Creato da silvio.battistini il 10/02/2009
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Una scommessa contro il declino

Post n°63 pubblicato il 02 Gennaio 2011 da silvio.battistini

 Di Silvio Battistini

In questi giorni si parla molto, ed a ragione, degli accordi che Fim, Uilm, Fismic ed UGL hanno stipulato con Fiat che è, e rimane, la più importante azienda del nostro paese. Se ne parla, soprattutto, per una “diversa valutazione” dei contenuti degli accordi che ha portato la Fiom, secondo una prassi ormai largamente consolidatasi negli anni,  a non firmare rendendo dirompente lo scontro fra i due modelli (quello partecipativo e quello antagonista) nei quali si dibatte il sindacato italiano e che, allo stato, appaiono del tutto inconciliabili.

Ci siamo chiesti, non solo nel corso di questi ultimi giorni, se l’accordo avesse avuto qualche alternativa meno dirompente e credibilmente degna di questo nome ed abbiamo concluso che esso (l’accordo) non aveva alternativa alcuna visto che doveva servire a garantire un ingente investimento economico/produttivo nel nostro paese (quello su Fabbrica Italia) impedendo con ciò sia la delocalizzazione degli impianti che la, conseguente, chiusura di importanti fabbriche (come ad es. Pomigliano e Mirafiori) il che avrebbe lasciato, in tutta evidenza, migliaia e migliaia di persone senza lavoro e, per ciò stesso, senza reddito né diritti da difendere.

Importante e decisiva è, dunque, l’assunzione di responsabilità, la decisione di accettare la sfida della Fiat, assunta dai soggetti firmatari degli accordi mentre pericolosamente autoescludente, ci appare, la posizione della Fiom sempre più spostata, almeno nella sua maggioranza, verso quel “partito del lavoro” del quale da tempo si parla e che non ha nulla di sindacale; la Fiom non può certo pretendere di paralizzare l’intero sindacato rendendolo subalterno all’evoluzione (peraltro ipotetica) del suo dibattito interno ed a quello fra la Fiom e la CGIL.

Bene ha fatto dunque anche la nostra organizzazione a scommettere contro il declino industriale del paese; è un primo passo ma serve a far capire con chiarezza che in una fase di globalizzazione delle economie ciò che bisogna difendere è il lavoro nel suo complesso (intendendo con ciò, oltre ai lavoratori, anche le fabbriche, le imprese e, soprattutto, gli investimenti) e che non siamo in una fase meramente redistributiva ma ancora nel pieno di una crisi economica mondiale che ha richiesto e richiederà sacrifici. La Fiat, infatti, non sta chiedendo soldi al paese ma sta facendo investimenti che, soli, possono consentirci di intravedere un futuro meno nero per migliaia di persone e di ricominciare a sperare anche se sono chiacchiere, niente altro che chiacchiere, quelle di chi ci prospetta, per il 2011, una rapida ripresa della nostra economia.

Ma ciò non ci esime dal fare la nostra parte evitando ulteriori traccheggiamenti. Occorre, infatti, molto coraggio ed una forte capacità di decidere assumendo tutte le responsabilità che la situazione richiede ma in un quadro di effettivo pluralismo che è tale non solo se c’è la Fiom ma anche se ci sono le altre organizzazioni comparativamente più rappresentative che hanno dimostrato, più volte, di saper assumere le loro responsabilità che, tuttavia, non si esauriscono, solo, nella firma degli accordi.

Sterile ci appare, infine, la discussione sul contratto nazionale perché, da più parti, esso viene considerato obsoleto e sostanzialmente incapace di rappresentare un’industria che non c’è più. Sarebbe, infatti, necessaria almeno la predisposizione di specifiche filiere (come ad esempio l’auto, l’informatica, la comunicazione ecc.) proprio come, a suo tempo, fu fatto per la siderurgia ecc.

Di tutto ciò si parla, da tempo, ma senza alcun risultato. Ben venga, dunque, un sommovimento che aiuti la speranza a divenire, finalmente, realtà.

BUON ANNO A TUTTI !

 

 
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“LA LIBERTA’ INUTILE"

Post n°62 pubblicato il 09 Ottobre 2010 da silvio.battistini

 Silvio Battistini

“Oggi sappiamo che la libertà si può usare per il bene e per il male. Si può usare non per educare ma per corrompere, non per accrescere il proprio patrimonio ideale ma per dilapidarlo, non per rendere gli uomini più saggi e nobili, ma per renderli più ignoranti e volgari. La libertà si può anche sprecare. Si può sprecarla sino al punto da farla apparire inutile, un bene non necessario, anzi dannoso. E a furia di sprecarla, un giorno o l’altro (vicino? Lontano ?) la perderemo. Ce la toglieranno”.

