Messaggi del 19/01/2012

Scrittori dimenticati:Armando Meoni

Post n°1683 pubblicato il 19 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

acque a Prato il 18 gennaio 1894. Natura curiosa e talento precoce, Meoni, prima della maggiore età, fu militante socialista e cronista politico e letterario su periodici di area sindacale e progressista. Fu un futurista quasi della prima ora (a 15 anni entrò in contatto epistolare con Marinetti), attore mancato alla scuola di recitazione teatrale di Tommaso Salvini, studente delle Scuole tecniche del Cicognini, dove conobbe Kurt Suckert, poi Malaparte (un’amicizia ostinata, come tutte quelle tra persone così diverse, che durerà per sempre).
Questa prima vertiginosa fase della vita di Meoni si concluse con un matrimonio (1915) e la partenza per la guerra l'anno successivo. Secondo il consueto genius loci pratese, Meoni, prima come impiegato e in seguito come rappresentante in proprio, si occuperà sempre di materie prime tessili, guadagnandosi con questo da vivere e, in più, ricavandone la fama, coltivata non senza una punta di civetteria, di scrittore “dilettante” e appartato: uno scrittore di provincia, ma non provinciale, insomma.
La sua carriera letteraria iniziò nel 1933, quando Mondadori gli pubblicò il romanzo Creare. Ma fu con l’editore fiorentino Attilio Vallecchi che Meoni trovò duratura sintonia: La Cintola (1935), Richiami (1937), Povere donne (1942).
Alla liberazione Meoni fu vice-sindaco di Prato: inizio di un impegno amministrativo che lo vedrà per molti anni, affabile ma intransigente «come un giacobino senza il Terrore», consigliere comunale e provinciale e - dal 1946 al 1966 - presidente dell'Ospedale di Prato.
Pubblicò quindi L'ombra dei vivi (1949), La ragazza di fabbrica (1951, per lui il massimo successo di pubblico, anche a livello internazionale), Assedio a Firenze (1956), Età proibita (1958), La cupidigia (1968), Prato ieri (1971), e altri. Scrittore solo apparentemente ‘realista’, che amò esplorare i conflitti tra individuo e società, ma anche i tormenti dello spirito e della carne, Meoni lasciò anche una copiosa produzione di racconti e di articoli e almeno due incantevoli libri per ragazzi: Sparalagrossa e Pinnatonda.
Alla morte, nel 1984, le spoglie di Meoni, massone da sempre, vennero cremate: ignoti amici disperderanno ‘illegalmente’ le sue ceneri, quattro anni dopo, sul Bisenzio, al ponte di Canneto.

 
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Scrittori dimenticati:Lucio D'Ambra

Post n°1682 pubblicato il 19 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Nasce a Roma (Italia) il 1° novembre 1880. Autore estremamente prolifico e di successo, romanziere, saggista (a lui si deve la scoperta in Italia di Proust in Rassegna contemporanea nel 1913), commediografo, impresario teatrale, si dedica anche al cinema ottenendo un successo ragguardevole di critica e di pubblico. Lavora per case di produzione come Medusa, Film D’Arte Italiana, Do.Re.Mi. in veste di soggettista e sceneggiatore a fianco di Eugenio Perego, Carmine Gallone, Amleto Palermi.
Esordisce nella regia nel 1917 con "Emir cavallo da circo".
Nel 1919 fonda la casa di produzione D'Ambra Film, che confluisce nel 1922 nell'UCI (Unione Cinematografica Italiana).
Il suo nome, tra il 1916 e il 1922 è legato a oltre quaranta titoli, poi andati in gran parte perduti; tra questi "Effetti di luce" (1916) di Ugo Falena, "La signorina Ciclone" (1916) di Augusto Genina, "Carnevalesca" di Amleto Palermi, "L'illustre attrice Cicala Formica" (1920) dello stesso D'Ambra, "La fine dell'amore" (1922) di G. Bistolfi.
Nel 1920 è direttore di Romanzo-film, con romanzi quindicinali tratti da film di successo e scritti dallo stesso regista.
Negli stessi anni, mentre va scemando la fortuna critica, teorizza la sua idea di cinema come "fantasia degli occhi" nel saggio "Il mio credo" (in Rassegna generale della cinematografia, Roma 1920) e rivela il particolare interesse per la composizione figurativa — testimoniato anche dalla frequente collaborazione con artisti e pittori che creano le scenografie geometrico-floreali — per i valori cromatici e il ritmo compositivo.
Il suo nome però si lega soprattutto alla commedia leggera e al gusto per gli intrighi comico sentimentali che gli valgono nel 1935 il parallelo con Lubitsch. Influenza buona parte della produzione italiana di quegli anni.
Altri titoli di film: "Le mogli e le arance", all'epoca al centro di un eclatante caso di censura, "Due sogni ad occhi aperti" e "La principessa bebè".
Come autore drammatico scrive "Il cavallino rosso" (1928), "Montecarlo" (1929) e "Solitudine" (1936). Muore a Roma (Italia) il 31 dicembre 1939.

