Messaggi del 05/02/2012

Scrittori dimenitcati:Goffredo Parise

Post n°1806 pubblicato il 05 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

offredo Parise nacque a Vicenza l'8 dicembre 1929, da Ida Wanda Bertoli, figlia adottiva di un fabbricante di biciclette che proprio in quell'anno vide fallire la propria attività. Visse col nonno materno e con la madre in un'infanzia segnata da difficoltà economiche e da una sorta di forzato isolamento: nel tentativo di proteggerlo dalle angherie dei compagni, che lo deridevano a causa della sua condizione di figlio naturale (o "illegittimo", come si diceva in quegli anni), la famiglia lo tenne il più possibile in casa, e gli venne raccontato che il padre era morto (in realtà si trattava di un medico veneto che aveva sedotto e quindi abbandonato la madre in stato interessante).

Il regime economico della famiglia cambiò quando la donna nel 1937 sposò Osvaldo Parise, direttore di un quotidiano locale, che qualche anno dopo diede il suo nome a Goffredo. Il ragazzo si iscrisse al liceo e, nel 1947, terminò gli studi superiori. La famiglia si trasferì a Venezia e proprio nella città lagunare, nel 1951, Neri Pozza pubblicò il primo romanzo dell'autore, Il ragazzo morto e le comete, cui seguì, nel 1953, La grande vacanza. Dopo alcune brevi collaborazioni all'«Alto Adige» di Bolzano e all'«Arena» di Verona lo scrittore si trasferì a Milano. Qui iniziò a lavorare con la casa editrice Garzanti, presso la quale pubblicò, nel 1954, Il prete bello, accolto con molte perplessità dalla critica, ma destinato a rimanere anche negli anni successivi uno dei libri più venduti del dopoguerra. Nel 1955 Parise cominciò a lavorare per il «Corriere della Sera» e, nel 1956, venne pubblicato, ancora da Garzanti, Il fidanzamento. Nel 1959 uscì Amore e fervore (il titolo originale, Atti impuri, venne cambiato dall'editore). Intanto Parise aveva sposato, nel 1957, Maria Costanza Speroni; suo testimone di nozze era stato lo scrittore Giovanni Comisso.

Negli anni Sessanta, all'attività di scrittore si affiancò quella di sceneggiatore, e Parise collaborò alla sceneggiatura dei due film di Mauro Bolognini: Agostino (1962, dal romanzo di Alberto Moravia) e Senilità, anch'esso del 1962, tratto dal romanzo di Italo Svevo. Tra le altre esperienze cinematografiche, vanno ricordati i film e la collaborazione con Fellini per un episodio di Boccaccio '70 (1962, l'episodio in questione è Le tentazioni del dottor Antonio con Peppino De Filippo) e per il film Otto e mezzo (1963) di Federico Fellini. Nel 1963 il legame con Maria Costanza Speroni si concluse con la separazione e, da questa esperienza di crisi affettiva, nacque L'assoluto naturale, scritto per il teatro e incentrato sull'analisi del rapporto di coppia: l'opera andò in scena al Teatro Metastasio di Prato nel 1968, per la regia di Franco Enriquez (interpreti Valeria Moricone e Renzo Montagnani). Nel 1965 uscì il romanzo Il padrone che valse a Parise il premio Viareggio e che esprime, nella rappresentazione del lavoro in fabbrica, il disagio esistenziale in una società che sempre più cerca di annullare l'identità individuale.

Nel 1966 Parise pubblicò Gli americani a Vicenza, un racconto scritto dieci anni prima; nello stesso periodo conobbe la pittrice Giosetta Fioroni che divenne la sua compagna. Nel 1969, alcuni racconti scritti tra il 1962 e il 1966 furono riuniti in volume col titolo Il crematorio di Vienna. Intanto si intensificò l'attività di giornalista e, dai viaggi di lavoro, scaturirono i volumi Cara Cina (1966), Due, tre cose sul Vietnam (1967), Biafra (1968); negli anni successivi Guerre politiche (1976, su Vietnam, Biafra, Laos e Cile), New York (1977), L'eleganza è frigida (1982, sul Giappone).

