Messaggi del 30/01/2012

Scrittrici dimenticate:Marise Ferro

Post n°1764 pubblicato il 30 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

21 giugno 1905

Maria Luisa Ferro nasce a Ventimiglia, il padre Giovanni Battista, piemontese, è colonnello dell’esercito, la madre, Vilna Viale, figlia di un armatore di Ventimiglia.

 

 

1911

Nasce la sorella Silvana, poco dopo i genitori si separano. Le due figlie passano molto tempo con i nonni materni, la nonna materna è di origine francese.

 

 

1922

Dopo la morte del nonno materno, Maria Luisa Ferro si trasferisce a Bologna dove la madre possiede una casa, ma non vi abita stabilmente perché frequenta la Scuola Magistrale di Genova per conseguire la licenza di maestra, corso che a un certo punto interrompe per seguire studi autodidattici. Fino al 1930 la sede di base resta la casa di Bologna.

 

 

1930-1932

Si trasferisce con la madre e la sorella a Roma dove scrive il primo romanzo, Disordine, pubblicato, con introduzione di Alessandro Varaldo, a Milano da Mondadori. Per la pubblicazione del libro trasforma i suoi nomi, Maria Luisa, in Marise, nome che da allora sarà il suo nome di scrittrice, ma anche il nome scelto per la vita privata.

 

 

Gennaio 1933

Marise Ferro si trasferisce a Milano per dedicarsi interamente all’attività di scrittrice e di giornalista. A Milano conosce lo scrittore e giornalista Guido Piovene al quale si lega dopo pochi mesi.

 

 

21 febbraio 1934

Marise Ferro si sposa civilmente con Guido Piovene, il matrimonio religioso avviene pochi giorni dopo. I coniugi si trasferiscono subito dopo a Firenze dove Piovene lavora nella redazione della rivista “Pan”.

 

 

Fine 1934

Esce da Mondadori il suo secondo romanzo, Barbara.

 

 

Inizio 1935

Guido Piovene è assunto dal “Corriere della Sera” come giornalista, gli viene dato l’incarico di corrispondente da Londra.

 

 

1935-1937

Marise Ferro soggiorna, insieme al marito, a Londra dove scrive per il giornale “L’Ambrosiano” nella serie delle Lettere londinesi reportages dall’Inghilterra e dall’Irlanda, che visita in quegli anni. Negli stessi anni ’30 collabora a giornali e riviste (“L’Ambrosiano”, 1933-1937, “Pan” nel 1934, “Il Resto del Carlino”, 1934-1935). Nel 1933 escono anche le prime traduzioni dal francese di Marise Ferro (Mauriac e Simenon), attività che sarà molto intensa negli anni ’40 - ’60 e comprenderà traduzioni dal francese (tra gli altri Balzac, Victor Hugo, Proust, Colette, ma anche le fiabe di Perrault e di Andersen e libri di storia e geografia turistica) e dall’inglese.

 

 

1938

Si incrina il matrimonio con Guido Piovene. Marise Ferro torna a Milano. Riflesso di questo periodo di infelicità si trova nel romanzo Trent’anni, uscito nel 1940 da Garzanti.

 

 

1941

Si spezza definitivamente il legame con Piovene.

 

 

Fine 1941

Marise Ferro conosce Carlo Bo, si sviluppa subito un legame molto forte.

 

 

1942

Carlo Bo e Marise Ferro lasciano Milano per sfuggire ai bombardamenti, si rifugiano a Sestri Levante, poi a Rivanazzano, vicino a Voghera, infine a Valbrona, nelle vicinanze del Lago di Como. Durante l’assenza da Milano Marise collabora ai giornali “La Sera” (1940-1943) e “Corriere della Sera” (1943-1944) e scrive i romanzi Lume di luna (1943) e Memorie di Irene (1944); le esperienze a volte pesanti di guerra si riflettono più tardi nei volumi Stagioni (1946) e La guerra è stupida (1949).