Così ha scritto, oltre quaranta anni fa, Norberto Bobbio in un articolo dal titolo: La libertà inutile. Inutile sottolineare che, a così grande distanza di tempo, le parole di Bobbio conservano interamente una incredibile attualità che, tuttavia, può essere vanificata  se ci limitiamo a farne un mero oggetto di lettura senza trarne il grande insegnamento che esse portano con sé. Bobbio (uno dei padri della Patria) non voleva certo dire che la libertà sia stata (o sia) inutile precisando che si può essere  liberi per convinzione o per assuefazione. Essere liberi per convinzione significa, in primo luogo, avere coscienza che il processo di democratizzazione che, da qualche secolo, caratterizza la storia dell’Occidente è un processo irreversibile che può procedere più lento o più rapido ma che può, perfino, fermarsi. Ed è proprio questo lo stato della democrazia nel nostro paese; una democrazia bloccata nella quale i “liberi per convinzione” stanno, progressivamente e pericolosamente, lasciando il posto ai “liberi per assuefazione”. Paradossalmente la pericolosità della situazione sta proprio in questo fatto più che nelle convinzioni e/o nella forza di chi la democrazia l’ha sempre combattuta.  La democrazia come forma di governo caratterizzata dal rispetto di quelle regole che permettono la soluzione dei problemi senza alcun ricorso alla violenza (non solo fisica) prefigura una società ideale nella quale la libertà di ciascuno è compatibile con la libertà di tutti. Questo non è un dato acquisito una volta per tutte. La libertà, intesa come sistema di regole condivise, va difeso senza lasciare spazio ai privilegi ed alle prepotenze di nessuno visto che l’art.3 della nostra Carta Costituzionale sancisce che “Tutti i cittadini  hanno pari dignità e sono uguali di fronte alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali”.

Ma si può parlare di democrazia come sistema attivo in un paese dalla corruzione dilagante, in un paese che ha vaste aree territoriali sotto il controllo di organizzazioni criminali  senza porsi il problema di come renderla effettiva attraverso la partecipazione della gente, di quei milioni di lavoratori che ne restano il baluardo?

 

 
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Meno tasse? Va bene. Ma dove si taglia?

Post n°61 pubblicato il 18 Luglio 2010 da silvio.battistini

Maurizio Benetti

L’intervento di Stefano Fassina segna indubbiamente una svolta nella politica del Pd e indica, anche nella critica della proposta di Cesare Damiano di finanziare la cassa integrazione con un aumento dell’imposta diretta sui redditi più elevati, il tentativo del partito di liberarsi dalla connotazione di partito delle tasse.

 

Fassina ricorda come secondo i dati Ocse l’Italia sia ai primi posti nel mondo per pressione fiscale e che i lavoratori italiani hanno una delle più pesanti tassazioni europee sulle proprie buste paga. Sostiene quindi che si deve spostare il prelievo da chi paga a chi non paga, dai redditi da lavoro e impresa alla rendita e al patrimonio, dalle attività green e sostenibili alle attività black e dannose per l’ambiente. La riforma fiscale che abbiamo in mente, afferma Fassina, deve premiare i produttori, i lavoratori, i professionisti – artigiani e commercianti – e naturalmente gli imprenditori. In sostanza, il carico fiscale pro capite sul lavoro e sull’impresa – ovvero Irpef, Ires e Irap – deve scendere…

 

Politica di larghe alleanze dunque, non dissimile nelle intenzioni a quella proposta dal segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni in merito alla riforma fiscale. Un’alleanza di questo tipo è certamente dettata da molte considerazioni, non ultima quella del peso degli autonomi e della piccola impresa nella nostra economia. A fronte di un una percentuale attorno al 10% dell’occupazione autonoma sul totale in Germania e Francia, in Italia il peso degli autonomi si avvicina al 25%. Un peso economico – ma anche elettorale e politico – sensibile che spiega molto delle difficoltà della lotta all’evasione nel nostro paese.