Dopo aver pubblicato i racconti di Sillabario n.1 (1972), Parise tornò a lavorare per il cinema collaborando alla sceneggiatura del film Ritratto di borghesia in nero di Tonino Cervi (1978), tratto da un racconto di Roger Peyrefitte: com'era già successo per L'ape regina, anche questo film ebbe problemi di censura. Nel 1979 scrisse L’Odore del sangue, romanzo a tinte forti, come un’ emorragia di sangue, dal ritmo incalzante, serrato, che arriva al culmine con la concitazione di un attacco di panico. È «il romanzo di un’ossessione» (Cesare Garboli), con tutta la sua tragica drammatica potenza reale e simbolica.

Nel 1982 uscì il Sillabario n.2 che concluse quell'analisi dei sentimenti condotta da Parise con un'attenzione sempre partecipe: nei due volumi, da alcuni considerati il suo vero capolavoro, l'autore dedica a ciascun sentimento un breve racconto, da cui emerge una sorta di riscoperta dei più autentici valori umani.

Negli ultimi anni Parise visse soprattutto in Veneto, a Ponte di Piave; gravemente malato, morì a Treviso il 31 agosto 1986.

 
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Scrittricidimenticate:Regina di luanto

Post n°1805 pubblicato il 05 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

LUANTO, REGINA DI (1862 - 1914)

Anna Guendalina Lipperini nasce a Bologna nel 1862; passa dei periodi a Firenze e a Milano. Sposa il conte fiorentino Alberto Roti e dal nome Guendalina Roti trae l'anagramma Regina di Luanto. Nella vita si fa chiamare semplicemente Anna Roti. Si separa presto poichè il suo atteggiamento libero contrasta con la tradizione della famiglia. Collabora a riviste letterarie, compresa La Donna di Torino, sulla quale scrivevano un po' tutte queste autrici di feuilleton a cavallo del secolo. Esordisce nel 1890 con Acque forti, e suscita l'attenzione della critica (Cecchi) e in seguito pubblica nella "Biblioteca Romantica Italiana" della casa editrice Roux di Torino; nelle numerose opere analizza il conflitto tra desiderio e ordine sociale, descrivendo quell'ambiente dell'alta società da lei frequentato tra Firenze e Roma con occhio sensibile e anticonformista. Muore a Milano nel 1914.

TITOLI

Acque forti (1890), Salamandra (1892), Ombra e luce (1893), La scuola di Linda (1894), Un martirio (1894), Libera! (1895), Tocchi di penna (1898), Gli agonizzanti (1900), La servetta (1901), Il nuovissimo amore (1903), Per il lusso (1912), Le virtuose (1912).

 
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Manfredi canto III Purgatorio

Post n°1804 pubblicato il 05 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

L'inizio della salita - versi 1-45 [modifica]

Dopo che le anime del purgatorio sono state rimproverate da Catone per aver tardato il cammino di espiazione per ascoltare la canzone di Casella, Dante e Virgilio vanno verso la montagna. Virgilio è ancora pieno di rimorso per l'errore che ha commesso (quello di aver ascoltato anche lui la canzone di Casella). Dante ad un tratto vede solo la sua ombra e non quella di Virgilio e teme che il suo maestro lo abbia abbandonato ma non è cosi, infatti il maestro gli spiega che il suo corpo fu portato da Brindisi a Napoli: ossia nella sua tomba. La luce del sole, come passa per i cieli del paradiso senza trovare ostacoli, così passa attraverso i "corpi" delle anime e quindi le anime non fanno ombra. Come poi le anime, che sono immateriali, possano soffrire le pene del purgatorio e dell'inferno, questo non lo sa. Lo sa solo la virtù divina che però non vuole svelarci tutto perché se avessimo potuto saper tutto Maria non avrebbe avuto bisogno di partorire. Molti filosofi dell'antichità come Platone e Aristotele tentarono di conoscere tutto e ora il loro desiderio di conoscenza è diventato la loro pena eterna. E qui Virgilio si interrompe e turbato (perché si sente tirato in causa) non aggiunge altro.