 

 

Aprile 1945

Dopo il ritorno a Milano Carlo Bo e Marise Ferro vivono insieme. Marise collabora intensamente a “Milano-Sera” (dal 1946 al 1954 scrive 217 articoli), al settimanale “Omnibus (1946-1948), più tardi a “Nuova Stampa Sera” (1948-1966) e a “Settimo Giorno” (1952-1953). Partecipa sempre molto vivamente anche alle varie attività, universitarie, giornalistiche e sociali di Carlo Bo.

 

 

16 gennaio 1950

Dal Tribunale Provinciale Civile di Vienna viene annullato il matrimonio civile tra Marise Ferro e Guido Piovene, annullamento reso esecutivo in Italia dalla Corte di Appello di Torino il 20 marzo 1950.

 

 

Anni ’50

Marise Ferro scrive per “Tempo” (1954), “Epoca” (1955-1956) e “L’Europeo” (1954-1957).

 

 

1958

Esce il volume Le romantiche che raccoglie dodici monografie di personaggi femminili celebri.

 

 

maggio 1961

Muore la madre di Marise Ferro.

 

 

8 giugno 1963

Matrimonio civile tra Marise Ferro e Carlo Bo.

 

 

Anni ’60

Marise Ferro riprende l’attività di scrittrice, nel 1967 pubblica il romanzo La violenza.

 

 

1970

Il saggio La donna dal sesso debole all’unisex (Rizzoli) è l’ultima testimonianza dell’interesse di Marise Ferro per la situazione e i problemi della donna nella società moderna che si è manifestato costantemente in tutta la sua attività giornalistica.

 

 

Anni ’70

Pubblica i romanzi Una lunga confessione (1972) e Irene muore (1974) che conclude il ciclo dedicato alla figura femminile Irene. La carriera della scrittrice si conclude con La ragazza in giardino (1976) e La sconosciuta (1978).

 

 

aprile 1979

La sorella Silvana muore in un incidente d’auto.

 

 

Anni ’80

Dopo la morte della sorella, con la quale era rimasta intimamente legata per tutta la vita, Marise Ferro, profondamente colpita, si ritira a vita privata, vive tra Milano e Sestri Levante. Gli ultimi anni della sua vita sono segnati da una grave malattia.

 

 

2 ottobre 1991

Marise Ferro si spegne a Sestri Levante. È seppellita nella tomba della famiglia Bo a Sestri Levante.

S

 
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Scrittrici dimenticate:Virginia Olper Monis

Post n°1763 pubblicato il 30 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Nata nel ghetto ebraico di Venezia il 21 gennaio 1856, cresce sotto l’influenza del padre, Silvio Olper, fervido patriota e sostenitore della massoneria. La scarsità di documenti riferibili alla sua vita non permette di ricostruirne la formazione culturale, che fu però presumibilmente di tipo umanistico.

Il periodo maggiormente importante per Virginia è sicuramente quello patavino: a seguito infatti del suo trasferimento nella città di Padova, avvenuto nel 1884 insieme alla sua famiglia (il marito, Isidoro Monis, e le due figlie, Silvia ed Elisabetta Lia), inizia la stesura della maggior parte dei suoi racconti e del suo primo ed unico romanzo, Il raggio; contemporaneamente intesse una serie di rapporti collaborativi con alcune riviste e quotidiani dell’epoca, sia a livello locale che nazionale: avvia infatti la sua opera di recensore nel 1887 scrivendo per il periodico di spiccate tendenze emancipazioniste «La Donna» (fondato nel 1868 a Padova dalla padovana Gualberta Alaide Beccari e diretto dalla stessa fino al 1906, anno della morte); in seguito lavora per i quotidiani di Padova «Il Comune» ed «Il Veneto», e contemporaneamente alla rivista milanese di respiro nazionale, «Natura e Arte», edita da Vallardi. Accanto alla sua opera come narratrice e recensore si trovano inoltre alcuni saggi di carattere essenzialmente sociale.