 

Risulta tuttavia difficile immaginare come questa larga alleanza possa produrre politiche tendenti al recupero di basi imponibili e a creare altre fonti entrata. In altre parole la lotta all’evasione deve colpire qualcuno per essere efficace, se ci si allea con tutti come si fa a farla? Non si tratta di qualificare come evasori da colpire l’insieme di alcuni settori, come giustamente sottolinea Fassina, ma qualche paletto va indicato e fissato sia nella priorità nella diminuzione del carico fiscale, Irpef, sia nel riequilibrio settoriale tra riduzione del carico fiscale pro capite e l’emersione di nuova base imponibile (Ire e Irap).

 

Fassina espone alcune idee sulla riforma della tassazione sui redditi. Anche se molto generali sono tuttavia rivelatrici di una idea di riforma molto lontana dalle tradizionali posizioni della sinistra italiana.

 

La riforma dell’Irpef dovrebbe prevedere una riduzione della prima aliquota dal 23 al 20%, una riduzione del numero delle aliquote, una semplificazione di deduzioni e detrazioni. In questo la proposta non è lontana dalle posizioni di Tremonti, sia del libro bianco del 1994, sia di quelle attuali.

 

Importante l’affermazione che baricentro della riforma deve essere la tassazione dei redditi, di tutti i redditi, con un’aliquota di riferimento al 20%, corredata dalla proposta di tassazione al 20% dei redditi da affitto e da capitale, e da quella di dare la possibilità di scegliere un’imposta del 20% sostitutiva di Irpef, dell’Iva, e dell’Irap ai lavoratori autonomi e professionisti che si trovano al di sotto dei 70 mila euro di fatturato annui. Mi pare che con questa proposta si abbandoni la difesa tradizionale della progressività basata sull’Irpef prendendo atto che tutta una serie di redditi non sono rilevabili fiscalmente o lo sono con molta difficoltà. Ad una, solo teorica, equità fiscale basata sulla progressività di un’imposta si preferisce, sul modello di altri paesi, un’imposta proporzionale su redditi strutturalmente portati ad evasione nell’ottica di una riduzione del danno. L’idea non mi scandalizza, anzi, trovo giusto ragionare sulla realtà e non sulla teoria o sull’immaginario; mi chiedo solo se il forfettone indicato dia un minore o un maggiore introito fiscale rispetto agli attuali studi di settore.

 

Ruggero Paladini (Fisco, idee per la riforma) si mantiene su una linea più tradizionale e si limita ad esporre alcune idee sulla riforma dell’Irpef. Riduzione delle aliquote del 20 e del 38%, modifica delle detrazioni per lavoro e del limite di reddito per essere considerato a carico. Il tutto costerebbe circa 25 miliardi di euro di minori entrate a cui, secondo Paladini, dovrebbe aggiungersi la spesa necessaria per affrontare il problema dell’incapienza.

 

Sia che lo si affronti attraverso il fisco o attraverso il welfare il tema dell’incapienza e della povertà non è eludibile come ricorda Carniti (Chi declina e chi no) soprattutto se la riforma fiscale prevedesse una, sia pur parziale, compensazione tra riduzione dell’Irpef e aumento dell’Iva. Ad occhio sarebbero necessari per un intervento di questo tipo almeno 5 miliardi di euro. Saremmo così a 30 miliardi, circa due punti di Pil.

 

Data la situazione dei conti pubblici è inimmaginabile che una riduzione di entrate e un incremento di spesa di queste dimensioni possa avvenire pesando sul bilancio dello Stato. La strada allora è quella di trovare le risorse necessarie nella lotta all’evasione, nella compensazione tra le diverse imposte e nel taglio della spesa pubblica.

 

Sulla lotta all’evasione le indicazioni di Fassina e di Paladini sono chiare e condivisibili: tracciabilità, uso delle banche dati e accesso da parte dell’Agenzia delle entrate alle informazioni bancarie. Si potrebbe aggiungere una riforma del contenzioso.

 

Più definite, e diverse, dovrebbero essere a mio avviso le indicazioni sul fronte delle compensazioni tra le diverse imposte. Concordo nel respingere una compensazione limitata al solo scambio riduzione dell’Irpef/aumento dell’Iva. E’ necessario insistere che la compensazione deve avvenire tra una diminuzione dell’imposta sulle persone e l’aumento di quella sulle cose e che questa debba riguardare consumi, patrimoni e rendite finanziarie. Una tassazione dei patrimoni e una maggiore tassazione delle rendite finanziarie sono indispensabili, ma non si può escludere del tutto una compensazione parziale tra Irpef e Iva.