Gli scomunicati - versi 46-102 [modifica]

Dante e Virgilio arrivano finalmente alla montagna del purgatorio. Il problema è che è troppo ripida, così ripida che in confronto ad essa i dirupi più scoscesi d'Europa (che si trovavano in Liguria e nell'Appennino emiliano) sembrano delle scale facili da salire. Impossibilitati a salire Dante e Virgilio provano a trovare una soluzione. Virgilio prova con la sua ragione e volge gli occhi verso il basso mentre Dante guarda verso l'alto e scorge delle anime di penitenti. Dice al maestro che se non riesce a trovare una soluzione da solo forse è meglio chiedere alle anime dove la salita è meno ripida. Virgilio e Dante si dirigono verso le anime che il Dante narratore paragona a un gregge. Questo "gregge" va molto lento e si trovava a una grande distanza dai poeti. Dante scopre che queste anime sono gli scomunicati.

Si può notare in questa parte del canto come il ruolo di Virgilio quale guida per il pellegrino Dante venga a mancare. In effetti, ora il poeta latino si trova in un luogo che non ha mai visitato, a causa della sua pena divina (il restare nel Limbo). Sul piano allegorico,la Ragione, rappresentata da Virgilio, man mano che si avvicina a Dio, si smarrisce sempre più, poiché essa non è stata creata per comprendere il suo mistero (che, secondo Dante, è comprensibile solo per via diretta tramite l'estasi mistica, che proverà infatti nell'ultimo canto del Paradiso). L'azione giusta da compiere per avvicinarsi a Dio, quindi, non è il ragionare a testa bassa come fa Virgilio, bensì guardare verso l'alto, verso l'amore divino.

Manfredi - versi 103-145 [modifica]

Tra gli scomunicati c'è un bel giovane con due ferite, una delle quali al petto, descritto come "biondo... e bello e di gentile aspetto, ma l'un de' cigli un colpo avea diviso". Questo bel giovane chiede a Dante se lo ha mai visto. Dante risponde di non sapere chi sia e il giovane gli racconta la sua storia. Egli è Manfredi, figlio di Federico II e nipote di Costanza d'Altavilla. Manfredi cita la figlia Costanza, madre di Giacomo e Federico, rispettivamente re di Aragona e di Sicilia. Manfredi racconta "orribil furon li peccati miei" e di essere stato scomunicato da vari papi. Morì in battaglia nel 1266 a Benevento ma in punto di morte si pentì e il Signore lo perdonò mandandolo nel Purgatorio invece che all'Inferno. I papi invece non lo perdonarono, tanto che il vescovo di Cosenza, incaricato da papa Clemente IV[1], fece dissotterrare le sue ossa (Or le bagna la pioggia e move il vento), che furono poi trasportate a ceri spenti e capovolti, come nei funerali degli eretici, lungo il fiume Verde (identificabile secondo Benvenuto e molti altri critici moderni con il Liri o il Garigliano). Manfredi chiede a Dante di raccontare quello che ha detto a sua figlia Costanza e di dirle che si trova nel Purgatorio, se altro si crede nel mondo dei vivi, e di chiederle di pregare per lui, perché più si prega per un'anima del Purgatorio più il tempo di espiazione diminuisce. Con Manfredi, i credenti riescono a capire la grande bontà di Dio che abbraccia tutti coloro che si sono pentiti in fin di vita.