La Olper non ha ottenuto risultati particolarmente originali nella sua opera specificatamente letteraria (anche se alcune novelle, ambientate fra Padova e Venezia, sono molto interessanti), che anzi per stile e temi trattati si allinea alla letteratura d’autrice di fine Ottocento: la scelta di protagoniste femminili che potessero descrivere la condizione di disagio, sottomissione e infelicità alla quale la maggior parte delle donne erano costrette; le storie di amori mancati o traditi. Storie per lo più incentrate sulla figura della donna e del suo universo sociale e sentimentale.

Ma questa forte attenzione nei confronti delle problematiche femminili, che è una delle sue caratteristiche precipue, emerge in modo particolare nella sua attività di critica e di saggista. La sua opera di recensore rivela infatti interessanti risvolti nelle critiche a romanzi, di matrice femminile, di fondamentale importanza per la letteratura di fine Ottocento: le autrici che maggiormente stimolano il suo spirito critico e riflessivo sono personaggi del calibro di Neera, Bruno Sperani e Sibilla Aleramo. Sebbene queste siano scrittrici dalla personalità molto diversa, ed in alcuni casi anche opposta, sono accomunate tra loro dall’attenzione che riservano nei confronti delle donne, dei loro diritti negati e della loro ricorrente condizione di infelicità. Emancipazionista convinta e fervida difensore delle categorie sociali più disagiate, la Olper nei propri interventi critici mira a porre l’attenzione sulle cause che costringono da sempre la donna in una condizione di sottomissione rispetto all’uomo: la privazione del “raggio del culto intelletto”, per usare le parole della stessa Olper, ovvero la mancanza di istruzione. Come è ampiamente rilevabile nella sua recensione (pubblicata sulla rivista «La Donna», XV, 16, 20 febbraio 1887) al romanzo di Neera, Teresa, mette in luce non tanto, come invece aveva fatto l’autrice del libro, le colpe di una società che troppo spesso e con troppa superficialità condannava le giovani fanciulle a rimanere zitelle per il divieto di sposare un uomo di posizione sociale non adeguata; quanto semmai rileva come matrice dell’infelicità femminile l’ignoranza, la mancanza di istruzione e la mancanza di indipendenza economica.

Tesi che sosterrà sempre lungo l’arco della sua intera vita e che trova ampia argomentazione in quello che si può considerare il suo testamento sociale, ovvero il saggio del 1908 La donna nella realtà. Saggio che raccoglie tutto il suo pensiero in materia di emancipazionismo e che ci restituisce la figura di una donna risoluta ma mai estremista, non una femminista arrabbiata e vendicativa ma una donna razionale, amorevole e di cultura. Un pensiero libero il suo, che trova delle oppositrici nello stesso movimento emancipazionista a proposito delle idee che esprime in materia di divorzio.

Già nel 1879 infatti, con una lettera aperta scritta a Olimpia Saccati (la fondatrice del periodico «La Missione della Donna»), Virginia Olper Monis sostiene l’istanza divorzista con argomentazioni fortemente moderne, rivelando la diversità che da sempre l’aveva caratterizzata: la sua appartenenza alla cultura ebraica. La finezza del suo pensiero, la profonda cultura e la lungimiranza sono certo dovute agli insegnamenti del padre e all’ambiente nel quale è cresciuta. Nella sua lettera sostiene l’istanza divorzista avendone potuto verificare di persona gli effetti benefici: nel ghetto di Venezia infatti, sotto la dominazione austriaca, era permesso agli ebrei avvalersi del divorzio, e quindi la scrittrice ne parla con cognizione di causa. Invece di favoleggiare sulla utopica necessità di eliminare le cause che portano al fallimento del matrimonio, provocato non solamente da unioni forzate ma in gran parte anche da quello che lei chiama “amoroso inganno”, ella vede la realtà in modo estremamente pratico e considera il divorzio come un mezzo che possa dare la possibilità ad entrambi i coniugi di rifarsi una vita e di essere felici, e in secondo luogo, ma non per questo meno importante, restituire la perduta dignità alla donna.

