Messaggi del 25/02/2012

Scrittori dimenticati:Romano Bilenchi

Post n°2004 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Romano Bilenchi (Colle Val d'Elsa, 9 novembre 1909Firenze, 18 novembre 1989) è stato uno scrittore italiano.

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Biografia [modifica]
Colle di Val d’Elsa: la stele dedicata a Romano Bilenchi

Romano Bilenchi nasce a Colle Val d'Elsa da una famiglia di piccoli industriali, con suo padre convinto socialista.

Dopo aver iniziato gli studi a Siena, ragazzo culturalmente preparato e dal carattere non facile, si forma una coscienza di classe frequentando la classe operaia della sua cittadina, nei fermenti culturali e sociali del primo dopoguerra.

Giovanissimo s'iscrive a quel movimento di sinistra che fu all'inizio il fascismo di protesta e trasferitosi a Firenze inizia a collaborare a vari periodici politici e letterari, pubblica le sue prose su L'Universale diretta dal poeta Berto Ricci e su riviste strapaesane come Il Selvaggio, sul quale esordisce nel 1930 come collaboratore di Mino Maccari suo amico e corregionale, oltre che sul Primato diretta da Giuseppe Bottai e sul Bargello, organo ufficiale del Partito fascista fiorentino.

Trasferitosi momentaneamente a Torino nel 1931 è caporedattore a La Stampa sotto la direzione di Curzio Malaparte. Nel 1934, con la raccomandazione di Galeazzo Ciano, incomincia a collaborare a La Nazione di Firenze, ma proprio in quel periodo il giovane matura una posizione sempre più critica nei confronti del fascismo, posizione che lo porta in seguito ad un'uscita semiufficiale dal partito all'epoca della Guerra di Spagna e poi definitivamente nel 1940.

Il suo primo romanzo, Vita di Pisto, che narra del nonno, vecchio garibaldino, venne pubblicato nel 1931 per le edizioni della rivista Il Selvaggio. La prima vera opera narrativa, per molti rimasto il suo capolavoro, fu però il romanzo Conservatorio di Santa Teresa, pubblicato nel 1940 ma scritto fra il 1936 e il 1938), al quale fece seguito Anna e Bruno e altri racconti (1938), il Mio cugino Andrea (1943) e la trilogia di racconti lunghi La siccità (1941), La miseria (1941) e per ultimo Il Gelo nel (1983).

Nel 1943, durante l'occupazione tedesca, lo troviamo molto attivo nella lotta clandestina e nei primi anni del dopoguerra diventa redattore capo della "Nazione del Popolo", organo del Comitato di Liberazione Nazionale toscano, e s'iscrive al partito comunista ma fin dall'inizio fu molto critico nei confronti dello stalinismo di cui non condivideva i metodi autoritari che si tramutavano sempre di più nel più becero totalitarismo. La carriera giornalistica di Bilenchi è legata alla straordinaria avventura del Nuovo Corriere" di Firenze: prima come caporedattore poi, dall'11 settembre 1948, come direttore fa del quotidiano fiancheggiatore del PCI, una voce intelligente e mai banalmente allineata alle direttive del partito. Prova ne è l'editoriale del primo luglio nel quale Bilenchi condannava la dura repressione delle proteste degli operai polacchi avvenuta a Poznan il 28 giugno 1956. Una totale libertà di giudizio che porterà alla chiusura del giornale il 7 agosto di quello stesso anno e al suo abbandono del PCI.

Nei primi anni 50, anni controversi di contrapposizione con la nascita della cosiddetta Guerra Fredda, tra il blocco sovietico e americano, è tra le personalità fiorentine di sinistra a tentare di dialogare con il mondo cattolico fiorentino e dopo alcuni anni di colloqui, nel 1955, riesce a convincere il sindaco, Giorgio La Pira, ad organizzare a Firenze un confronto tra i sindaci delle città del Patto di Varsavia e quelle della Nato che alla fine dei colloqui firmeranno in Palazzo Vecchio un patto d'amicizia.

Dal 1954, con Carlo Salinari e Antonello Trombadori, Bilenchi è direttore de Il Contemporaneo.

Per lunghi anni non pubblica quasi nulla, infine, preceduto dal volume di ricordi Amici (1976), dove è ben rappresentata l'amicizia un po' controversa e carica di tensione con Vittorini e ben delineati i ritratti degli amici di sempre (in particolare quelli di Ottone Rosai, Mino Maccari, Leone Traverso, Ezra Pound, Eugenio Montale ed altri meno noti ma pur sempre amici veri), uscirà nel 1972 il suo ultimo romanzo Il bottone di Stalingrado con il quale vince nello stesso anno il Premio Viareggio.