Analisi del canto [modifica]

L'unità del canto III nasce non dalla presenza costante di un solo tema, ma dalla drammatica ed insistita contrapposizione di due motivi fra di loro complementari: il sentimento amaro della disunione e quello pacificante dell'unione. La disunione emerge nel senso di solitudine e di abbandono provato nella sequenza iniziale da Dante, nell'amara malinconia di Virgilio, nel ciglio spaccato di Manfredi e nella violenza della scomunica subita dal principe svevo. Il motivo dell'unione, invece, consiste nell'importanza data al rapporto fra l'anima ed il corpo, sentiti come unità inscindibili in quanto il corpo è destinato a risorgere nella gloria del cielo e a partecipare della beatitudine. Nel sentimento di unione rientrano anche l'umile disponibilità di Manfredi al pentimento e insieme l'infinita misericordia di Dio verso i peccatori. Questi i temi che emergono dal montaggio sapiente delle varie sequenze.

Dante, quando non vede profilarsi l'ombra di Virgilio accanto alla sua, teme di essere abbandonato e si sente smarrito: questo comporta la coscienza della condizione precaria del pellegrino, che affronta una prova eccezionale e rivela il suo bisogno di protezione. Dante dà prova così della propria umiltà e anticipa la parte dell'episodio subito dopo dedicata a Virgilio. Da notare che la solitudine, la proterva affermazione di isolamento che caratterizza le anime dell'Inferno e fa parte della loro dannazione appare remota dalla condizione degli spiriti del Purgatorio. In questo luogo la sofferenza che conduce alla purificazione viene vissuta nella solidarietà reciproca: pertanto la disunione assume un carattere estraneo alla condizione delle anime e può apparire solo in quanto esperienza di chi non appartiene a questo mondo (i due pellegrini) o come ricordo di eventi terreni.

Il modo in cui Virgilio reagisce al dubbio di Dante, il suo modo di vivere il distacco dal proprio corpo e di affrontare la questione dei corpi aerei dei penitenti, il ricordo del Limbo sono tutte prove dei limiti della ragione, ma valicano il piano simbolico e contribuiscono a dare un nuovo, dolente profilo all'umanità di Virgilio. Egli, in sostanza, è il solo personaggio del canto che vive l'angoscia dell'esclusione: non solo il suo corpo non risorgerà per la gloria, e per questo egli vive l'amarezza del distacco, ma parallelamente la sua anima non potrà mai partecipare alla salvezza e pertanto gli è negata la prospettiva della speranza. Ma proprio questo velo di tristezza, il tono elegiaco con il quale egli esprime la sua consapevolezza conferiscono un profilo più umanamente drammatico alla sua figura, che acquisisce un'affettività paterna più intensa. Mentre appare diverso l'itinerario di Dante, volto a una meta definitiva di salvezza, il rapporto fra l'aiutante e il protagonista si fa più stretto, in quanto entrambi sperimentano la fragilità dei propri limiti.

Se Virgilio infatti sperimenta e sottolinea i limiti della Ragione, di cui egli stesso è il simbolo, (State contenti, umane genti, al quia...), Dante, proprio per merito del richiamo di Virgilio compie un passaggio nel suo personale itinerario: avverte la necessità di superare l'esperienza stilnovistica e la filosofia del Convivio, che andrà inserita in una prospettiva più alta, quella della salvezza. D'altra parte, l'amarezza di Virgilio abbraccia l'insufficienza di tutta la cultura classica, di qui il suo accenno agli spiriti del Limbo: gli antichi presunsero troppo (come gli scomunicati), affidandosi solo alla forza della ragione. La sequenza si conclude con una sorta di intervallo, che ha la funzione di passaggio alla seconda ed essenziale parte del canto; in essa l'incertezza della strada, l'incontro con la schiera degli scomunicati (perder tempo a chi più sa, più spiace...) e la similitudine delle pecorelle, accostando elementi di smarrimento ed altri di mansueta accettazione, approfondiscono il clima ascetico penitenziale.