 
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Scrittrici dimenticate:Willy Dias

Post n°1681 pubblicato il 19 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Viveva a Genova da anni (dal primo dopoguerra) una singolare triestina, Willy Dias, giornalista in forza a "l'Unità", scrittrice rosa di successo un tempo e ora del tutto obliata, la cui autobiografia, Viaggio nel tempo (1958), merita attenzione per le non comuni frequentazioni triestine e viennesi dell'autrice, che vanno da Arthur Schnitzler, a Italo Svevo, a James Joyce ("dalla barbetta rossiccia e dagli occhi di porcellana azzurra") fino a un Franz Kafka, piacevole interlocutore a Gorizia. Nella sua vecchiaia genovese la Dias ha anche il merito di promuovere la pubblicazione di una sopravvissuta di Auschwitz: si tratta di Il fumo di Birkenau (1947) di Liana Millu, che al momento non riscuote particolare fortuna, come capita invece a Se questo è un uomo di Primo Levi edito nello stesso anno. La durezza di tali racconti risulta indigesta ai più, che preferiscono rimuovere un orrore così vicino, ma con il tempo il romanzo diventa un long-seller, tradotto nelle principali lingue europee.

Nascita di una giornalista antifascista: Willy Dias e il suo Viaggio nel tempo Scrittrice di punta dell'editore Cappelli, la triestina Willy Dias (Fortunata Morpurgo Petronio, 1872, Trieste -1956) pubblicò più di cinquanta romanzi rosa. Redattrice per lungo tempo del « Caffaro », collaborò poi alla sezione genovese dell'«Unità ». In Viaggio nel tempo (1958), la Dias mentre costruisce un'immagine solare di sé, dà rilievo all' identità di giornalista a scapito di quella di romanziera. Il romanzo autobiografico, in continua osmosi con il resto del corpus della scrittrice, ripercorre anche le tappe di un itinerario attraverso due guerre, dall'acceso irredentismo e interventismo al convinto antifascismo e femminismo. I ricordi della prima guerra mondiale sono filtrati attraverso memorie d'infanzia legate ai luoghi caldi del conflitto. (Cristina GRAGNANI - University of Illinois at Chicago)

Willy Dias - 1958

….Mi decisi per Genova. Del resto, Genova, che non avevo mai visto, mancava alla visione panoramica d’Italia che mi facevo sfilare davanti gli occhi…. Quel giorno non era proprio il più indicato per arrivare a Genova. Luglio? Agosto? Non ricordo. Questo so, che faceva un caldo tropicale e che tutte le fabbriche di Sampierdarena parevano ventarmi in faccia aliti di fuoco. Siccome ho sempre avuto la simpatica preveggenza d’avere degli amici nei più diversi luoghi, trovai a Principe un amico che pazientemente mi aspettava. Una piccola sosta all’albergo per depositare il bagaglio e poi via sotto il solleone in carrozza scoperta, a godermi la sfilata dei palazzi superbi che si allineavano per le strade…. E mi imbattei soltanto nel letto asciutto del Bisogno. Ebbi l’impressione … che a Genova l’acqua doveva essere una cosa piuttosto preziosa.

In Corso Torino, frusciante dei suoi begli alberi maestosi, m’accolse uno studio pieno di libri e d’ombra e mi trattenne fino a sera, quando dal mare sorse un po’ di vento che, con molta benevolenza, qualificammo di fresco e che ci decise a riaffrontare il caldo delle strade.