Morirà a Firenze nel 1989.

 
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Scrittori dimenticati:Anthony Trollope

Post n°2003 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Anthony Trollope (Londra, 24 aprile 1815Londra, 6 dicembre 1882) è stato uno scrittore inglese, uno dei più celebri e prolifici dell'età vittoriana.

Alcuni dei suoi capolavori, noti come Chronicles of Barsetshire perché basati sull'immaginaria contea di Barsetshire, affrontarono diverse tematiche politiche e sociali dell'epoca.

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Biografia [modifica]

Il padre, Thomas Anthony Trollope, era un legale mentre la madre, Frances Trollope, divenne una celebre scrittrice. A causa del suo pessimo carattere, il padre non ebbe successo nella carriera forense, causando anzi gravi problemi economici alla famiglia. Tuttavia, poiché proveniva da un retroterra familiare legato alla piccola proprietà terriera, desiderava educare i figli come dei gentlemen e farli studiare ad Oxford o Cambridge.

Nato a Londra, Anthony studiò per un triennio alla Harrow School fin dall'età di sette anni per poi seguire due suoi fratelli maggiori al Winchester College, dove rimase un altro triennio. In questi due istituti pubblici, che erano annoverati come luoghi di élite, ebbe delle esperienze molto negative: non avendo denaro né amici, soffrì lunghi periodi di angherie e umiliazioni che lo segnarono profondamente.

Nel 1827 Frances Trollope emigrò in America per partecipare prima alla comunità utopica di Nashoba, fondata dalla femminista scozzese Frances Wright, e per aprire poi con le sue tre sorelle minori un bazar a Cincinnati che però si rivelò un fallimento. Thomas seguì sua moglie per un breve periodo di tempo e poi fece ritorno ad Harrow, mentre nel frattempo Anthony era sempre rimasto in Inghilterra. Nel 1831 la madre fece ritorno a casa e divenne poco dopo una celebre scrittrice, permettendo così alla famiglia di riscattarsi economicamente. Gli affari del padre, tuttavia, andarono di male in peggio e nel 1834 Thomas dovette fuggire in Belgio per evitare l'arresto per bancarotta fraudolenta.

L'intera famiglia si trasferì allora a Bruges, dove si mantenne con i guadagni di Frances fino alla morte di Thomas nel 1835. Mentre viveva in Belgio, Anthony lavorò come assistente insegnante e imparò il francese e il tedesco, ma fece ritorno in patria dopo aver trovato lavoro nelle poste britanniche.

Il soggiorno in Irlanda [modifica]

Trollope continuò a vivere in maniera precaria, alloggiando in appartamenti in affitto in totale emarginazione. Più tardi si riferì a questo periodo definendolo il suo periodo di goffaggine. Fece qualche piccolo progresso nella carriera fino a quando le poste britanniche non lo inviarono in Irlanda nel 1841. Qui si unì in matrimonio con una ragazza inglese di nome Rose Heseltine nel 1844. I due vissero in Irlanda fino al 1859 quando fecero ritorno in Inghilterra. A dispetto della terribile carestia che colpì l'Irlanda durante il suo soggiorno, Trollope ricordò così il suo periodo irlandese nella sua autobiografia:

« Condussi una vita molto lieta in Irlanda. Gli Irlandesi non mi ammazzarono né mi ruppero la testa, anzi li trovai un popolo pieno di gioia, abile negli affari - le classi lavoratrici di lì sono molto più intelligenti di quelle inglesi - e ospitali»

La sua professione lo tenne in stretto contatto con la popolazione irlandese e di questa esperienza fece successivamente tesoro.

Trollope iniziò a scrivere durante i lunghi viaggi in treno richiesti dal suo ufficio in Irlanda. Programmando con estrema precisione la sua attività di scrittore, divenne uno degli autori più prolifici di tutti i tempi. Scrisse le sue prime novelle quando era ancora ispettore per le poste britanniche, attingendo dalle lettere smarrite le idee per i suoi racconti. Ovviamente i suoi primi scritti hanno come sfondo l'Irlanda, scelta molto rischiosa vista l'ostilità con cui la critica letteraria britannica, e non solo, considerava l'isola.

Il ritorno in patria [modifica]

Nel 1859 aveva raggiunto una certa posizione di rilievo all'interno del servizio postale britannico. La storia delle poste britanniche lo annovera come colui che ha introdotto i pillar box, ovvero le cassette postali a forma di colonnina di colore rosso sparse in tutto il Regno Unito. In questo periodo la sua creatività letteraria aumentò così come mutò la sua fortuna all'interno della società vittoriana.

