Messaggi di Ottobre 2011

Come nacque la stella di Natale

Post n°1110 pubblicato il 31 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Era la notte di Natale. Un bambino aveva perso la sua mamma da poco tempo e alla finestra, guardava in cielo, perché il suo papà gli aveva detto che lei ora era lassù su una stella.
Il bambino, poiché il cielo era nuvoloso, non vedeva nessun astro brillare; improvvisamente però apparve una piccola stella.
Egli pensò che se avesse avuto le ali, avrebbe potuto raggiungerla; forse avrebbe rivisto la mamma.
Ma poi accadde una cosa inattesa: la stellina si staccò dal cielo e venne giù, sempre più giù fino ad arrivare alla finestra del bambino.
Egli aprì la finestra e la vide da vicino: era grande quasi quanto lui e al centro delle cinque punte era luminosissima.
In questa luce, vide la sua mamma che gli diceva:
“Sono felice e sarò sempre vicino a te!”
Istintivamente il bambino afferrò la stella e se la portò sul cuore, stringendosela forte forte.
Immediatamente essa assunse il colore rosso del sangue e al posto delle cinque punte spuntarono dei petali rossi.
L’astro si era trasformato in un fiore.
Nacque così la stella di Natale.

 
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I pastori sordi

Post n°1109 pubblicato il 31 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Un giovane sordo che pascolava le capre, avendo perduto un capro, lo andò a cercare.
Cammin facendo incontrò un pecoraio, anche lui sordo, e gli domandò: «Collega, non è che hai visto il mio capro?».«Il villaggio? Comincia dopo questa collina. Vai dritto per il sentiero e ci andrai a sbatter contro», rispose il pecoraio.
Il capraio proseguì nella direzione indicata e di là dalla collina trovò, per caso, il capro che aveva perduto.
Desiderando mostrare la propria riconoscenza al pecoraio, scelse dal gregge una capra con le corna spezzate e ritornò verso di lui.
«Ecco, mio caro, ti ho portato in dono questa capra, perché mi hai mandato nel luogo in cui si trovava il mio capro, che avevo cercato invano mezza giornata. »«Come?», urlò adirato il pecoraio. «Io non ho rotto le corna a questa capra!», e proseguì per la sua via.
Ma il capraio gli andava dietro, gridando con tutto il fiato che aveva in gola: «Te la regalo! Ti prego di accettarla!».
Mentre camminavano così, si imbatterono nel custode di una mandria di cavalli. Questi era sordo anche lui e si sforzava di cavalcare un cavallo rubato.
Come lo vide, il pecoraio prese la briglia del cavallo e gli disse: «Guarda, collega! Costui sostiene che io avrei rotto le corna della sua capra!».«Non vuole accettare il mio dono!», gridò il capraio.
«Se non lo accetta, non avrò fortuna. »
«Non ho visto il vostro cavallo!», disse il mandriano e cercò di procedere oltre; ma il pecoraio gli si era piantato davanti al cavallo.«Va bene! Se il cavallo è vostro, prendetelo! Ma la sella è di mia proprietà e non ve la do», disse spaventato il mandriano.
Saltò giù dal cavallo, si prese la sella e cominciò a scappare.
Il pecoraio non badò al cavallo, che, dopo aver nitrito un po', si diresse verso la mandria.
Il pecoraio si mise a correre dietro il mandriano; e il capraio inseguiva il pecoraio, portando la capra tra le braccia e gridando a pieni polmoni: «Accettala, ché fa del buon latte!».
Continuarono a correre così, uno dietro l'altro, gridando tutti quanti, finché arrivarono al villaggio.
Gli abitanti, spaventati delle loro grida, uscirono tutti dalle loro case, credendo che arrivassero i tartari o che il villaggio fosse assalito dai briganti.
Li presero, li legarono stretti e li portarono dal giudice.
«Perché spaventate la gente con le vostre grida?», domandò loro irritato. «Che storia è questa? O siete dei furfanti?».
I tre pastori sordi, credendo che il giudice fosse al corrente del loro passato e che sarebbe stato meglio dire la verità, si tradirono.
«Signore», lo interruppe il capraio «dirò le cose come sono. È vero, in vita mia ho rubato più di cento capre e ho spezzato loro le corna perché i proprietari non le riconoscessero; ma, siccome questo pecoraio mi ha mandato dove si era perso il mio capro, volevo ricompensarlo dandogli una capra. Ebbene, pensate un po', lui non vuole accettarla!»
Il pecoraio parlò così:«È vero, in vita mia avrò rubato più o meno mille pecore; ma non sono stato io a rompere le corna a questa capra. C'è qui anche il mandriano, che ho fermato mentre andava a cavallo affinché mi fosse testimone. Lui però non ha voluto, ma è saltato giù da cavallo ed è scappato via come un matto. Perché mai? Non riesco a capire».
E il mandriano: «Non riesco a ricordare il numero esatto dei cavalli che ho rubati in vita mia, ma stavolta sono completamente innocente. Quando quest'uomo ha detto che il cavallo era suo, subito sono saltato giù e gliel'ho lasciato. Mi sono tenuto soltanto la sella, perché è veramente di mia proprietà».
Allorché il giudice udì quanti furti avevano commesso questi ladri, rimase con la bocca aperta per lo stupore.
Naturalmente furono condannati tutti e tre e finirono in galera per le loro azioni disoneste.