Il paziente amico mi chiese dove volevo andare. Ma, al Caffaro, naturalmente, dove nessuno mi conosceva, dove nessuno mi aspettava, sebbene io vi collaborassi, più o meno saltuariamente, da un gran numero di anni, da quando al liceo, invece di seguire le lezioni dei professori, architettavo delle novelle, tipo Matilde Serao, ma si capisce, infinitamente più false e più brutte.

Via Venti Settembre mi parve meravigliosa, i suoi portici affollatissimi e le sue vetrine scintillanti di mille luci. Poi salimmo in un tram, il famoso ventisette, che in quell’epoca non doveva aver raggiunto la celebrità di oggi, perché altrimenti la mia distrazione mi avrebbe alleggerito del peso della borsetta.

E scendemmo al Portello. Il Portello, s’intende, non esisteva per me. Esistette, per un momento, la buffa idea che c’era nel mondo la redazione d’un giornale alla quale non si poteva arrivare che attraversò un tunnel.

Entrai in quella redazione con la disinvoltura che può dare soltanto la più invincibile timidezza.Data l’ora c’erano pochi colleghi, ma la cordialità di Chiossone è sufficiente a riempire anche più vaste stanze. E subito sentii la simpatica famigliarità che vi regnava, non immaginando che proprio tra quei mobili, nel periodo più turbato della mia vita, avrei trovato la pace, il lavoro, il pane alla mia povertà improvvisata dalla guerra, la bontà di care e fedeli amicizie che mi hanno aiutato a sopportare l’angoscia di tutto quello che avevo lasciato, il rimpianto di tutto ciò che ho perduto .

Più tardi, un altro amico ch’era venuto a prendermi al Caffaro, mi fece salire in carrozza e mi portò in un divino posto da cui si scorgevano il porto, la lanterna, l’ampio mare tutto inargentato dal plenilunio, mentre dietro a noi qualche villa armoniosa e silenziosa si profilava con nitidezza.

Dove mi avevano portato quella sera? sulla terrazza di via Corsica? al Corso d’Italia ? al Lido? Non volli chiederlo mai: preferii sempre restare nel dubbio della inverosimile notte. Eppure sapevo l’incanto della luna sul mare.

 
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Il duca di Atene

Post n°1680 pubblicato il 19 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

rano appena terminate le guerre tra guelfi e ghibellini, con la sconfitta di questi ultimi nella battaglia campale di Campaldino nel 1289, che si riaccendevano le lotte di fazione, questa volta tra guelfi bianchi e guelfi neri.

La Porta Segreta di Palazzo Vecchio

Come sempre a patire di più queste continue lotte erano i commercianti, i banchieri, il motore trainante dell’economia fiorentina, fatta di sontuosi prestiti e copiosi traffici. Fu deciso di porre rimedio a questo problema affidando ad uno straniero il governo della città per ricomporre in modo pacifico e neutrale le dispute tra le due avverse fazioni.

Quindi nel 1342 fu mandato da re Roberto, Gualtiero di Brienne duca d’Atene per cercare di riappacificare gli animi. Il Duca fu ricevuto con tutti gli onori in Piazza della Signoria dove il popolo vociante lo incoronò Signore di Firenze. Gualtiero fece immediatamente cacciare i Priori delle Arti assumendo poteri assoluti. In poco più di 10 mesi fece più danni della grandine, come si dice a Firenze.

Il Villani riporta a proposito:

"In dieci mesi e diciotto dì ch’egli restò signore, gli vennero alle mani, di gabelle e d’estimo e di prestanze e di condamnazioni e d’altre entrate, presso che quattrocentomila fiorini d’oro solo di Firenze".

Il popolo sconvolto da tali ruberie e dai continui soprusi, si sollevò cercando inferocito il duca d’Atene per appenderlo in bella vista, come succedeva in quei casi, dalle finestre di Palazzo Vecchio o da quelle del Bargello sede degli Otto di Guardia.

Gualtiero di Brienne era sempre stato un godereccio e per fare le sue uscite notturne ed anche per paura che i suoi soprusi avessero fatto adirare più di una persona, si fece costruire una scala nascosta che dalla sua camera da letto portava fin giù alla strada, sbucando da una "Porta Segreta", una piccola porta costruita nello spessore delle mura di Palazzo della Signoria, che usciva in via della Ninna e quindi da questa poter indisturbatamente uscire dal Palazzo Vecchio senza essere visto.

