pellicola e di averci pure goduto.
Ovviamente è scoppiata una lite epica che tanto per cambiare ha coinvolto chi non c'entrava.
Pacuvio e Transilvania,defenestrati,sono finiti addosso a Maciste Trappoloni che portava a spasso la biscia..Melchiorre si è beccato la Tv in testa e per finire Cuccurullo ha rimediato un morso dall'Assuera e un calcio negli stinchi dall'Adalberto.
MERCOLEDI'- Libertario ha ingiunto alla sua fidanzata storica,Zeffirina Panciutelli,di ocnfessare la sua colpa pena il ripudio.
Comprensibilmente alterata, la ragazza,a colpi di bistecchiera,ha scassato la moto del fidanzato e ha poi completato l'opera con la fiamma ossidrica.Per finire,ha balllato la tarantella sui resti fumanti e li ha copsarsi di sale.
GIOVEDI- Evaristo ha affrontato la moglie e la suocera,ingiungendo loro di ocnfessare che la Mortulescu era la star del film e la Lugubrescu la sua manager.
Cuccurullo ha salvato in corner il poveraccio dal duplice impalamento transilvano.
VENERDI'- Be'erino ha accusato Pippipù.
Quando ha capito di che si trattava, la ciccionazza ha cominciato a ridere ed ha poi tirato un'amichevole pacca al marito,che adesso detiene il nuovo record di salto del campanile.
SABATO- Telesforo,dopo aver indagato nel più stretto riserbo,ha reso noto quanto ha scoperto
1 Porkolowsky non esiste
2 Se non esiste regista non c'è film
3 Autore di tanto scompiglio era,manco a dirlo,Bernabò Trogoloni!
E' passata una settimana.
La Fidalma è ricoverata alla clinica Luminaris.
Geremia è a Sollicciano insieme ai Lepracchioni.
Il QI di Maciste è sceso a 35.
Libertario è ricoverato in stato di choc all'ospedale di Pistoia.
La Zeffirina è partira per destinazione ignota.
Evaristo si trova in Alaska.
pippipù ride ancora,per la gioia di marito e vicini.
E Bernabò? Uccel di bosco,come sempre,ma prima o poi purtroppo tornerà
E con questa fosca previsione passo e chiudo.



 