 
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Il pianoforte

Post n°1108 pubblicato il 31 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta uno strano e grande strumento, molto lungo e voluminoso. Occupava buona parte del salotto di una casa, ma la sua era una presenza rassicurante e per nulla ingombrante.
Era in effetti diventato il centro della casa stessa e tutte le cose più importanti della vita della famiglia avvenivano intorno a lui.
A Natale, buona parte dei regali per grandi e piccini venivano appoggiati sulla sua coda, durante le feste aiutava la padrona e le teneva i bicchieri o gli aperitivi, in altri momenti acconsentiva acchè qualcuno che aveva voglia di chiacchierare si appoggiasse su di lui e ascoltava confidenze e segreti.
Era discreto, e si prestava a dare una mano come poteva, come se fosse nato per quello. Pur così grande, mai imponeva la sua presenza e aspettava paziente che fossero gli altri a coinvolgerlo.
Quando però il timido pianista, il suo padrone, si sedeva sullo sgabellino e cominciava a suonare, allora pareva che entrambi prendessero vita, assumessero una autonomia diversa. Si aiutavano a vicenda e dal loro sforzo comune uscivano delle note straordinarie, talmente belle che l'insieme diventava qualcosa di più della musica stessa.
O meglio la musica che insieme creavano diventava il segnalibro nell'esistenza delle persone che li circondavano, segnava in maniera inconfondibile e per sempre alcuni momenti delle loro giornate.
Mozart diventava la colonna sonora del periodo in cui la bambina leggeva i primi libri, Schubert accompagnava le sue prime esperienze, e così le più belle diventavano ancora più belle e le più difficili diventavano più sopportabili; Beethoven aveva immortalato la vecchia nonna che giocava con il gatto e Brahms il ragazzino arrabbiato perché qualcuno aveva toccato le sue cose.
A volte scherzavano anche e frasi divertenti diventavano musica o storielle strane venivano trasformate in allegre note.
C'era una colonna sonora per il risveglio, una per gli ultimi attimi della giornata, una per ogni sentimento si avesse il coraggio di riconoscere.
Quello che forse era difficile da capire, e che divenne chiaro solo quando il piano e il pianista furono separati e le note smisero di rincorrersi, era che il pianista attraverso quello strumento avrebbe voluto esprimere tutte le parole che normalmente non riusciva a pronunciare, tutte le cose che riempivano il suo cuore e che lui sperava raggiungessero gli altri….
E che quello strumento, apparentemente inanimato, aveva dentro di sé molta molta vita e voleva insegnare che non sempre le cose sono come le si vedono. Più spesso nascondono qualcosa di stupefacente …. che con un po' di attenzione il cuore può riconoscere.


inviata da Chiara

 
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Trova il tempo (Madre Teresa)

Post n°1107 pubblicato il 31 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Trova il tempo di pensare
Trova il tempo di pregare
Trova il tempo di ridere
È la fonte del potere
È il più grande potere sulla Terra
È la musica dell'anima.

Trova il tempo per giocare
Trova il tempo per amare ed essere amato
Trova il tempo di dare
È il segreto dell'eterna giovinezza
È il privilegio dato da Dio
La giornata è troppo corta per essere egoisti.

Trova il tempo di leggere
Trova il tempo di essere amico
Trova il tempo di lavorare
È la fonte della saggezza
È la strada della felicità
È il prezzo del successo.

Trova il tempo di fare la carità
È la chiave del Paradiso.

 
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Il corvo di Mizzaro

Post n°1106 pubblicato il 31 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Pastori sfaccendati, arrampicandosi un giorno su per le balze di Mízzaro, sorpresero nel nido un grosso corvo, che se ne stava pacificamente a covar le uova.

– O babbaccio, e che fai? Ma guardate un po’! Le uova cova! Servizio di tua moglie, babbaccio!