Nel 1867 lasciò l'incarico direttivo alle poste britanniche e l'anno successivo si candidò al Parlamento inglese nelle liste liberali. Dopo aver perso le elezioni si concentrò interamente sulla propria carriera letteraria, dirigendo nel frattempo il St Paul's Magazine che pubblicò in serie i suoi primi racconti.

Il suo primo reale successo fu L'amministratore (The Warden) (1855), il primo dei sei romanzi ambientati nell'immaginaria contea di Barsetshire. Il suo capolavoro comico, Barchester Towers (1857), è probabilmente il miglior libro di questa prima serie.

L'altra celebre serie di racconti, le Palliser novels, hanno il facoltoso e duttile Plantagenet Palliser come protagonista, al fianco di sua moglie, l'ingenua Lady Glencora.

Durante gli ultimi anni di vita la sua popolarità diminuì, non impedendogli tuttavia di restare un autore molto prolifico e di scrivere quello che è considerato il suo capolavoro assoluto, la pungente satira The Way We Live Now (1875). Trollope scrisse più di venti romanzi e diverse novelle brevi, oltre ad alcuni libri di viaggio.

Anthony Trollope morì a Londra nel 1882 e venne seppellito al Kensal Green Cemetery a fianco del suo contemporaneo Wilkie Collins. Lo scienziato e saggista C.P. Snow scrisse nel 1975 una biografia di Trollope dal titolo Trollope: His Life and Art.

La fortuna [modifica]

Dopo la sua morte, apparve l'Autobiografia di Trollope e la caduta in disgrazia agli occhi della critica è fondata in gran parte dal contenuto di quest'opera. Persino durante la sua carriera di scrittore, i critici continuarono a scuotere la testa di fronte alle sue opere, ma quando Trollope rivelò di seguire uno schema predefinito per le sue novelle, ebbe presto conferma delle sue peggiori paure nei confronti della critica letteraria.

Lo scrittore Henry James espresse opinioni contrastanti su Trollope. Da giovane scrisse delle feroci bocciature delle sue opere, parlando della novella Beltons' estate come:

Un libro stupido, senza la pur minima traccia di un'idea, una sorta di mentale pabulum.

James non amava le lunghe digressioni presenti nelle opere di Trollope, che contrastavano enormemente con la sua idea di integrità artistica. Tuttavia lo stesso James apprezzò notevolmente l'attento realismo di Trollope, ed in un saggio scritto poco dopo la morte dello scrittore affermò:

Il suo più grande ed incontestabile merito è la sua totale comprensione dell' usuale ... egli riusciva a sentire tutte le cose del quotidiano oltre che vederle. Le sentiva in un modo semplice, salutare, diretto nella loro tristezza, nella loro letizia, nel loro fascino come nel loro aspetto comico ed in tutti i loro significati ovvi e ragionevoli.

James non amava tuttavia l'abitudine di Trollope di rivolgersi in prima persona ai suoi lettori, tuttavia questo autore potrebbe aver ispirato le sue stesse opere. Il personaggio di Alice Vavasor e del suo egoistico padre nelle cosiddette Palliser novels potrebbero essere gli antesignani del personaggio di Kate Croy e di suo padre Lionel ne Le ali della colomba.

 
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Scrittrici dimenticate:Giustina Renier Michiel

Post n°2002 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Giustina Renier Michiel (Venezia, 15 ottobre 1755Venezia, 6 aprile 1832) è stata una scrittrice italiana, amante delle arti e delle scienze, animatrice di un noto salotto letterario.

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Biografia [modifica]
« Orgoglio di nessuna fatta allignò in lei giammai: non per aver sortito i natali in mezzo ad ogni repubblicana grandezza, non per vedersi da una famiglia, splendida al pari per onori e dovizie, accolta sposa desiderata; non per essersi indi a poco fatta ammirare dall'inclita Roma, il cui cielo ispiratore di belle e grandiose immagini, valse forse, durante l'anno che ivi stette presso il padre ambasciatore, a sviluppare in lei quell'altezza d'animo, e quell'amore per le arti belle che non le venner mai meno; non finalmente per aver ottenuto una gloria d’ogni altra più bella, giacché tutta Sua propria, quella d’esser salita in fama come cultrice delle lettere »
(I. Teotochi Albrizzi, Ritratto di Giustina Renier Michiel)

Figlia di Andrea Renier e Cecilia Manin, appartenne ad una importante famiglia del patriziato veneziano (gli ultimi due Dogi, Paolo Renier e Ludovico Manin erano, rispettivamente, il nonno paterno e lo zio materno di Giustina).