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Ruggero Pascoli

Post n°1447 pubblicato il 22 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Povera cavallina storna... Anche nel suo nitrire e nell' omicidio del padre di Giovanni Pascoli, Ruggero, spuntano le costanti della storia italiana: i servizi segreti, i rapporti riservati, il terrorismo. Intrecciati, con il solito risultato di tenebre. Lo racconta il prorettore dell' università di Bologna, lo storico Angelo Varni. Ha scartabellato in archivi dimenticati, recuperato documenti.
Risultato? "La fotografia di una Romagna dove ci si uccideva a tutto spiano, la tensione sociale era fortissima contro il nuovo ordine sabaudo e l' autorità regia sapeva reagire solo con la repressione.
Così il prefetto di Forlì attribuì l' assassinio di Ruggero Pascoli a terroristi definiti mazziniani, ne fece arrestare un paio, usò il delitto per scatenare la caccia agli agitatori. Ma in realtà non mosse nessuna indagine. Tutto poi finì in niente, gli arrestati furono più tardi liberati senza clamori. Ma a tutti il meccanismo fece comodo. Alle società segrete perchè comunque dimostrarono la loro forza, al potere per colpire i dissidenti e compattare la gente impaurita". La cavallina storna finisce così fra i buchi neri della storia d' Italia? "Di mandanti ed esecutori si continua a non sapere nulla". Ruggero Pascoli, fattore della tenuta dei principi Torlonia, fu ucciso a fucilate il 10 agosto 1867 mentre rientrava a casa in calesse. Varni, 53 anni, allievo e assistente di Giovanni Spadolini, ha scoperto nell' Archivio di Stato di Forlì un rapporto "riservato" con cui il Prefetto il 16 agosto 1867 mandava a Roma le sue considerazioni. "Al momento è partito da me l' onorevole signor conte Achille Rasponi il quale mi ha confermato le gravi apprensioni in cui si sta a Savignano e descritto il timore che hanno tutti i proprietari di grano di essere trucidati come lo sventurato Pascoli".
Il fattore ucciso perchè "servo dei padroni"? "Ho appreso pure - continua il regio Prefetto - i gravi e fondati sospetti, e i non pochi indizi, che si hanno sugli autori dell' assassinio. Pare che esso non sia stato l' effetto di odii privati, o di inimicizia personale, ma sibbene la esecuzione di un accordo preso nelle Società Segrete di Cesena, che minacciano della stessa sorte altri 27 proprietari e che colgono a pretesto la esportazione del grano per ricominciare quella serie di assassinii, che desolarono codesto circondario sino all' anno scorso". Di prove contro gli "autori" non se ne cita nessuna. In compenso il Prefetto dà il via alla linea repressiva: "Bisogna agire con tutta energia ed assennatezza. Credere che gli assassini di Cesena sarebbero in un subito e miracolosamente divenuti galantuomi è follia, ed è anche maggiore quella di credere sciolte le loro congreghe. Nati ed educati al delitto sono trascinati a percorrere la sanguinaria via sino a che la giustizia non li segreghi dalla Società. Conviene adunque trovare tutti i mezzi per smagliare e sciogliere questa Società del misfatto". Si cita pure un manifesto del "partito che una volta comandava", a sostegno della tesi del complotto. Il 27 agosto 1867, dalla sottoprefettura di Cesena, partiva un trionfante telegramma dove si annunciava l' arresto, da parte dei carabinieri di Savignano sul Rubicone, di Raffaele Dellamotta e di Michele Sacchini, entrambi di San Mauro ed agenti di casa Torlonia. "Imputati assassinio di Pascoli Ruggero".
Bettino Ricasoli, ministro dell' Interno, mandava subito un plauso pomposo. Tutto già visto. Pardon che si sarebbe visto anche 100 anni dopo. Compreso il rilascio dei presunti killer. - 