Nel saggio Alle origini del movimento femminile in Italia (1963), Franca Pieroni Bortolotti indica Virginia Olper Monis «come una delle prime tra le promotrici dell’istanza divorzista in Italia, tanto che la sua lettera aveva finito per suscitare sdegnate reazioni, come quella di Teresa De Amicis […]. La De Amicis accompagna la critica di scarsa sensibilità femminile, rivolta all’avversaria, con la celebrazione della personalità della regina Margherita, consueta fra le pubbliciste della “vera emancipazione” sulle orme del Carducci; la Olper Monis nega che la riforma giuridica, divorzio incluso, possa compromettere l’unità familiare e rivendica alla tradizione ebraica motivi egualitari. Il nome della Olper si trova più tardi fra i firmatari di una petizione per la liberazione dei detenuti politici, dopo i fatti del ’98 a Milano».

Divorzio, emancipazionismo, difesa dei diritti delle donne e più in generale di tutta quella parte di umanità che la stessa scrittrice definisce “i derelitti”, questi sono gli impegni sociali e di vita ai quali la Olper aderisce nella sua parabola di scrittrice e di donna. Una caratteristica che la differenzia da molte sue colleghe, autorevoli scrittrici come Neera o Matilde Serao che, come rileva Antonia Arslan nel suo saggio Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra ’800 e ’900 (1998), solo nel privato delle loro corrispondenze sfogano la difficoltà di essere donne in un mondo governato da uomini, mentre nelle prese di posizione pubbliche si dimostrano fermamente reazionarie (come Neera), o negano addirittura che esista una questione femminile (come Matilde Serao), in opposizione alla loro stessa produzione letteraria, che è invece incentrata sulla descrizione realistica dell’infelice condizione delle donne. La Arslan riconduce questo “modus operandi” ad un’intima fragilità, la traccia “del prezzo psicologico personale che a ciascuna è costato l’emergere”. Un disagio questo che però non colpisce la Olper Monis, e che ne denota una delle caratteristiche fondanti.

Autrice interessante per le significative ed acute recensioni di critica letteraria, di spirito estremamente moderno nelle sue prese di posizioni nei confronti del sociale, Virginia passa gli ultimi anni della vita in un riservato ed inspiegabile silenzio: il trasferimento a San Giorgio al Tagliamento, avvenuto nel 1907, decreta la sua esclusione dalla vita letteraria e sociale italiana. Di lei infatti non si sa quasi più nulla fino al momento della morte, avvenuta il 13 settembre 1919 a Venezia, durante un’operazione chirurgica probabilmente causata dall’oscura malattia che la perseguitava fin dalla giovinezza.

Una vita ed un’opera quasi sconosciuta la sua, della quale non hanno conservato memoria nemmeno le comunità ebraiche di Padova e Venezia, a causa probabilmente della scelta dell’autrice di uscire dalla tradizione.

Con queste parole Filomena Fornasari, fondatrice del “Rifugio per minorenni” di Padova, sceglie di ricordarla ad un mese dalla sua morte: «Io la ricordo. Fiera di combattere a viso aperto per ogni diritto conculcato, per ogni fede misconosciuta o ferita, non si peritò di farsi dei nemici anche fra coloro che della verità si gridavano apostoli. Essa conservò anche nell’età matura l’anima calda di una fanciulla e seppe ricavare dalla vita, pur dolorosa, quell’onda di poesia che la rende sopportabile e sacra» («Il Veneto», 13 ottobre 1919).

Materiale
Virginia Olper Monis: una dimenticata scrittrice ebrea
saggistica 
Autori
Diana Giorgia Tonon

Pubblicato su:
Scorpione letterario nr.1/2004

 
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Scrittori dimenticati:Nelson Algren