Studiò presso le Cappuccine di Treviso, quindi presso una dama francese. Seguì corsi di fisica, botanica, chimica presso lo studio Padovano. Conosce le lingue francese e inglese.

Dal matrimonio con Marcantonio Michiel, celebrato nel 1775, nacquero tre figlie: Elena (1776-1828), la quale sposerà il nobile Alvise Bernardo ma non avrà figli, Chiara (1777-1787) e Cecilia (1778-?) che sposerà il nobile bresciano Lodovico Matinengo dal Barco ed avrà tre figli, Leopardo, Maddalena e Giustina.

Approfittando dell'alta carica di Ambasciatore a Roma rivestita dal padre di Giustina, la coppia si trasferisce per un anno a Palazzo Venezia. La dama ha dunque modo di frequentare la società romana; in particolare l'incontro con Vincenzo Monti segna l'inizio dell'interesse per la cultura e per gli studi letterari.

Nel 1784 si divide dal marito: la motivazione, addotta dalla stessa Giustina, è "molesta coabitazione". Un riavvicinamento si avrà nel 1828, a seguito della morte della figlia Elena.

Intrattenne per molti anni un celebre salotto letterario in corte Contarina a S. Moisè frequentato, tra l'altro, da Foscolo, Canova, Ippolito Pindemonte, Madame de Stael, Melchiorre Cesarotti, Vincenzo Monti, Lord Byron, Cesare Cantù.

Morì nel 1832 a Venezia, nel proprio palazzo presso le Procuratie Vecchie, accanto alle Mercerie.

 
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Scrittrici dimenticate:Emilia Ferretti Viola

Post n°2001 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Emilia Ferretti Viola nota con il nome d'arte Emma (Milano, 1844Roma, 1929) è stata una scrittrice italiana, autrice di Una fra tante e seguace delle idee di Anna Maria Mozzoni, una pioniera del femminismo.

Il romanzo Una fra tante, pubblicato nel 1878 dalla casa editrice Società editrice partenopea, ebbe all'epoca una certa risonanza e suscitò uno scandalo, la cui eco arrivò fino al Parlamento italiano. Motivo di tale risonanza è dovuto alla tematica trattata, ovvero la prostituzione e la critica al cosiddetto "Regolamento Cavour", norma entrata in vigore nel neonato Regno d'Italia per la regolamentazione dell'attività delle case chiuse.

 
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Raffaele Palizzolo

Post n°2000 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

C' era una volta la mafia. La mafia delle campagne, degli omicidi per il possesso di fondi agricoli, delle pecore rubate per dispetto. Era il tempo delle estorsioni ai feudatari che, per dormire tranquilli, si sceglievano un uomo d' onore che gli faceva da gabellotto. Ma in Sicilia la nobilta' contava sempre meno. Vivere all' ombra dei ricchi proprietari era un affare che non consentiva piu' alcun potere. Fu allora che la malavita entro' in politica. C' e' una data che segna l' inizio dei delitti politici commessi dalla mafia. E il 1 febbraio del 1893. Lungo la strada ferrata tra Altavilla Milicia e Trabia viene rinvenuto il cadavere di Emanuele Nortarbartolo, sindaco di Palermo dal 1873 al 1876, ex direttore del Banco di Sicilia, senatore del Regno d' Italia. E stato ucciso a pugnalate sul vagone di un treno per Palermo. E la prima vittima eccellente di un sistema ormai collaudato. Perche' gli 11 anni trascorsi tra istruttorie lentissime e processi interminabili riveleranno complicita' di ministri, silenzi imbarazzati di questori. Chi e' il mandante dell' assassinio Notarbartolo? A Palermo lo sanno tutti: don Raffaele Palizzolo, deputato. Il caso si configura, infatti, come uno strano giallo. Strano perche' all' indomani dell' omicidio perfino la stampa locale fa il nome del parlamentare, che non si cura nemmeno di smentire i suoi accusatori. Mentre le autorita' giudiziarie si ostinano a non indagare sull' onorevole. Don Raffaele Palizzolo e' uno che nel 1872, a 26 anni, va in giro a cavallo circondato dai suoi bravacci, nel paese di Ciminna. Il giovane consigliere comunale va a raccattare voti: elargisce denaro e promette favori. Comincia la carriera politica nelle file del partito regionista, di tendenze clerico.separatiste. Ma, per convenienza, approda alla sinistra liberale che fa capo a Crispi. Ne diventa il luogotenente a Palermo. Don Raffaele non disdegna banchetti con noti capi.mafia. E, come membro del consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia, e' responsabile di malversazioni. Comportamenti che contrastano con il rigore del direttore dell' istituto di credito, Emanuele Notarbartolo, che nel 1889 presenta un rapporto di denuncia al ministero. Per tutta risposta, Crispi licenzia Notarbartolo. Il primo processo sul "delitto del secolo" . come sottolinea con enfasi la stampa nazionale, dedicando intere pagine al fenomeno.mafia . si celebra a Milano, a 7 anni dall' omicidio. Gli imputati sono due ferrovieri. Del mandante, nessuna traccia. Ma in aula l' ammiraglio Leopoldo Notarbartolo, figlio dell' ucciso, esordisce gridando che il responsabile della morte del padre e' don Raffaele Palizzolo: "Nessuno ha mai indagato, perche' si e' temuto di farlo". E una svolta. Udienza dopo udienza, emergono le colpe di Palizzolo, arrestato l' 8 dicembre del 1899. Due anni dopo, i giurati di Bologna condannano don Raffaele a 30 anni. Eppure in aula lo aveva difeso Codronchi, un ex ministro: "La mafia costituisce il diritto del piu' forte... Siamo giusti! Della mafia si servono un po' tutti". Il verdetto infiamma i siciliani. Nei negozi di Palermo appaiono striscioni neri con la scritta "Lutto cittadino". La nobilta' isolana si sente ferita nel proprio orgoglio. La classe dirigente, appoggiata dalla Chiesa locale, e' indignata: la condanna di Palizzolo e' una condanna della Sicilia. Perche' non e' vero che Sicilia e' uguale a mafia. Bisogna difendersi da "quelli del Nord": si agita lo spettro del separatismo e il movimento fa paura al governo. Il 27 gennaio del 1903 la Cassazione annulla il dibattimento di Bologna per vizio di forma. Dal nuovo processo di Firenze l' imputato esce assolto per insufficienza di prove il 23 luglio del 1904. Palermo e' imbandierata a festa e manifestazioni di giubilo preparano il ritorno trionfale di don Raffaele. La mafia ha vinto.