 
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Mariù Pascoli

Post n°1446 pubblicato il 22 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Due donne e un uomo: una azzardata combinazione. Ma che siano anche fratelli è davvero una bizzarria. Ida, Maria e Giovanni: sappiamo molto di loro perché si chiamavano Pascoli, perché si scrivevano in continuazione con spudorata amorevolezza, perché Giovanni è stato uno dei poeti italiani più musicali e struggenti, con un tale senso della leggerezza e della felicità del gioco linguistico da risultare unico e meraviglioso nel panorama della letteratura italiana. Cercando notizie sui fratelli innamorati, mi sono imbattuta nel recente bellissimo libro di Cesare Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli (Einaudi), in cui l' autore si sofferma sul trio Pascoli con piglio psicanalitico e un poco di ripugnanza, da moralista laico. Inseguendo altri particolari, ho messo gli occhi sul Giovanni Pascoli, scritto da Gian Luigi Ruggio (Simonelli editore) in cui si scandaglia con pazienza e pignoleria all' interno dei particolari che riguardano il trio e poi il duo Pascoli. Ma tutti e due gli autori non possono fare a meno di pescare nel lunghissimo diario-confessione-cronaca, timorato ed esegetico, di Mariù Pascoli, che ho faticato a trovare perfino in biblioteca: Lungo la vita di Pascoli, pubblicato da Mondadori, curato da Augusto Vicinelli. Perché colpisce questa storia incestuosa, questo rapporto a tre così limpido ed esposto, privo di quelle ipocrisie che accompagnano di solito i rapporti famigliari «eterodossi» in una società cattolica e pettegola come la nostra? Il fatto è che in questa vicenda circola un' aria europea che ricorda gli infiammati e crudeli rapporti dei fratelli Mann fra di loro e col padre scrittore; ricorda le appassionate e dolorose avventure di Virginia Woolf che, pur amando il marito, teneva relazioni d' affetto e di desiderio con innamorati e innamorate che mano mano attraversavano la sua vita disinibita e sperimentale. Per non dire degli sberleffi di Oscar Wilde nei confronti della morale famigliare. Ci si chiede, leggendo le tante lettere amorose alle sorelle, se Pascoli avesse consapevolezza di quanto fosse anomalo e inquietante il legame con le due giovani donne. Le lettere testimoniano una completa naturalezza: mai un sospetto di difformità, mai una autocensura epistolare o la premura di nascondere ciò che a volte appariva, se non proprio indecente, per lo meno eccentrico agli occhi dei suoi contemporanei. La platonicità del legame sembra averli tenuti in bilico sul filo dello scandalo. Anche perché le analisi di Freud sulle strade serpentine del desiderio sessuale fra consanguinei non erano ancora molto conosciute e certamente Pascoli le ignorava. L' unica cosa che manca al trio in effetti, rispetto ai legami di cui parlavo prima, è proprio la consapevolezza della sessualità che pure è presente in ogni relazione d' amore, lecito o illecito che sia. Il cattolicesimo profondo della nostra cultura ha inibito sul nascere un amore che aveva tutto dell' incesto, salvo appunto la sessualità. Ma sappiamo che i sensi possono sublimarsi con complesse strategie sostitutive e Pascoli, che era un uomo rispettoso della decenza, ha saputo sublimare il suo amore senza vivere fino in fondo la trasgressione di un antico e temuto tabù. Ma fino a che punto sono state libere di scegliere le due ragazze? Fino a che punto sono state sacrificate all' egoismo del giovane fratello che si rifiuta di crescere? C' era gelosia fra le due sorelle? Da alcune lettere si direbbe di sì. Ida e Maria sono state rivali nell' attenzione del fratello, ma quanto questa rivalità le ha rese nemiche? In realtà le lettere rivelano anche molta solidarietà fra le due e un mutuo soccorrersi e sostenersi nei momenti difficili. Giovanni comunque, per quanto si facesse servire e accudire, non mancava di trattarle con tutto il rispetto che si deve alle spose che si amano. Lo dimostrano le lettere che spediva, anche due, tre al giorno, quando era costretto alla lontananza. «Il mio cuore è pieno di Ida e Maria. Se a Livorno non guardo le donne, quando sono a Roma o a Firenze le guardo con orrore. Oh le mie due piccine! O Ida! O Maria!». È un atteggiamento contraddittorio quello di Giovanni: un poco padre, «io ho il dovere d' essere il vostro babbo e voglio seguire il mio dovere ed esigere i miei diritti»; un poco fidanzato, «vi mando una delle foglioline mandate da voi, alla quale ho dato un bacio. Baciatele e le nostre labbra si incontreranno»; un poco marito, «io terrò la tua testolina bionda, o Ida sul mio