Ed ebbe un buon intuito, infatti la conoscenza intima di se stesso gli salvò la vita, la sera del 26 luglio 1343.

In piena notte, svegliato dalle orribili urla del popolo inferocito, fu aiutato dai suoi amici a fuggire velocemente proprio da quella "Porta Segreta". Così riuscì ad allontanarsi da Firenze e, seppur stravolto dalla rocambolesca fuga, riuscì a conservare la testa sul collo.

Ovviamente il duca d’Atene non fece più ritorno a Firenze, ma quella porta rappresenta un documento importante di quegli avvenimenti e la si può ancora vedere nella fiancata di Palazzo Vecchio, a metà strada di via della Ninna, inglobata nella parete esterna.

 

 
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I Ciompi

Post n°1679 pubblicato il 19 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

I Ciompi, il cui nome derivava dalla corruzione del termine francese compère, erano lavoratori salariati della lana; appartenevano ad uno dei gradini più bassi della scala sociale; avevano come luogo di ritrovo la chiesa di santa Maria dei Battilani in Via delle Ruote; erano privi di rappresentanza nel sistema corporativo delle Arti e dei Mestieri e, pertanto, non godevano di alcuna attenzione politica e venivano pagati in quantità appena utile alla sopravvivenza, con una sottodivisione del fiorino.

La svalutazione del rame, col quale la moneta era coniata, fu all'origine della loro sommossa: nel 1378 essi accamparono il diritto di associazione e di presenza comunale, ponendosi fra i primi esempi di reazione economico/politica del Medio Evo.

La vicenda  

Cominciò con le violente lotte fra la fazione aristocratico/borghese del Magistrato guelfo Pietro degli Albizzi, di Lapo di Castiglionchio e di Carlo Strozzi e la consorteria piccolo/borghese dei Ricci, degli Alberti, dei Medici, di Giorgio Scali e di Tommaso Strozzi colpiti nel 1372 dall’Ammonire: la legge, emanata nel  1347 ma inasprita nel 1358, condannava i ghibellini all’interdizione sine die dalle cariche pubbliche, accentuando l’ arroganza dei Capitani guelfi ed instaurando una odiosa politica della sopraffazione.

I primi sintomi di rinnovato malessere si manifestarono il 18 giugno del 1378 quando d'intesa con Alberti, Strozzi e Scali, il Gonfaloniere di Giustizia Silvestro dei Medici convocò il Collegio delle Compagnie e il Consiglio del Popolo proponendo una la rimessa in vigore per un anno degli ordinamenti giudiziari contro i Grandi; la diminuzione dell’autorità dei Capitani ed il reintegro degli Ammoniti nei loro uffici. Ma, a fronte dell’opposizione alle richieste, espressa la impossibilità a provvedere al pubblico benessere per l'ostracismo della Signoria, egli si dimise dall’incarico.

Le sue dichiarazioni, tuttavia, allarmarono il Consiglio del Popolo fino a rendere necessaria la presenza dei Priori che, lungi dal placare la concitazione, la accesero minacciando di morte i sostenitori degli Albizzi mentre Benedetto Alberti dalla finestra eccitava la gente al grido di Viva il popolo!

Chiuse le botteghe, la piazza si armò e il pericoloso fremito di reazione portò all’approvazione delle pretese avanzate da Silvestro. Il positivo risultato, però, produsse altre rivendicazioni; rimise in gioco la rivalità tra le Arti Maggiori e le Arti Minori; rilanciò il disagio degli Artigiani, subordinati alle soverchierie delle Arti.

Il 20 giugno le Corporazioni si riunirono e procedettero all’elezioni dei Sindaci per poi recarsi, munite di armi e bandiere, in piazza della Signoria ove ottennero la nomina di una Balìa di ottanta  cittadini con facoltà di presentare riforme.

Mentre se ne selezionavano gli esponenti, alcuni membri delle Arti Minori con nutriti gruppi di contadini saccheggiarono ed incendiarono le abitazioni di Lapo da Castiglionchio, degli Albizzi, dei Bondelmonti, dei Pazzi, di Cario Strozzi, di Migliore Guadagni.