 
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Emanuele Notarbartolo di Sciara

Post n°1999 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Un Don Chisciotte a disagio con la corruzione; Pronunciando questa eloquente ed evocativa frase, la scrittrice e poetessa Dacia Maraini, ricordava metaforicamente la diligente figura di un siciliano retto e onesto. L’immagine di un perfetto galantuomo che ripudiando da sempre il malaffare, non tradì mai la propria autentica e lungimirante coerenza morale. Un aristocratico che da 119 anni a questa parte, si commemora come il primo eccellente e “innocente” bersaglio della sconsiderata tirannia mafiosa. Ripercorrendo i longevi e distanti anni dell’Ottocento siciliano, oggi ho deciso di raccontarvi questa storia affinché nei vostri cuori e nelle vostre coscienze, possa insidiarsi quel fresco profumo di libertà che come affermava provvidenzialmente il giudice Borsellino, fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della contiguità e quindi della complicità. Dopo questa breve parentesi, inizia proprio da qui il mio racconto. Il suo nome era Emanuele Notarbartolo ma per via delle sue aristocratiche e raffinate origini, divenne presto marchese di San Giovanni. Discendente dei Duchi di Villarosa e appartenente alla dinastia dei Principi di Sciara, Emanuele nacque a Palermo il 23 febbraio del 1834. Già bambino divenne presto orfano di entrambi i genitori. Dalla tenera infanzia fino ai ventitré anni, Emanuele era rimasto in Sicilia. Desideroso di vivere nuove appassionanti esperienze, nel 1857, lasciò Palermo per trasferirsi a Parigi. Continuando a girovagare per l’Europa, giunse prima a Bruxelles e poi a Londra. In occasione di quel soggiorno londinese, conobbe due conterranei che erano emigrati anch’essi dalla Sicilia. I loro nomi erano Michele Amari e Mariano Stabile ed erano due esponenti del Risorgimento. Sfruttando la loro preziosa conoscenza, molte ore del proprio tempo, Emanuele cominciò a riservarle allo studio. Approfondendo le proprie conoscenze economiche e storiche, sostenne i principi fondanti che promuovevano il liberalismo conservatore. Lasciando l’Inghilterra, rientrò in Italia stabilendosi a Firenze. Fu proprio in questo periodo, che conobbe alcuni dei più autorevoli e illustri rappresentanti della futura classe politica italiana e siciliana. Uno di questi era il futuro senatore del Regno D’Italia, Francesco Lanza di Scalea. Maturando le proprie idee politiche, Emanuele si apprestò a far parte del movimento politico della Destra Storica. Animato da un verace patriottismo, si schierò al fianco dei Mille nei panni di giovane garibaldino. In particolare, nel luglio del 1860, si distinse nella Battaglia di Milazzo e nell’occupazione di Messina. Dopo la proclamazione del Regno D’Italia e l’elezione del primo Parlamento Italiano, Emanuele depose la propria divisa da ufficiale. Lasciato l’esercito, ritorno in Sicilia e si unì in matrimonio con Marianna Merlo. Correva l’annata del 1865 quando poco più che trentenne, si apprestò a ufficializzare il suo esordio in politica. Restando in perfetta convergenza con gli obiettivi dei moderati di destra, Emanuele prese parte alla giunta presieduta dal sindaco Antonio Starrabba di Rudinì. Quest’ultimo, decise di nominarlo assessore alla polizia urbana del Comune di Palermo. Un paio di anni dopo, nel 1869, fondò e diresse un nuovo quotidiano giornalistico che prese il nome di “Corriere Siciliano”. Quella moderna esperienza fu alquanto breve per Emanuele. Infatti, a seguito di un importante incarico, Emanuele lasciò subito la testata. Nello specifico, era stato invitato a entrare nel consiglio di amministrazione dell’ospedale cittadino. Cosciente dell’inadeguata e grave condizione dell’ospedale, il marchese accettò immediatamente quell’invito. Dal 1870 fino al 1873, fu designato per dirigere il medesimo Ospedale. In soli tre anni, l’Ospedale Civico era ritornato del tutto efficiente e funzionale. Le molteplici inadempienze che gravavano sul sistema sanitario, furono poco a poco annientate dall’efficace e integerrimo intervento del marchese. La sua gestione ridiede respiro alle casse sanitarie rendendo pulite e accoglienti tutte le strutture dell’ospedale. In aggiunta, fu anche raddoppiata la quantità dei posti letto. Quella sua magnifica condotta amministrativa gli valse la fama di uomo affidabile e onesto. Lasciata la dirigenza dell’Ospedale Civico, Emanuele ritornò al Comune nella rappresentativa veste di primo