cuore che non trema. Oh mio studio dove troverò l' odorino de' miei angioli ambrosi». Le due sorelle furono consenzienti, per lo meno nei dieci anni che vissero con lui come due spose premurose e fidate. Poi Ida si ribellò, cercò un uomo da amare e sposare, rompendo brutalmente il sortilegio di quel trio. Pascoli ne fu più che addolorato, sconvolto e in fondo non le perdonò mai la diserzione. Purtroppo il matrimonio di Ida non fu felice, il marito a un certo punto la piantò coi figli per andarsene in America da solo e lei dovette arrabattarsi per sopravvivere, mantenendo se stessa e i figli, con pochissimo denaro, regalatole in gran parte proprio dal fratello. «Il pensare che tu avrai ogni mese quattrini del tuo Giovanni che t' adora, e che penserai un poco a me è la cosa più bella che ci sia per me nel tuo matrimonio... col cuore tutto pesto e stretto, con le lagrime agli occhi, chiedo ai miei morti: datemi la forza di vincere questo pensiero che mi assedia e mi strazia: che io lavoro per far sì che Ida ami un altro più di me». Si faceva forte, Giovanni, cercava di mostrarsi magnanimo e sereno, ma non lo era. Il suo cuore bolliva e gli impediva di lavorare. La notte non dormiva più, di giorno non mangiava. «Ma se non lavoro io, la casa va a rotoli. Bisogna dunque ritornare al più presto», cercava di convincersi. Intanto c' è Maria che lo aspetta a Sogliano e a cui scrive: «Nonostante qualche ribellione di nervi io vedo, prevedo la mia felicità. La mia felicità sta in te. Tu mi ami, io ti amo. Si tratta forse per noi di un affetto che possa cedere a un altro maggiore più vivo e più caldo? Io so che da parte tua non è possibile; tu devi credere che da parte mia non è possibile (...). Ho lavorato e vissuto solo per te. Tu hai voluto e io che amavo ho voluto con te, tutto. Non ricordi? è così: tutto. L' Ida mi lascia (...). Io credevo la novità nuziale dell' Ida come una specie di sfacelo della mia famigliola... O stolto! per chi avevo fatta la mia casina? Per te Mariù... Oh mio angiolino bello e pallido e tremante e amoroso, con te vivere con te morire! La mamma non mi ha fatto invano, perché mi ha destinato il più piccolo dei frutti del suo ventre... Hai capito? angiolino mio bello! Una cordina al tuo ditino, una camerina vicina a me, e sempre assieme!». Il linguaggio rivela qui un manierismo autovezzeggiativo, un che di lacrimoso e affettato che costituirà la parte debole di molti suoi scritti. Cesare Garboli interpreta questo chiudersi a due come una rinuncia alla vita: «È diventato il poeta del lutto, del sacrificio e del dolore», scrive, «rassegnato a riempire di pietà e di significati simbolici una spenta vita a due». Ma, a prescindere dal carattere scontento e brontolone di Giovanni, non direi che la sua fosse una vita spenta. Era innamorato, forse della persona sbagliata, ma il suo amore era vivo e presente, anche se qualche volta lo portava a interrogarsi dolorosamente sul trio fatale: «Il mio torto è d' avervi considerato come figlie, mentre non ero un padre. Il padre ora invidia le figlie. Povero padre, povero padre! Ma credi, ora maritar te sarebbe una medicina all' altro maritaggio». Parla spesso di possibili mariti per la giovane sorella e, perché no?, non meriterebbe una sposa anche lui... ma chi? «Vedi che sarebbe ben necessario che io mi facessi un' altra famigliola», scrive a Mariù in una enfasi di indipendenza. «Ma poi non faccio nulla, ... mi alzo trovando subito la disperazione al capezzale, vado a letto piangendo quasi sempre con la testa piena di cognac. Oh! io sì che amo! (...) Se solo potessi vincere lo sviscerato affetto che mi lega a voi, sin da quando eravate bambine, ma non posso». In realtà due volte Pascoli prova a fidanzarsi, una volta perfino con una cugina, ma si ritira spaventato all' ultimo momento. «Mia povera Mariù, hai male? Perdona tutto il dolore che ti ho dato. Io ti amo infinitamente». E ancora, sempre rimuginando sul tradimento di Ida: «Se fa all' amore lei, vorrei farlo anch' io. È una necessità del mio spirito. Oh! io vorrei davvero essere il vostro babbo e la vostra mamma, ma non ci riesco. Tu mi dici che sono libero di prendere moglie e magari ti adopereresti perché la prendessi, ma a patto di morirne. Così io: facilito e faciliterò la vita all' Ida, come la faciliterei a te, ma a patto, ahimè (temo o spero? non lo so) di morirne». Ogni sentimento all' infuori del trio era interdetto, inaccessibile. Ma il trio si era azzoppato per la «perfidia» di Ida e non restava che chiudersi in una vita a due, forse non «spenta» come dice Garboli, ma certamente mutilata nella sua perfetta trinità sensuale.