Non è da credere che il corvo non gridasse le sue ragioni: le gridò, ma da corvo; e naturalmente non fu inteso. Quei pastori si spassarono a tormentarlo un’intera giornata; poi uno di loro se lo portò con sé al paese; ma il giorno dopo, non sapendo che farsene, gli legò per ricordo una campanellina di bronzo al collo e lo rimise in libertà:

– Godi!

Che impressione facesse al corvo quel ciondolo sonoro, lo avrà saputo lui che se lo portava al collo su per il cielo. A giudicare dalle ampie volate a cui s’abbandonava, pareva se ne beasse, dimentico ormai del nido e della moglie.

Din dindin din dindin...

I contadini, che attendevano curvi a lavorare la terra, udendo quello scampanellío, si rizzavano sulla vita; guardavano di qua, di là, per i piani sterminati sotto la gran vampa del sole:

– Dove suonano?

Non spirava alito di vento; da qual mai chiesa lontana dunque poteva arrivar loro quello scampanío festivo?
Tutto potevano immaginarsi, tranne che un corvo sonasse cosí, per aria.
«Spiriti!» pensò Cichè, che lavorava solo solo in un podere a scavar conche attorno ad alcuni frutici di mandorlo per riempirle di concime. E si fece il segno della croce. Perché ci credeva, lui, e come! agli Spiriti. Perfino chiamare s’era sentito qualche sera, ritornando tardi dalla campagna, lungo lo stradone, presso alle Fornaci spente, dove, a detta di tutti ci stavano di casa. Chiamare? E come? Chiamare: «Cichè! Cichè!» cosí. E i capelli gli s’erano rizzati sotto la berretta.
Ora quello scampanellío lo aveva udito prima da lontano, poi da vicino, poi da lontano ancora; e tutt’intorno non c’era anima viva: campagna, alberi e piante, che non parlavano e non sentivano, che con la loro impassibilità gli avevano accresciuto lo sgomento. Poi, andato per la colazione che la mattina s’era portata da casa, mezza pagnotta e un cipolla dentro al tascapane lasciato insieme con la giacca un buon tratto piú là appeso a un ramo d’olivo, sissignori, la cipolla sí, dentro al tascapane, ma la mezza pagnotta non ce l’aveva piú trovata. E in pochi giorni, tre volte, cosí.
Non ne disse niente a nessuno, perché sapeva che quando gli Spiriti prendono a bersagliare uno, guaj a lamentarsene: ti ripigliano a comodo e te ne fanno di peggio.

– Non mi sento bene, – rispondeva Cichè, la sera ritornando dal lavoro, alla moglie che gli domandava perché avesse quell’aria da intronato.

– Mangi però! – gli faceva osservare, poco dopo, la moglie, vedendogli ingollare due e tre scodelle di minestra una dopo l’altra.

– Mangio, già! – masticava Cichè, digiuno dalla mattina e con la rabbia di non potersi confidare.

Finché per le campagne non si sparse la notizia di quel corvo ladro che andava sonando la campanella per il cielo.

Cichè ebbe il torto di non saperne ridere come tutti gli altri contadini, che se n’erano messi in apprensione.

– Prometto e giuro, – disse, – che gliela farò pagare!

E che fece? Si portò nel tascapane, insieme con la mezza pagnotta e la cipolla, quattro fave secche e quattro gugliate di spago. Appena arrivato al podere, tolse all’asino la bardella e lo avviò alla costa a mangiar le stoppie rimaste. Col suo asino Cichè parlava, come sogliono i contadini; e l’asino rizzando ora questa ora quell’orecchia, di tanto in tanto sbruffava, come per rispondergli in qualche modo.

– Va’, Ciccio, va’, – gli disse, quel giorno, Cichè. – E sta’ a vedere, ché ci divertiremo!

Forò le fave; le legò alle quattro gugliate di spago attaccate alla bardella, e le dispose sul tascapane per terra. Po s’allontanò per mettersi a zappare.
Passò un’ora; ne passarono due. Di tratto in tratto Ciché interrompeva il lavoro credendo sempre di udire il suono della campanella per aria; ritto sulla vita, tendeva l’orecchio. Niente. E si rimetteva a zappare.
Si fece l’ora della colazione. Perplesso, se andare per il pane o attendere ancora un po’, Cichè alla fine si mosse; ma poi, vedendo cosí ben disposta l’insidia sul tascapane, non volle guastarla: in quella, intese chiaramente un tintinnío lontano; levò il capo:

– Eccolo!