cittadino. Eletto il 28 settembre del 1873, rimase in carica fino al 30 settembre del 1876. Svolgendo fino in fondo il proprio dovere, il marchese rivalutò con incisività l’intero patrimonio urbanistico di Palermo. Nel corso di tutto il suo mandato, contribuì ad attuare una serie di opere nel solo e unico interesse dei suoi cittadini. Opere significative come il completamento del mercato degli Aragonesi, la copertura del teatro Politeama, l’ammodernamento della rete viaria, i vari interventi per migliorare le condotte idriche, il collegamento della stazione centrale con il porto, i lavori di costruzione del cimitero dei Rotoli e la posa della prima pietra per avviare la realizzazione del Teatro Massimo. Come se non bastasse, s’impegnò fortemente nel fronteggiare la diffusa e grave corruzione nelle dogane. Nella sua agenda comunale non c’era posto per le consolidate clientele della cattiva politica locale. Sotto la sua vigile e rigorosa guida, il sistema di assegnazione degli appalti fu sottoposto a un vero e proprio processo di normalità amministrativa. Anziché riservarli ai soliti loschi personaggi, Emanuele decise di assegnarli soltanto a ditte in odor di legalità. Questa perseveranza nel diffidare da ogni forma d’ingiustizia, a più di qualcuno non piaceva. Ovvero, quella deplorevole zona  grigia che si aggirava tra gli insalubri e avidi ambienti della malavita locale. In conseguenza di ciò, la coscienziosa attività di Emanuele, fu ostacolata da un delegittimante progetto d’isolamento. Dal 1876 fino al 1890, ricoprì l’impegnativo ruolo di direttore generale del Banco di Sicilia. Appena insediato, la situazione del Banco era alquanto tragica. L’istituto di credito era quasi ad un passo dal fallimento. Dopo l’avvento dell’Unità d’Italia, il Banco di Sicilia era stato oppresso da una miriade di operazioni speculative che avevano prosciugato gran parte delle risorse finanziarie di cui beneficiava l’istituto. I provvedimenti messi in atto dal marchese si dimostrarono tutt’altro che inefficaci. Investendo tutte le proprie astute competenze economiche, Emanuele riuscì a scongiurare la preannunciata possibilità di un definitivo decadimento dell’economia siciliana. Nel giro di pochi anni, l’istituto era stato risanato con una radicale riorganizzazione del sistema bancario. Impedendo l’affiorare di nuove speculazioni, Emanuele ideò una serie d’innovativi e adeguati provvedimenti come l’istituzione dei concorsi fra le società operaie di Mutuo Soccorso, gli aiuti rivolti alla cassa dei piccoli prestiti per la categoria della classe operaia, la creazione della cassa di assicurazione contro gli infortuni degli operai sul lavoro, la modifica dello statuto del Banco. Modificando le norme previste dall’ordinamento dello statuto, egli smantellò una consolidata e immorale tendenza finanziaria. Purtroppo, quelle innovative e costruttive scelte, furono boicottate da un consiglio di amministrazione che non aveva di certo a cuore il futuro della Sicilia. La maggioranza di quel consiglio era prevalentemente formata da politici. Tra questi era presente anche l’onorevole Raffaele Palizzolo. Raffaele Palizzolo era un deputato del Regno d’Italia abbastanza noto per le sue poco raccomandabili frequentazioni. Conosciuto anche con il soprannome di “U Cignu” il cigno, Palizzolo era divenuto uno dei principali referenti politici di Cosa Nostra. Nel maggio del 1882, Emanuele fu sequestrato da un gruppo di uomini. Lo liberarono dopo il pagamento di un consistente riscatto. Dietro quel sequestro si nascondeva un chiaro avvertimento intimidatorio. Un segnale che con molta probabilità, era stato attuato dal Palizzolo e dai suoi complici. Nonostante tutto, Emanuele non abbassò la testa. Senza alcun timore, nel 1889, redisse un dettagliato fascicolo di denuncia. Fiducioso che fosse fatta giustizia, lo inviò all’allora ministro dell’agricoltura Luigi Miceli. All’interno di tale fascicolo, era presente il nome dell’onorevole Palazzolo e di altre maestranze della politica siciliana. Onorevoli senza onore che si erano impropriamente arricchiti con i soldi di migliaia e migliaia di risparmiatori. In particolare, Emanuele rivelò dei rapporti che sussistevano tra Palizzolo e il capomafia di Caccamo. La sera del primo febbraio 1893, Emanuele aveva preso un treno presso la stazione di Sciara per ritornare a Palermo. Tra il casello di Trabia e quello di Termine Imerese, due uomini lo trafissero con 27 pugnalate. La mafia aveva compiuto la sua prima vile e brutale vendetta.