Post n°1762 pubblicato il 30 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Nelson Algren (vero nome: Nelson Ahlgren Abraham), grande scrittore americano, nacque a Detroit il 28 marzo del 1909 ma a 3 anni si trasferì a Chicago, la «sua» città, con l’umile famiglia ebraica di origini svedesi: la madre era commerciante di dolciumi, il padre meccanico d’auto. Grazie all’aiuto economico della sorella maggiore, si laureò in Giornalismo presso l’Università dell’Illinois nel 1931, al tempo della Grande Depressione. Sul lastrico e con istinto da vagabondo, lasciò Chicago e si mosse sino al Texas nella valle del Rio Grande con la speranza di essere assunto in qualche giornale, viaggiando a sbafo sui treni merci e arrangiandosi con piccoli lavori di sostentamento. Da garzone di una sperduta stazione di benzina, nel 1935 scrisse il primo racconto autobiografico “So Help Me”, che vinse l’O. Henry Award e gli guadagnò un contratto e un anticipo per il suo primo romanzo “Somebody in Boots” (ispirato al realismo proletario ma filtrato da un coinvolgente afflato lirico), che purtroppo non ebbe successo. Nel frattempo, era stato costretto a lasciare il Texas perché accusato del furto di una macchina da scrivere (portata via da una sala di scrittura semideserta e abbandonata, perché non era riuscito a separarsene dopo averla usata per mesi); fece qualche mese di galera e fu condannato a due anni con la condizionale. Durante il suo vagabondare rimase affascinato da questo mondo di emarginati, fannulloni e sventurati di ogni tipo, incontrati “on the road”, che tentavano in tutti i modi possibili di sopravvivere al degrado e alla miseria. Ritornato a Chicago, insieme allo scrittore Jack Conroy divenne il redattore del “New Anvil”, giornale aperto ai contributi dei Worker-Writers (Scrittori-Lavoratori). Deluso dalla sua vita e dal risultato dei suoi lavori, tentò il suicidio. In seguito, scrisse racconti, lavorò saltuariamente per l’“Illinois Writers’ Project” della Work Progress Administration, e sposò Amanda Kontowicz (poi divorziò, la risposò, e infine ridivorziò). Nel 1942 pubblicò il primo libro di successo “Mai venga il mattino (Never Come Morning)” ma come molti altri scrittori di sinistra nel 1943 si arruolò (entrando nel corpo medico dell’esercito) e fu mandato in Francia. Nel 1947 uscì il terzo libro “The Neon Wilderness” che vinse un premio dell’American Academy of Arts and Letters e che migliorò molto le sue condizioni economiche: il volume raccoglieva diverse sue novelle e contiene forse i suoi testi migliori dal punto di vista letterario. Nello stesso anno conobbe Simone de Beauvoir, che si trovava negli USA per una serie di conferenze, e nacque una passione (che durò diversi anni) intensa ma contrastata: Simone non intendeva rompere il suo sodalizio col suo compagno Jean-Paul Sartre. Nel 1949 Algren pubblicò “L’uomo dal braccio d’oro (The Man with the Golden Arm)”, capolavoro triste e disperato che vinse il National Book Award e ispirò nel 1955 il famoso omonimo film di Hollywood con Frank Sinatra e Kim Novak; narrava la storia di Frankie Machine, un reduce morfinomane ma abile giocatore di poker, sospettato di omicidio, che viene guarito grazie all’amore di una dolce entraîneuse. Algren fu invitato a scrivere la sceneggiatura del film ma fu allontanato dopo pochi giorni, sicché citò in giudizio il regista Otto Preminger per aver tradito lo spirito del suo romanzo. Il rapporto con la de Beauvoir si era intanto esaurito e Nelson era divenuto ormai ricco e celebre, osannato dal pubblico e dalla critica (che lo considerava addirittura migliore di William Faulkner). Nel 1951 pubblicò “Le notti di Chicago (Chicago, City on the Make)”, che fu bandito per circa 20 anni dalle biblioteche comunali della città perché ritenuto lesivo della sua immagine. Nel 1956 scrisse “Passeggiata selvaggia o Una camminata sul lato selvaggio (A Walk on the Wild Side)”, dedicato alla parte nascosta dell’America, costituita dagli emarginati, disperati, vagabondi, prostitute e ruffiani di New Orleans; il libro radicale e duro ma anche picaresco e bohemien suscitò critiche discordanti e forse anche una certa opposizione ideologica per l’attacco dell’autore al “grande sogno americano” (nel 1962 ne fu tratto un film per la regia di Edward Dmytryk, e più tardi ispirò l’omonima canzone di Lou Reed). L’insuccesso provocò in Algren una grave crisi depressiva, che lo portò a un nuovo tentativo di suicidio. Nel 1957 Simone de Beauvoir pubblicò “I mandarini” in cui nel personaggio di Lewis Brogan rappresentava in modo autobiografico Nelson senza nulla nascondere. Il libro amareggiò lo scrittore che ne conservò sino alla morte un rancore violento, accresciuto dalla pubblicazione delle sue lettere da parte di Simone (“Lettres à Nelson Algren: Un amour transatlantique”). Lo scrittore pubblicò in seguito “Nelson Algren’s Own Book of Lonesome Monsters” (1962), la raccolta di sketches “Who Lost an American?” (1963) e “Notes from a Sea Diary: Hemingway All the Way” (1965). Iniziò quindi un lungo periodo di silenzio, segnato dall’alcol e dal gioco d’azzardo, interrotto soltanto dai corsi di scrittura creativa presso l’'Università dello Iowa e della Florida. Nel frattempo Algren sposò Betty Ann Jones, dalla quale divorziò dopo pochi anni. Nel 1973 pubblicò l’ultimo suo libro “The Last Carousel”, che vinse il Playboy Fiction Award. Nel 1974 fu invitato a scrivere un articolo sul pugile Rubin “Hurricane” Carter, condannato ingiustamente per duplice omicidio a Patterson (New Jersey); entusiasmato dalla città, vi si trasferì nel 1975 e tentò di trasformare l’articolo in un libro, che uscì postumo nel 1983 col titolo “The Devil’s Stocking” (questa storia ha ispirato il bel film di N. F. Jewison del 1999). Uscirono postumi “America Eats” (1992), “Nonconformity” (1994) e “The Texas Stories of Nelson Algren” (1994). Nel 1980 Algren si trasferì a Long Island, ove morì il 9 maggio del 1981 per infarto.