Il primo degli spiriti salvati con il quale Dante stabilisce un colloquio è un grande peccatore, scomunicato dalla chiesa per le sue colpe: Manfredi di Svevia. Ma il poeta non pone la sua attenzione sugli elementi di disunione, bensì sulla misericordia di Dio, che dona gratuitamente la salvezza di fronte alla conversione sincera del cuore, compiutasi in un istante, fuori dalla dimensione umana del tempo. Il poeta, sottolineando il rapporto diretto dell'anima con Dio tende a superare l'aspetto giuridico del comportamento della Chiesa e a vanificare la validità della scomunica. Ciò rivela l'atteggiamento ideologico di Dante e trova un suo fondamento nella realtà, nella cronaca del tempo. Certo, egli ha scelto il personaggio per le sue doti di liberalità, di cultura, per le sue convinzioni contrarie al potere ecclesiastico, ma ciò che restituisce il fascino poetico di Manfredi è il suo passaggio dalla superbia all'umiltà, dalla polemica al rasserenato perdono. Egli appare nella presentazione con tutti i caratteri del cavaliere (biondo, bello, gentile), ma la sua non è una storia di trionfo guerriero, bensì di sconfitta.

Sconfitto dai suoi nemici, subisce l'umiliazione e l'esperienza del perdono, ci appare già profondamente spiritualizzato. In lui restano le virtù gentili del cavaliere, si manifesta l'affettuosità del padre e soprattutto si afferma l'altezza dell'umiltà. Proprio l'umiltà di cuore l'aiuta a trascendere il risentimento, a superare la malinconia per quel suo corpo offeso e perseguitato. Il tema del corpo non è per lui motivo di avvertire la disunione; egli sa che un giorno esso risorgerà insieme a quelli di tutti i salvati: da qui la sua elegia dolente ma contenuta; da qui il suo sorriso (Poi sorridendo disse...), che lo distingue dalla malinconia di Virgilio. Anche lui, per effetto della scomunica, era divenuto un emarginato come Virgilio e le anime del Limbo, ma l'umiltà gli ha aperto le vie della speranza. E nella speranza trova fondamento quel suo spirito di comunione, che si dilata dal mondo ultraterreno fino a quello terreno con la riconsacrazione della famiglia, quando egli ricorda la sua santa ava Costanza, già beata in cielo, e la figlia Costanza alla quale si volge il suo pensiero paterno.

 
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Manfredi

Post n°1803 pubblicato il 05 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

a vita di Manfredi è ricca di avvenimenti che hanno condizionato vari secoli di vita italiana. Per questo, è difficile condensarla in poche pagine web. Gli utenti del sito dovranno considerare il nostro sforzo un primo tentativo per avvicinare il personaggio, con l’idea di approfondire i temi più interessanti e che ci verranno eventualmente proposti.

Busto di re Manfredi, realizzato dallo scultore Daro Lazarov, Manfredonia scalinata del comune.

Federico II aveva una particolare predilezione per Manfredi: perché è figlio di Bianca Lancia, il suo unico vero amore; perché vede in lui l’erede dello spirito battagliero, indomito, tipico degli Svevi; perché dimostra di avere le sue stesse passioni.

Eppure, Manfredi ha una vita discussa, con atteggiamenti a volte contraddittori, che lo fanno un personaggio fra i più interessanti del suo secolo.

Busto di re Manfredi, realizzato dallo scultore Daro Lazarov, Manfredonia scalinata del comune.

In realtà, se l’Impero medievale tramonta con Federico II, Manfredi è il protagonista di questa crisi, l’uomo che per primo sconta l’invettiva di Innocenzo IV: "Estirpare il nome di questo babilonese e quanto di lui possa rimanere, dei suoi discendenti, del suo seme".

Manfredi nasce nel 1232 ed accompagna il padre in molte avventure militari e diplomatiche, lo assiste in punto di morte il 13 dicembre 1250. Per testamento Federico gli lega varie rendite e possedimenti e soprattutto lo nomina vicario del Regno di Sicilia che aveva assegnato a Corrado IV — il primogenito figlio di Iolanda di Brienne — che al momento si trovava in Germania. Questa decisione lo inimica subito al Papa, che avrebbe voluto liberamente disporre dell’intero patrimonio svevo.

Fin dall’inizio la reggenza si dimostra difficile, anche se i rapporti tra i due fratelli promettono di essere buoni.