 
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Lo scandalo della Banca Romana,nulla di nuovo sotto il sole

Post n°1998 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

o scandalo della Banca Romana fu un caso politico-finanziario che coinvolse alcuni settori della Sinistra storica, accusati di collusione negli affari illeciti della Banca Romana, ex Banca dello Stato Pontificio, uno dei sei istituti che all'epoca erano qualificati ad emettere moneta circolante in Italia.

Storia La situazione bancaria in Italia 

Ancora tre decenni dopo l'Unità, in Italia vi erano ben sei banche centrali con la facoltà di emettere biglietti di banca intitolati al Regno d'Italia: la Banca Romana, la Banca Nazionale di Torino, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito.

All'epoca, le maggiori banche italiane si erano impegnate in prestiti a lungo termine soprattutto nel settore dell'industria edilizia e finirono col rimanere strettamente legate a quelle imprese da cui dipese alla fine la loro vita. A causa della crisi del settore edilizio, crollarono numerose banche: il Banco di Sconto e Sete, la Banca Tiberina, il Credito Mobiliare, la Banca Generale.

Il tonfo più clamoroso fu quello della Banca Romana per lo scandalo politico-finanziario che ne derivò. Lo scandalo della Banca Romana, e in generale la crisi del sistema bancario, era causato dalla grave depressione iniziata nel 1887-88 e dagli eccessivi investimenti nel settore edilizio, dopo il trasferimento della capitale, specialmente a Roma e a Napoli a seguito delle operazioni di risanamento seguite al colera del 1884, che si rivelarono fallimentari per la stessa Banca Romana.

Per coprire le perdite, l'istituto di credito della capitale non solo iniziò a emettere nuova moneta senza autorizzazione, ma arrivò addirittura a stampare due serie di biglietti con lo stesso numero di serie, in modo da raddoppiare, senza darlo a vedere, l'emissione di moneta in circolazione.

L'inchiesta 

Nel giugno del 1889 il Ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio del Governo Crispi I, Luigi Miceli, dispose un'indagine ispettiva su tutti gli istituti di emissione. L'inchiesta fu affidata al senatore Giuseppe Giacomo Alvisi e al funzionario del Tesoro Gustavo Biagini. L'indagine dette risultati contraddittori: fu riscontrato un disavanzo di nove milioni di lire, reintegrato tuttavia il giorno successivo e spiegato con l'"imperizia" degli inquirenti.

Il 30 giugno 1891, il Governo di Rudinì I si oppose a che il senatore Alvisi riferisse in Senato i risultati dell'ispezione da lui condotta "in nome dei supremi interessi del Paese e della Patria"[1].