II 21 giugno, disorientata dai violenti incidenti del giorno avanti, la Balìa approvò importanti concessioni a favore del Popolo; revocò una serie di disposizioni riferite all’autorità dei Capitani ed emanò un’amnistia agli Ammoniti, limitandone l’esclusione dalle pubbliche funzioni ad un solo triennio.

Ripristinata la pace, furono eletti i Priori ed il nuovo Gonfaloniere, nella persona di Luigi Guicciardini: entrata in carica il 1° luglio, la Signorìa ordinò ai cittadini di deporre le armi; allontanò i protagonisti delle turbolenze dei giorni precedenti; assunse una serie di iniziative a garanzia della sicurezza pubblica.

Ma, malgrado le apparenze, gli animi erano ancora accesi; non era stato rispettato il disarmo e gli Ammoniti protestavano contro l’insufficienza dell'amnistia.

Le Corporazioni, pertanto, si riunirono nuovamente l’11 luglio ottenendo che: chi, dopo il 1320, avesse ricoperto una carica sociale di rilievo, non potesse essere ammonito e, se lo fosse già stato, venisse reimmesso nel suo diritto; il Capitanato di parte guelfa fosse sottratto alla fazione fino ad allora titolare; fossero imborsati i nomi dei futuri Capitani.

In definitiva, dai vantaggi restò escluso il solo Popolo minuto i cui esponenti, temendo d’essere puniti per l’adesione ai torbidi; impauriti dalle conseguenze dei saccheggi cui avevano partecipato ed aizzati da Simoncino Bugigatti, Paolo della Bodda, Lorenzo Riccomanni, organizzarono un piano segreto di difesa contro i provvedimenti della Signorìa che, edotta del complotto, ordinò l’arresto e la tortura del Bugigatti e di tre compagni.

E fu la rivolta dei Ciompi.

Il 20 luglio del 1378, al suono delle campane delle chiese, essi si armarono; bruciarono la casa del Gonfaloniere di Giustizia, asportandone il drappo; ottennero la liberazione dei tre detenuti e il giorno dopo assaltarono il Palazzo del Podestà donde inviarono un duro ultimatum alle Istituzioni cittadine,  dettando secche ed ineludibili condizioni: abolizione del Giudice straniero dell'Arte della lana; creazione di tre nuove Corporazioni dei Mestieri; concessione al Popolo della quarta parte delle cariche pubbliche, compreso il Gonfalonierato di Giustizia; sospensione per un biennio dei giudizi per debiti inferiori ai cinquanta fiorini; limitazione del potere dei Capitani.

La Signoria accolse le istanze e il Consiglio del Popolo le approvò in attesa della ratifica del Consiglio comunale che, per legge, poteva essere riunito solo nel giorno successivo.

I Ciompi attesero, ma pretesero che le chiavi delle porte cittadine fossero consegnate ai Sindaci delle Arti e che i Priori licenziassero le milizie impegnate sulla piazza.

Il 22 luglio, mentre l’assise comunale si accingeva a pronunciarsi sulle richieste, i Ciompi intimarono alla Signorìa di abbandonare il palazzo: Tommaso Strozzi e Benedetto Alberti obbligarono i Priori ad uscire minacciando, in caso di resistenza, il massacro delle loro famiglie.

L’accoglimento delle pretese suscitò un’ondata di trionfalismo, enfatizzata dalla esibizione del gonfalone di giustizia  da parte del giovane cardatore di lana Michele di Lando. Acclamato Gonfaloniere, egli fu incaricato anche di riformare la Signoria; tuttavia saggiamente accettò solo il primo onere e, insediatosi, vietò ogni ricorso alla violenza; creò le tre nuove arti dell'Agnolo, dei Cardatori e dei Farsettai e, in onore ai patti, fece eleggere nella metà della nuova Signoria i designati del Popolo.

Il 24 luglio i neoeletti occuparono gli uffici; garantirono alla città la rimozione di tutti i vecchi rancori; richiamarono gli esuli; condonarono le pene per i fatti avvenuti; conciliarono con la volontà popolare le nuove imborsazioni del Comune ordinate dalla Balìa; divisero i ruoli in parti uguali fra le Arti Maggiori e Minori e la recenti istituite dai Ciompi che, da quel momento, contarono su Magistrati scelti dal proprio gruppo e, a tutela dei loro interessi, sedettero nei Consigli della Repubblica.