Ma quando Corrado, nell’agosto del 1252, sbarca a Siponto e giunge nella Puglia per prendere possesso dei suoi territori dimostra di non avere il talento e le virtù paterne e di non poter reggere il confronto con Manfredi che, essendo figlio naturale, deve ridursi al semplice rango di vassallo. Fra i due corrono dissapori, invidie, rivalità finché nel 1254 Corrado muore per cause che sollevano non pochi dubbi. Fratricidio? Non si saprà mai, né sono affidabili le sole illazioni dei cronisti guelfi.

Diventato di fatto capo della Casa di Svevia, Manfredi si trova a tu per tu con Innocenzo IV, determinato a disfarsi dell’incomoda dinastia imperiale. Un tentativo di rappacificazione fallisce nel luglio del 1254, mentre il successivo 12 settembre Manfredi è colpito da anatema.

Di fronte alla possibilità di uno scontro cruento al quale nessuno era preparato, si giunge rapidamente ad un accordo.

Accanto alla revoca della scomunica, Manfredi riceve dalla mani del Papa feudi e principati, una rendita di ottomila once d’oro, e soprattutto la nomina a vicario per la maggior parte dei territori continentali del Meridione, in cambio del riconoscimento dell’autorità papale sul Regno di Sicilia.

Ma lo Svevo non demorde: all’inizio di dicembre organizza una rivolta in Puglia riuscendo a conquistare Lucera ed a battere l’esercito pontificio. E’ l’ultimo atto del confronto con Innocenzo IV, che rende l’anima a Dio il 7 dicembre 1254.

Da quel momento, forte della posizione acquisita con la diplomazia e con le armi, Manfredi vuol trarre il massimo profitto dalla elezione al soglio di Alessandro IV, un uomo che, almeno all’apparenza, si presenta debole ed indeciso e si dedica alla conquista del Regno che comporta una lotta lunga e complessa.

 

Sul piano militare il conflitto si inasprisce in Puglia; ma è fondamentale provvedere in tempi brevi all’occupazione del trono di Sicilia, che Manfredi ritiene un patrimonio svevo ereditato dai Normanni e destinato a Corradino, legittimo successore del defunto Corrado.

Così, il 10 agosto 1258, dopo aver allontanato il reggente Bertoldo di Hohenburg — un fedele di Federico II passato ad infoltire le file papaline — si fa incoronare nella cattedrale di Palermo tra le feste ed il Incoronazione di Manfredi nel duomo di Palermo, dalla Cronica del Villani. giubilo della popolazione.

Incoronazione di Manfredi nel duomo di Palermo, dalla Cronaca del Villani.

Alessandro IV dichiara nulla l’incoronazione, mentre è dalla Germania, la madre di Corradino, l’erede legittimo di Corrado IV, insorge. Ma a Manfredi non è difficile spiegare il proprio operato, che si era reso necessario per salvare il Regno dallo sfacelo.

Da quel momento, Palermo tornava ad essere la capitale del più bel Regno d’Europa.

Nel nuovo ruolo, Manfredi rafforza la compagine interna del Regno, distruggendovi ogni residuo di ribellione e dissenso. Contemporaneamente, cerca in Italia ed in Germania alleanze contro il Papato ed i nemici che questi gli avrebbe inevitabilmente procurato.

Sotto il profilo governativo, prosegue la politica paterna: solidarietà con i Ghibellini di tutta Italia ma senza cercare la guerra.

Sotto il profilo culturale e legislativo, l’intelligenza, la sapienza, la cultura, lo conducono a proporre ai sudditi un periodo di illuminata serenità, anche se non avrà il tempo di raccoglierne i frutti.

Sotto il profilo dell’eleganza, la vita alla Corte di un Re giovane, bello, con gli occhi azzurri, i capelli e la barba fini… si svolge in un clima di gioioso, ricco di donne belle e raffinate; cose queste che consentono alla propaganda guelfa di alimentare dicerie ed accuse di corruzione.

Ma i tempi stringono. Il nuovo Papa Clemente IV, succeduto a Urbano IV, ha già individuato in Carlo I d’Angiò, fratello di Luigi IX, il Re Santo di Francia, l’uomo che spazzerà via Manfredi dal Regno di Sicilia.