 
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Carolina Cristofori Piva

Post n°1445 pubblicato il 22 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

C'è una scena madre, raccontata nel carteggio tra Giosue Carducci e Carolina Cristofori Piva, che risale al 13 maggio 1872. Una scena patetica e comica insieme. Il poeta trentaseienne, sposato con due figlie (Beatrice e Laura), ha conosciuto da pochi mesi la signora Cristofori (ribattezzata poeticamente Lidia), ventiseienne madre di Gino e sposa del colonnello ex garibaldino Domenico Piva. Carducci professore universitario a Bologna, Lidia aspirante poetessa residente a Milano: a vederla in una fotografia di quegli anni, infagottata in un abito a balze e merletti, dimostra il doppio della sua età. In una epistola preliminare dichiara al Carducci di essere rimasta rapita dai suoi versi al punto da baciare il libro su cui sono stampati. La lettera del 13 maggio viene scritta il giorno stesso in cui donna Elvira Menicucci trova la minuta di una missiva «abbastanza eloquente» destinata dal marito a Lidia. «Figurati la scena! Mi rimproverò e rinfacciò tante cose; e, povera donna!, mi addolorò e accorò da vero quando mi disse con accese parole della noncuranza con cui l'ho sempre trattata, dell'abbandono in cui l'ho tenuta, dei sacrifizi che ella ha fatto per me e a cui io non ho mostrato mai di attendere. Domani ella ti rimanderà, credo, i tuoi doni». Le ritorsioni non si fanno attendere, prima tra tutte la requisizione delle lenti dono di Lidia. Verranno poi i minacciosi biglietti anonimi inviati alla fedifraga.

Le lettere carducciane all'amata sono oltre seicento, un fiume in piena di sospirosi afflati e languori selezionati, anni fa, da Guido Davico Bonino, che ne ha offerto il meglio in Amarti è odiarti (Archinto). Sospiri e languori: «Ti mormoro gemebondo all'orecchio: Quanto ardo di rivederti! Addio, bella!», «io vorrei languire ai tuoi piedi; chiedendoti mercé, non so quante ore; perché chi può contar le ore, quando guarda negli occhi tuoi, anche se inginocchiato?». Invocazioni: «stringimi nei tuoi abbracci e inondami di baci». Materiale buono per le canzonette a venire. «La canaglia convenzionale e accademica» (i colleghi universitari) comincia a mormorare vedendo il Professore ogni giorno all'imbrunire seduto ai tavolini del Caffè dei Grigioni, dove scrive missive alla sua «dolce signora» ingollando bicchieri di grog.

I convegni d'amore, in sei anni (fino al 1878), non superano la dozzina: Parma, Lodi, il parco di Monza, Verona, Civitavecchia... Una relazione «più pensata che agita, più vagheggiata che realmente vissuta» osserva Davico. Tormentata e tormentosa per Carducci: «Lina, temo di perder la testa». Una storia che Lidia vive invece «come un dolce idillio di poesia, come uno scherzo gentile». Anche per questo deve esserle pesata parecchio la «torbida», «fanciullesca» gelosia del poeta, che se la prende soprattutto con un amico (ex partner?) della Cristofori, il poeta e critico Enrico Panzacchi. A quest'ultimo si devono molti dei pettegolezzi che circolano tra Bologna e Milano e che fanno infuriare il vate severo e barbuto (e un po' ridicolo): «Io voglio che tu tronchi ogni rapporto con lui. Finora di me non hai conosciuto che il fanciullo; ma, bada, in me v'è l'uomo». Oppure pacate ammonizioni, quando Lidia si trova in laguna non raggiungibile dall'amante sempre impegnato in viaggi e conferenze per far quadrare i conti familiari non proprio floridi: «Non sorrider troppo ad alcuno nelle gondole al lume di luna o al tramonto sul mare».