Prima della sua morte, avvenuta il 24 novembre 1892, Alvisi confidò ad alcuni amici i risultati dell'inchiesta, che vennero resi noti il 20 dicembre 1892 dal deputato radicale Napoleone Colajanni: la Banca Romana, a fronte dei 60 milioni autorizzati, per cui possedeva sufficienti riserve auree, aveva emesso biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia[2].

Per accertare le modalità di quelle emissioni fu proposta un'inchiesta parlamentare a cui si oppose il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti che promosse invece un'inchiesta presieduta dal primo presidente della Corte dei Conti Enrico Martuscelli. La contrarietà di Giolitti sembrerebbe dovuta a coprire il coinvolgimento nella faccenda del re Umberto I, il quale era fortemente indebitato con la banca.[3]

Il 20 gennaio 1893 Martuscelli riferì l'esistenza delle irregolarità: il governatore della Banca Romana Bernardo Tanlongo e il direttore Michele Lazzaroni vennero arrestati, mentre il deputato Rocco de Zerbi, contro cui la Camera dei deputati aveva concesso l'autorizzazione a procedere per l'accusa di aver appoggiato per denaro la dirigenza della Banca Romana, morì improvvisamente, probabilmente suicida.

Il processo 

Dal carcere Bernardo Tanlongo (l'ex governatore della Banca Romana) affermò di aver dato cospicue somme anche a diversi presidenti del consiglio, tra cui Giovanni Giolitti e Francesco Crispi. Giolitti, in risposta ad interrogazioni ed interpellanze parlamentari, negò di essere stato a conoscenza della relazione Alvisi-Biagini e di aver ricevuto denaro dalla Banca.

Il 21 marzo 1893 fu nominato un comitato di sette parlamentari che il 23 novembre 1893 presentò al presidente della Camera la relazione finale nella quale si affermava che fra i beneficiari dei prestiti vi erano 22 parlamentari, fra cui Crispi. Il processo del 1894 si concluse con l'assoluzione degli imputati: per evitare che l'inchiesta travolgesse uomini di spicco della politica italiana, i giudici nella sentenza denunciarono la sparizione di importanti documenti, necessari a provare la colpevolezza degli imputati. Il procedimento penale venne quindi archiviato senza emettere alcuna condanna.

Conseguenze dello scandalo [modifica]

Lo scandalo ebbe non soltanto enorme risonanza nell'opinione pubblica, ma anche pesanti ripercussioni sia a livello politico, sia sul sistema economico e bancario italiano.

A seguito del caos finanziario, il capo del governo Giovanni Giolitti istituì commissioni di inchiesta e pose mano rapidamente al riordino del sistema creditizio. Con la legge n. 449 del 10 agosto 1893 fu fondata la Banca d'Italia attraverso la fusione della Banca Nazionale con le due banche toscane. Alla nuova banca fu affidata la liquidazione della Banca Romana. L'emissione di moneta rimase competenza di soli tre istituti: la Banca d'Italia, in posizione di leadership, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Questi ultimi sarebbero stati spogliati della facoltà di emissione nel 1926.

Sul piano politico, il procedere del processo penale e dello scandalo derivato dalla vicenda, con il sospetto di coinvolgimento degli uomini politici e di occultamento delle prove, portò nel novembre 1893 ad una crisi politica e alle dimissioni di Giovanni Giolitti da capo del Governo, sostituito in dicembre da Francesco Crispi. Giolitti sarebbe tornato alla presidenza del Consiglio soltanto dieci anni dopo. Tra la fine del 1893 e l'inizio del 1894 crollarono il Credito mobiliare e la Banca Generale, ma il nesso tra questi fallimenti e le vicende della Banca Romana è assai tenue

 
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Il viandate alla morte (Hesse)

Post n°1997 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Anche da me giungerai un giorno,
non mi dimentichi,
s'infrange la catena
ed il tormento avrà una fine.

Sembri ancora lontana ed estranea
sorella morte,
sovrasti come stella gelida
al mio destino.

Ma un giorno ti farai vicina,
ricolma di fiamme sarai.
Vieni amata, sono qui,
prendimi, sono tuo.

 
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Libri dimenticati:L'albero di Giuda

Post n°1996 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Gran bel romanzo di Cronin,da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°1995 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Ti criticheranno sempre,parleranno male di te e sarà dififcile che incontri qualcuno al quale possa piacere così come sei.Quindi vivi,fai quello che ti dice il cuore.La vita è come un'opera di teatro che non ha prove iniziali.Canta,balla,ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l'opera finisca senza applausi (Chaplin)

 
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