E, cheto e chinato, col cuore in gola, lasciò il posto e si nascose lontano.
Il corvo però, come se godesse del suono della sua campanella, s’aggirava in alto, in alto, e non calava.
«Forse mi vede», pensò Cichè; e si alzò per nascondersi piú lontano.
Ma il corvo seguitò a volare in alto, senza dar segno di voler calare. Cichè aveva fame; ma pur non voleva dargliela vinta. Si rimise a zappare. Aspetta, aspetta; il corvo, sempre lassú, come se glielo facesse apposta. Affamato, col pane lí a due passi, signori miei, senza poterlo toccare! Si rodeva dentro, Cichè, ma resisteva, stizzito, ostinato.

– Calerai! calerai! Devi aver fame anche tu!

Il corvo, intanto, dal cielo, col suono della campanella, pareva gli rispondesse, dispettoso:

Né tu né io! Né tu né io!

Passò cosí la giornata. Cichè, esasperato, si sfogò con l’asino, rimettendogli la bardella, da cui pendevano, come un festello di nuovo genere, le quattro fave. E, strada facendo, morsi da arrabbiato a quel pane, ch’era stato per tutto il giorno il suo supplizio. A ogni boccone, una mala parola all’indirizzo del corvo: – boja, ladro, traditore – perché non s’era lasciato prendere da lui.
Ma il giorno dopo, gli venne bene.
Preparata l’insidia delle fave, con la stessa cura, s’era messo da poco al lavoro, allorché intese uno scampanellío scomposto lí presso e un gracchiar disperato, tra un furioso sbattito d’ali. Accorse. Il corvo era lí, tenuto per lo spago che gli usciva dal becco e lo strozzava.

– Ah, ci sei caduto? – gli gridò, afferrandolo per le alacce. – Buona, la fava? Ora a me, brutta bestiaccia! Sentirai.

Tagliò lo spago; e, tanto per cominciare, assestò al corvo due pugni in testa.

– Questo per la paura, e questo per i digiuni!

L’asino che se ne stava poco discosto a strappar le stoppie dalla costa, sentendo gracchiare il corvo, aveva preso intanto la fuga, spaventato. Cichè lo arrestò con la voce poi da lontano gli mostrò la bestiaccia nera:

– Eccolo qua, Ciccio! Lo abbiamo! lo abbiamo!

Lo legò per i piedi; lo appese all’albero e tornò al lavoro Zappando, si mise a pensare alla rivincita che doveva prendersi. Gli avrebbe spuntate le ali, perché non potesse piú volare; poi lo avrebbe dato in mano ai figliuoli e agli altri ragazzi del vicinato, perché ne facessero scempio. E tra sé rideva.
Venuta la sera, aggiustò la bardella sul dorso dell’asino tolse il corvo e lo appese per i piedi al posolino della groppiera; cavalcò, e via. La campanella, legata al collo del corvo, si mise allora a tintinnire. L’asino drizzò le orecchie e s’impuntò.

– Arri! – gli gridò Cichè, dando uno strattone alla cavezza.

E l’asino riprese ad andare, non ben persuaso però di quel suono insolito che accompagnava il suo lento zoccolare sulla polvere dello stradone.
Cichè, andando, pensava che da quel giorno per le campagne nessuno piú avrebbe udito scampanellare in cielo il corvo di Mízzaro. Lo aveva lí, e non dava piú segno di vita, ora, la mala bestia.

– Che fai? – gli domandò, voltandosi e dandogli in testa con la cavezza. – Ti sei addormentato?

Il corvo, alla botta:

Cràh!

Di botto, a quella vociaccia inaspettata, l’asino si fermò, il collo ritto, le orecchie tese. Cichè scoppiò in una risata.

– Arri, Ciccio! Che ti spaventi?

E picchiò con la corda l’asino sulle orecchie. Poco dopo, di nuovo, ripeté al corvo la domanda:

– Ti sei addormentato?

E un’altra botta, piú forte. Piú forte, allora, il corvo:

– Cràh!

Ma questa volta, l’asino spiccò un salto da montone prese la fuga. Invano Cichè, con tutta la forza delle braccia e delle gambe, cercò di trattenerlo. Il corvo, sbattuto in quella corsa furiosa, si diede a gracchiare per disperato; ma piú gracchiava e piú correva l’asino spaventato.

– Cràh! Cràh! Cràh!

Cichè urlava a sua volta, tirava, tirava la cavezza; ma ormai le due bestie parevano impazzite dal terrore che si incutevano a vicenda, l’una berciando e l’altra fuggendo. Sonò per un tratto nella notte la furia di quella corsa disperata; poi s’intese un gran tonfo, e piú nulla.
Il giorno dopo, Cichè fu trovato in fondo a un burrone, sfracellato, sotto l’asino anch’esso sfracellato: un carnajo che fumava sotto il sole tra un nugolo di mosche.
Il corvo di Mízzaro, nero nell’azzurro della bella mattinata, sonava di nuovo pei cieli la sua campanella, libero e beato.

 

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