A conferma della generale pacificazione, nella Messa celebrata il 3 agosto in San Giovanni, presente la Signoria, fu revocato l’interdetto ecclesiastico.

Persuasi del buon esito della rivoluzione e del miglioramento delle loro condizioni economiche e politiche, i Ciompi si ritrovarono, invece, privi di lavoro e reddito: a causa dei tumulti, le fabbriche erano state chiuse.

L’aumento della disoccupazione produsse nuove turbolenze.

Il 27 agosto una riunione in piazza San Marco; un’altra in Santa Maria Novella ed una terza davanti al Palazzo della Signorìa degenerarono in scontri brutali: l’esame delle nuove proteste fu affidato ai nuovi Priori che sarebbero entrati nella carica solo il successivo 1° settembre.

Il 31 agosto fu rinfacciato al Gonfaloniere Michele di Lando il disinteresse per le difficoltà economiche di quanti lo avevano eletto e gli fu duramente ingiunto di dimettersi: irritato da tanta insolenza, egli pose mano alla spada; fece arrestare i sediziosi; munito dell’insegna, scese in piazza e, raccolta al grido di libertà una schiera di armati, aggredì e disperse i Ciompi che, sconfitti dal loro stesso referente, persero tutte le posizioni conquistate.

Il 1° settembre, infatti, la nuova Signoria escluse i membri popolari dal Governo e disciolse una delle tre nuove Arti avvantaggiando la piccola Borghesia di Silvestro dei Medici, Benedetto Alberti, Giorgio Scali e Tommaso Strozzi.

La pace era sfumata e la gente era agitata dalle continue prepotenze dello Strozzi e dello Scali, un compagno del quale fu arrestato il 15 gennaio del 1382.

Senza indugio, essi assalirono il palazzo del Capitano del Popolo e liberarono il detenuto; ma la Signoria reagì immediatamente: Tommaso Strozzi fuggì a Mantova; lo Scali, invece, fu spietatamente decapitato.

Il 21 gennaio, occupata la piazza, armi in pugno la fazione degli Albizzi istituì una Balìa di centotrè cittadini cui dettero l'incarico di riformare l’Esecutivo.

Prevalse, naturalmente, l’odio che cancellò ogni elemento rivoluzionario; oppresse le due Arti di recente istituzione; stabilì che dal 1° marzo il Gonfaloniere di Giustizia sarebbe stato selezionato fra le Arti Maggiori; annullò le sentenze di Ammonizione; avviò una dura persecuzione degli avversari irrogando molte pene capitali ed esiliando Silvestro de' Medici a Modena per cinque anni e Michele di Lando a Chioggia e poi a Padova, condannandolo nel novembre del 1383 in contumacia alla decapitazione ed alla confisca dei beni per essersi avvicinato a Firenze, in spregio dei limiti di duecento miglia di distanza impostigli.

La rivoluzione era sostanzialmente fallita e, come scrisse Filippo Villani,…I Ciompi se ne andarono sì come gente rotta, et senza capo et sentimento, perché si fidavano et furono traditi da loro medesimi… mentre la dominazione del Popolo grasso, alleato col Popolo minuto, era di fatto restaurata.


 
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Il tuo ritono sarà il mio ritorno (Cummings)

Post n°1678 pubblicato il 19 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

il tuo ritorno sarà il mio ritorno
i me stesso ti seguono, io solo resto;
un'effige d'ombra o che pare
(un quasi qualcuno ch'è sempre nessuno),
un nessuno, che, fino al loro e tuo ritorno,
passa perenne la sua solitudine
a sognare i loro sguardi aprirsi al tuo mattino
a sentire le stelle levarsi nei tuoi cieli:
quindi, nel nome misericordioso dell'amore,
non tardare più di quanto io privo di me
sopporti l'assenza dell'attimo in cui un altro
stringa fra le braccia la mia stessa vita che è tua
-quando paure, speranze, credi, dubbi, spariranno.
Ovunque e della gioia perfetta integrità siamo.

 
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Libri dimenticati:La figlia francese

Post n°1677 pubblicato il 19 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Bellissimo e intenso romanzo d'esordio delle sorelle Keating

 
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Frase del giorno

Post n°1676 pubblicato il 19 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Se sarai solo sarai tutto tuo (Leonardo)

 
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