 
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Barbara Palmer

Post n°1761 pubblicato il 30 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Barbara Palmer, nata Barbara Villiers, prima duchessa di Cleveland (Londra, 27 novembre 1640Chiswick, 9 ottobre 1709), era una cortigiana inglese e forse la più famosa fra le amanti di re Carlo II d'Inghilterra.

Infanzia 

Nata presso la chiesa di St. Margaret a Westminster fu l'unica figlia di William Villiers, II visconte Grandison (1614-1642) e di sua moglie Mary Bayning, figlia del I visconte Bayning, un facoltoso commerciante. Il nonno paterno di Barbara era fratellastro di George Villiers, I duca di Buckingham. Il 20 settembre 1643, il padre di Barbara, morì nella guerra civile inglese per una ferita riportata nella battaglia di Newbury, mentre lottava per i realisti. Aveva investito la sua considerevole fortuna sui cavalli e munizioni per il suo reggimento di Cavalieri lasciando la figlia piccola e la vedova in condizioni precarie. Poco dopo la morte di Lord Grandison, la madre di Barbara, Lady Mary si risposò con Charles Villiers, conte di Anglesea, un cugino del defunto marito. Anni dopo la figlia fece erigere un monumento alla sua memoria nella cattedrale di Christ Church a Oxford.

Matrimonio [modifica]

Nonostante fosse considerata una delle dame più affascinanti del regno, Barbara non ebbe grande fortuna in amore. La prima relazione che intrattenne fu con Philip Stanhope, II conte di Chesterfield; i due interruppero la loro relazione quando Philip dimostrò di essere interessato a sposare donne più facoltose. Così il 14 aprile 1659 Barbara sposò Roger Palmer, contro il volere della famiglia dello sposo. Il matrimonio non ebbe fortuna tanto che i due si separarono nel 1662 dopo la nascita del primo figlio senza però ottenere il divorzio. Barbara e Roger rimasero sposati sino alla morte di lui anche se non è certo che tutti i figli della donna siano legittimi.