Clemente IV inizia quindi è ad inviare a governi alleati e compiacenti messaggi di mobilitazione che alla fine si esprimono nel lancio contro Manfredi di una Crociata che rasenta il fanatismo;
è
a corrompere con il denaro i governanti che non condividono i suoi obiettivi; è a fare ogni sforzo per agevolare con ogni mezzo la strada di Carlo I.

Carlo d'Angiò (statua di Arnolfo di Cambio), Roma - Palazzo dei Conservatori.

Carlo d'Angiò (statua di Arnolfo di Cambio), Roma - Palazzo dei Conservatori.

Alle strette, Manfredi si rivolge agli alleati ormai ridotti di numero. In questi appelli vi è tutta la dignità di un sovrano che non considera il nemico degno di sé. Essi esprimono l’illusione di un intellettuale, destinata ad essere soffocata dalla forza brutale.

Carlo I valica le Alpi al Colle di Tenda alla fine del 1265. Con un esercito di almeno 30.000 uomini, inizia a spargere il terrore nelle campagne e riduce la resistenza nelle roccaforti ghibelline. Il 6 gennaio 1266 è incoronato a Roma, in assenza del Papa, cosa questa che prova il declino della Sede Apostolica. Il 20 gennaio Carlo I riparte da Roma e supera i confini del Regno attraversando il fiume Liri. Dopo varie scaramucce, lo scontro campale avviene a Benevento.

Il mattino del 26 febbraio, seguendo il consiglio di un astrologo, Manfredi decide l’attacco. Dopo un aspro scontro, le sue forze sono sopraffatte.

Battaglia di Benevento: Carlo I d'Angiò opposto a Manfredi (1266).Manfredi potrebbe lasciare il campo, mettersi in salvo, allontanarsi dal Regno in attesa di tempi più favorevoli. Ma non vuole abbandonare i suoi prodi che combattono al grido di "Svevia!". Deciso a gettarsi nella mischia, è sta vestendo l’armatura, quando l’aquila reale si stacca dall’elmo e cade in terra. "Ecco la volontà di Dio" mormora: è il segno della fine. La giornata si conclude con un massacro e Carlo I resta padrone del campo. Uno dei suoi soldati aveva ucciso Manfredi con un colpo di spada, senza nemmeno riconoscerlo.

Battaglia di Benevento: Carlo I d'Angiò opposto a Manfredi (1266). Biblioteca Nazionale di Francia (FR 2813)
fol. 295 Grandes Chroniques de France
France, Paris, 14th Century.

Era il tramonto del 12 febbraio 1266.

La propaganda guelfa e papalina ha per secoli accusato Manfredi di aver usurpato il trono del nipote Corradino. Se questo fatto può avere qualche fondamento storico, non si vede come l’accusa possa essere lanciata da un pulpito che ha imposto l’occupazione angioina di Carlo I, avviando una dominazione straniera indubbiamente più odiosa e retriva di quella Sveva.


 
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Senza titolo (Cummings)

Post n°1802 pubblicato il 05 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Il tuo più tenue sguardo
facilmente mi aprirà
benché abbia chiuso me stessa
come dita
sempre mi apri petalo per petalo
come la primavera fa
toccando accortamente
misteriosamente la sua
prima rosa
e io non so quello che c'è
in te che chiude e apre
solo qualcosa in me
comprende che è più
profonda la luce dei tuoi
occhi di tutte le rose.
Nessuno... neanche
la pioggia ha...
Così piccole mani.

 
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Libri dimenticati:Hurricane e Lazarus

Post n°1801 pubblicato il 05 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

E' la storia dell'ingiusta detenzione di Rubin Carter,il pugile detto Hurricane che ha ispirato Bob Dylan e il film con Denze Washington

 
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Frase del giorno

Post n°1800 pubblicato il 05 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Chi fa da sè fa per tre! (vero cari inquilini???)

 
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