L'eco dei pochi contatti fisici è ovviamente gonfia di magniloquenza: «Io, del resto, sono tutto profumato di te; ti sento ancora sul mio cuore, tra le mie braccia, negli occhi miei e su le labbra». E di contorsioni retoriche: «Mi vien voglia di baciarmi per ribaciare i tuoi baci e i tuoi amplessi, oh come divini!». Agli slanci di voluttà irresistibile, si alternano considerazioni sulla quotidianità difficile e sulle beghe universitarie, pedanterie grammaticali, persino consigli fisico-estetici («non ti far bionda»), soprattutto ripiegamenti malinconici: «Sono qui solo, con un tempo orribilmente triste, con l'animo anche più triste del tempo». Ma anche ripensamenti e rabbie furibonde contro se stesso: «Io... io feci male a crearmi una famiglia, a legarmi alla vita di famiglia, che dà molti compensi, ma che a ogni modo inceppa gl'ingegni». E persino tirate iconoclaste sul matrimonio: «Sono stufo, stufo, stufo, e mando trecento volte al diavolo le mogli e i mariti, e giuro che l'abolizione del matrimonio è la riforma sociale più necessaria più logica più indispensabile, e che solamente per quella bisognerebbe fare la rivoluzione». Le nuvolaglie sull'amore tra Giosue e Carolina compaiono ben presto: l'esaltazione trascolora a poco a poco nello sconforto, la passione valica raramente i confini della retorica epistolare, anche se qua e là riemerge la «fisima» della gelosia e del sospetto che l'amica abbia ripreso ad «aprir le braccia agli ignoti» e a far «la graziosa agli imbecilli». Ma la scena pubblica finirà per prendere il sopravvento nelle aspirazioni dell'ormai Poeta con la maiuscola. I cui languori rimarranno sulla carta, così come probabilmente l'esibita nausea per se stesso, per le menzogne e per la propria vigliaccheria.


 
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Annie Vivanti

Post n°1444 pubblicato il 22 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Annie Vivanti nacque a Londra il 7 aprile 1866 (ultima di sei fratelli) da Anselmo, mazziniano di antico ceppo ebraico in esilio dalla patria dopo i moti del '51, e da Anna Lindau, giovane scrittrice tedesca sorella dei letterati Rudolph e Paul. Seguendo la famiglia nei suoi grandi spostamenti dietro le rotte del commercio della seta - e dunque da Londra a New York a Yokohama e poi Como e Milano – Annie imparò molte lingue che coltivò senza mescolarle. L'inglese era la lingua in cui pensava e in cui era sgridata; il tedesco quella delle fiabe e delle poesie; l'italiano quella delle canzoni e del melodramma. Aveva una bella voce coltivata di soprano, suonava con scioltezza pianoforte e chitarra, tirava di scherma, cavalcava come un'amazzone, disegnava con delicatezza; ma la vita ("terribile Romanziera") l'aveva resa scaltra e giocava il ruolo della fanciulla ignorante. Nel 1880 a Milano morì la madre. Fu mandata in collegio in Svizzera. Al ritorno – aveva sedici anni - trovò in casa la giovane matrigna, e fuggì. Per vivere cantava e suonava per le strade e certo fece qui le esperienze perturbanti che furono poi al centro di tutti i suoi romanzi. Di nascosto scriveva versi. Cominciò a presentarsi da sé a editori e poeti illustri con letterine ardenti, ironiche e ingegnose. La più bella la mandò a Giosue Carducci il 5 dicembre 1889. Il "sommo dei poeti viventi" la amò, la protesse, la innalzò, e fu ricambiato con profondissima intelligente tenerezza. Dopo il successo enorme del libro di versi lanciato dalla prefazione di Carducci (Lirica 1890), buttò giù la storia scabrosa di una piccola chanteuse che chiamò Marion, suo nome d'arte. Marion artista di Caffè-concerto (1891) fu accolto tiepidamente, così che fino al 1911 Annie non pubblicò in Italia, ma molto in America e con successo. Racconti ironici e frizzanti che guardano con sagacia i paradossi del vivere sociale: innamoramenti e disincanti, sogni grandi e piccole realtà, miserie affettuose e bisogni crudeli, in un gioco senza fine. Sempre inseguendo forsennatamente una chimera che Annie chiamava felicità: In cerca di felicità (The Hunt for Happiness) intitolò un romanzo del 1896. Ne scrisse altri, e commedie spassose rappresentate a Brodway da compagnie di grido e in Europa a Parigi, a Praga. Il 17 febbraio 1907 morì Carducci (il grande Orco, com'era nei loro scherzi) dopo il conferimento del Nobel (1906). Annie chiese invano di essere ricevuta dalla famiglia mentre soffriva disperatamente la fine della sua favola bella. Su quest'onda nel 1909 cominciò a comporre The Devourers – I divoratori – il romanzo che subito tradotto la riportò al successo e all'Italia. La grande Annie, come la chiamava Sibilla Aleramo, chiuse dolorosamente la sua vita. Internata ad Arezzo perché cittadina inglese, ebbe lì la notizia della morte di Vivien sotto i bombardamenti di Londra, ma in realtà suicida a Brighton nel settembre 1941. Liberata dal Duce, morì a Torino il 20 febbraio 1942 dopo essersi convertita al cattolicesimo, nel silenzio imposto dalle leggi razziali. Sulla sua tomba al Cimitero Monumentale di Torino ci sono i versi che le dedicò Carducci: «Batto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori/ glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie…». E' merito di Elvira Sellerio se oggi non siamo più costretti a cercare i libri di Annie Vivanti in biblioteca. Procede la traduzione dei titoli americani mentre la serie di quelli italiani si inaugura col primo, Marion artista di Caffè-concerto, dopo 125 anni esatti. Non è impresa da poco far rivivere uno scrittore accantonato o fuori canone, figuriamoci una scrittrice come Annie Vivanti che si è destreggiata tra due secoli. Come viatico di questo ritorno dedichiamo a chi ci legge un vero gioiello:

Ad Annie
Batto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori
glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie.

Vedi: il sole co 'l riso d'un tremulo raggio ha baciato
la nube, e ha detto – Nuvola bianca, t'apri –

Senti: il vento de l'alpe con fresco susurro saluta
la vela, e dice – Candida vela, vai –

Mira: l'augel discende da l'umido cielo su 'l pèsco
in fiore, e trilla – Vermiglia pianta, odora -

Scende da' miei pensieri l'eterna dea poesia
su 'l cuore, e grida – O vecchio cuore, batti –

E docile il cuore ne' tuoi grandi occhi di fata
s'affisa, e chiama – Dolce fanciulla, canta –
Giosue Carducci, 30 marzo 1890

 
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Lettere (Merini)

Post n°1443 pubblicato il 22 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Rivedo le tue lettere d'amore
illuminata adesso da un distacco,
senza quasi rancore.

L'illusione era forte a sostenerci,
ci reggevamo entrambi negli abbracci,
pregando che durassero gli intenti.
Ci promettemmo il sempre degli amanti,
certi nei nostri spiriti divini.

E hai potuto lasciarmi,
e hai potuto intuire un'altra luce
che seguitasse dopo le mie spalle.

Mi hai resuscitato dalle scarse origini
con richiami di musica divina,
mi hai resa divergenza di dolore,
spazio, per la tua vita di ricerca
per abitarmi il tempo di un errore.

E mi hai lasciato solo le tue lettere,
onde io le ribevessi nella tua assenza.

Vorrei un figlio da te,
che sia una spada lucente,
come un grido di alta grazia,
che sia pietra, che sia novello Adamo,
lievito del mio sangue
e che dissolva più dolcemente
questa nostra sete.

Ah se t'amo!
Lo grido ad ogni vento
gemmando fiori da ogni stanco ramo,
e fiorita son tutta
e di ogni velo vò scerpando il mio lutto
perché genesi sei della mia carne.

Ma il mio cuore trafitto dall'amore
ha desiderio di mondarsi vivo,
e perciò, dammi un figlio delicato!
Un bellissimo vergine viticcio
da allacciare al mio tronco.

E tu, possente padre,
tu olmo ricco di ogni forza antica,
mieterai dolci ombre alle mie luci.

 
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Libri dimenticati:Una di loro

Post n°1442 pubblicato il 22 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Una classe molto speciale di bambini speciali.Torna Torey Hayden con un altro bellissimo libro

 
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Frase del giorno

Post n°1441 pubblicato il 22 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Chi dà retta al cervello degli altri può friggersi il suo (Mia nonna)

 
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