Barbara divenne amante di Carlo II nel 1660, nel pieno del suo matrimonio, durante l'esilio di Carlo dall'Inghilterra a causa degli sconvolgimenti seguenti la decapitazione di re Carlo I. Come ricompensa, il re nominò Roger Palmer barone di Limerick e conte di Castlemaine nel 1661. Dei sei figli che Barbara partorì, si pensa che cinque furono figli di Carlo.

Splendore e declino [

Barbara incontrò in Edward Hyde, importante sostenitore del re, un acceso oppositore; egli, per esempio, impedì alla donna di divenire dama di corte della moglie del re, Caterina di Braganza. In ogni caso, nel 1662, Barbara aveva più influenza sulla vita di corte della stessa regina. Ben presto però la sua posizione iniziò a vacillare, poiché si diceva che il re avesse intrattenuto una relazione con Frances Stuart. Nel dicembre del 1663 Barbara annunciò la sua conversione al cattolicesimo romano. Non ci è noto con chiarezza il motivo di questa conversione; le ipotesi più attendibili sono due: alcuni sostengono che la donna decise di convertirsi per riconfermare la sua posizione presso il re, che avrebbe visto di buon occhio un passaggio al cattolicesimo, altri invece ritengono che la conversione della donna sia dovuta ad una volontà di riavvicinamento al marito, il cattolico Lord Palmer, nel caso molto probabile che il re si fosse stancato di lei.

Barbara era famosa per la sua stravaganza che a volte si rivelava sfrontatezza ed arroganza: si diceva che attingesse direttamente dal Tesoro di stato e che avesse relazioni con i rappresentanti di nazioni potenzialmente avversarie come Spagna e Francia. Usava la sua posizione unicamente a suo vantaggio ottenendo spesso dal sovrano ogni genere di richiesta. Fu questo l'elemento che contribuì a fare rapidamente crollare la sua influenza sul sovrano e sulla corte. Nel 1670 Carlo II nominò Barbara baronessa di Nonsuch, contessa di Southampton e duchessa di Cleveland; non ci è noto se il re fece questo magnanimo atto come un ennesimo omaggio alla sua favorita o se, con queste generose elargizioni, la facesse uscire definitivamente di scena. Il ducato venne poi ereditato da uno dei figli di Barbara, Charles FitzRoy.

Mentre il re aveva accolto a corte nuove amanti, Barbara intratteneva relazioni con altri uomini, compreso il suo cugino di secondo grado John Churchill. Tuttavia, dopo il Test Act, il re ebbe l'opportunità di cacciare Barbara in quanto cattolica e la sostituì come amante ufficiale con Louise de Kérouaille.

Nel 1676 Barbara si trasferì a Parigi con il suo figlio più giovane. Dopo la morte di Roger Palmer, nel 1705, Barbara sposò in seconde nozze il generale Robert Feilding, che in seguito accusò di bigamia. Barbara morì nel 1709 a causa di un edema.

 
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Nell Gwynn

Post n°1760 pubblicato il 30 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

leanor "Nell" Gwyn (Hereford, 2 febbraio 1650Londra, 14 novembre 1687) è stata un'attrice teatrale inglese celebre per essere stata l'amante di Carlo II d'Inghilterra, fu una delle prime attrici donna del teatro inglese e membro-fondatrice della Merry Gang.

Biografia 
Nell Gwyn ritratta da Sir Peter Lely

Da bambina iniziò a lavorare in una casa di tolleranza dove serviva acquavite agli avventori[1]. In seguito all'intronizzazione di Carlo II nel 1660 dopo la morte di Oliver Cromwell furono riaperti i teatri che erano stati tutti chiusi, inoltre re Carlo introdusse due novità: l'utilizzo di scenografie come fondali colorati e l'apertura alle donne il cui ruolo era sempre stato appannaggio dei soli uomini[2]. La giovane Nell iniziò a vendere arance in uno dei nuovi teatri dove fu notata dall'attore Charles Hart che la iniziò alla recitazione[3]. Iniziò a calcare le scene del teatro con un certo successo facendosi notare dal pubblico. Chiamata "bella, spiritosa Nell" da Samuel Pepys, era ritenuta l'incarnazione vivente dello spirito della Restaurazione inglese e finì per essere considerata un'eroina popolare.

Divenuta una delle amanti ufficiali del re Carlo II Stuart, ebbe due figli, Charles Beauclerk (1670-1726), che divenne conte di Burford, poi duca di St. Albans, e James Beauclerk (1671-1680). Un giorno trovandosi assediata nella sua carrozza dalla folla inferocita che l'aveva scambiata per la cattolica Louise de Kérouaille, l'altra amante del Re, si fece riconoscere gridando alla folla:"Calma, ragazzi. Sono la puttana protestante!"[4].

 
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Libertà (Eluard)

Post n°1759 pubblicato il 30 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Sui miei quaderni di scolaro
Sui miei banchi e sugli alberi
Sulla sabbia e sulla neve
Io scrivo il tuo nome

Su tutte le pagine lette

Su tutte le pagine bianche
Pietra sangue carta cenere
Io scrivo il tuo nome

Sulle dorate immagini
Sulle armi dei guerrieri
Sulla corona dei re
Io scrivo il tuo nome

Sulla giungla e sul deserto
Sui nidi sulle ginestre
Sull'eco della mia infanzia
Io scrivo il tuo nome

Sui prodigi della notte
Sul pane bianco dei giorni
Sulle stagioni promesse
Io scrivo il tuo nome

Su tutti i miei squarci d'azzurro
Sullo stagno sole disfatto
Sul lago luna viva
Io scrivo il tuo nome

Sui campi sull'orizzonte
Sulle ali degli uccelli
Sul mulino delle ombre
Io scrivo il tuo nome

Su ogni soffio d'aurora
Sul mare sulle barche
Sulla montagna demente
Io scrivo il tuo nome

Sulla schiuma delle nuvole
Sui sudori dell'uragano
Sulla pioggia fitta e smorta
Io scrivo il tuo nome

Sulle forme scintillanti
Sulle campane dei colori
Sulla verità fisica
Io scrivo il tuo nome

Sui sentieri ridestati

Sulle strade aperte
Sulle piazze dilaganti
Io scrivo il tuo nome

Sul lume che s'accende
Sul lume che si spegne
Sulle mie case raccolte
Io scrivo il tuo nome

Sul frutto spaccato in due
Dello specchio e della mia stanza
Sul mio letto conchiglia vuota
Io scrivo il tuo nome

Sul mio cane goloso e tenero

Sulle sue orecchie ritte
Sulla sua zampa maldestra
Io scrivo il tuo nome

Sul trampolino della mia porta
Sugli oggetti di famiglia
Sull'onda del fuoco benedetto
Io scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Sulla fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Io scrivo il tuo nome

Sui vetri degli stupori

Sulle labbra intente
Al di sopra del silenzio
Io scrivo il tuo nome

Su ogni mio infranto rifugio
Su ogni mio crollato faro
Sui muri della mia noia
Io scrivo il tuo nome

Sull'assenza che non desidera
Sulla nuda solitudine
Sui sentieri della morte
Io scrivo il tuo nome

Sul rinnovato vigore
Sullo scomparso pericolo
Sulla speranza senza ricordo
Io scrivo il tuo nome

E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per nominarti
Libertà.

Paul Eluard

 
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Libri dimenticati:In piedi sull'arcobaleno

Post n°1758 pubblicato il 30 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Secondo romanzo della trilogia di Elmwood Springs di Fannie Flagg.
Gradevolissimo,personaggi indimenticabili

 
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Frase del giorno

Post n°1757 pubblicato il 30 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

 

E' cercando di dimenticare qualcuno che si pensa di più a lui
 
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Ciao, serena serata
Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
 
Ciao per passare le tue vacanze vi consigliamo Lampedusa...
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
 
Buon pomeriggio.Tiziana
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
 
i gatti sono proprio così.:)
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
 
questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38
 
 

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