 

Dove l’intervento di Fassina è assolutamente carente è nei tagli alla spesa pubblica. Certo vi è l’affermazione che “niente riforma fiscale se non si ridiscute, oltre al recupero di evasione, sul modo in cui viene gestita, e spesso sperperata, la spesa pubblica”, ma non vi è alcuna indicazione sul come e dove fare questi tagli. L’articolo sul Foglio era rivolto a specificare le posizioni del Pd sul fronte fiscale e Fassina avrà certamente delle idee ben precise sul come tagliare e riqualificare la spesa pubblica. Si conoscono le sue posizioni sul fronte pensionistico, ma presumo che le sue idee di intervento non si limitino a questo versante. Sarebbe utile e interessante conoscerle in un altro articolo o magari nelle proposte ufficiali del Pd.

 

Le dimensioni della riforma fiscale proposta e lo stato dei conti pubblici induce a pensare che possa essere finanziata non da un intervento su di un solo versante, ma, tenendo anche conto della necessità di ridurre il debito, da un insieme di interventi che riguardano la lotta all’evasione, la compensazione attraverso il sistema fiscale e il taglio alla spesa pubblica. Se sommiamo le risorse necessarie alla riforma fiscale con quelle che dovranno essere trovate per la riduzione del debito e del deficit non siamo lontani dai 60/70 miliardi nel prossimo triennio con i debiti scongiuri per l’aggravarsi della situazione.

 

Manovre di questo tipo per essere attuabili comportano necessariamente un taglio della spesa pubblica. Tremonti è intervenuto con l’accetta con tagli orizzontali (efficaci dal punto di vista dei conti pubblici) e in settori in cui “a breve” minore e politicamente più agibile era il danno sociale (scuola elementare). Difficile e sbagliato continuare su questa strada, ma allora dal Pd servono indicazioni chiare. E’ positivo che si voglia cambiare l’immagine del partito sul fronte fiscale e che si voglia intraprendere una nuova strada, ma è altrettanto importante renderla credibile.

 

 
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Insieme all'unità d'azione se ne va l'autonomia

Post n°60 pubblicato il 18 Luglio 2010 da silvio.battistini

 
Cisl e Uil si mostrano sempre propensi ad accordarsi col governo, anche con metodi spregiudicati, la Cgil viene esclusa in quanto considerata “sindacato dell’opposizione”. Si abbandona una storia iniziata negli anni ’60 che molto ha fatto per i lavoratori e per il paese. Ma le difficili sfide da affrontare richiederebbero un cambiamento

di Gianni Italia

Guardando, al riparo dall’impegno diretto, ai rapporti tra i sindacati confederali rappresentativi e storicamente più significativi nelle vicende del nostro paese, viene da pensare ai tante volte evocati comportamenti dei polli che Renzo Tramaglino portava al dottor Azzeccagarbugli per ingraziarsi un interesse alle proprie tristi vicende. Da ultimo sono state le decisioni del governo per  l’aggiustamento dei conti pubblici che hanno ulteriormente diviso i maggiori sindacati italiani. Cisl e Uil hanno concordato le misure con il ministro delle finanze Giulio Tremonti in incontri riservati e al limite della clandestinità. Un metodo alquanto singolare, che aveva l’obiettivo di escludere a priori il sindacato più rappresentativo per numero di iscritti: la Cgil. L’evidente obiettivo da parte del governo era di non subirne i condizionamenti in un possibile negoziato.

 

Non si capisce l’interesse di Cisl e Uil a condividere tale pretesa, che ha comportato una plateale discriminazione e la rottura di una prassi consolidata. Se la Cgil fosse stata coinvolta nel negoziato, anche Cisl e Uil avrebbero avuto più forza nel condizionare il governo. E ciò per il semplice fatto che il ministro delle Finanze avrebbe dovuto tenere in maggior conto le posizioni di chi era disponibile a stringere un accordo, come appunto Cisl e Uil. Perché era il ministro ad avere bisogno del consenso dei sindacati. E invece per Cisl e Uil non ci sono state contropartite.

 

La Cgil ha protestato per l’esclusione dagli incontri e, quando sono state rese pubbliche le misure governative, ha espresso il proprio dissenso. Il direttivo della Cgil ha poi deciso uno sciopero generale. Le reazioni di Cisl e Uil sono state singolari: hanno accusato la Cgil di proclamare uno sciopero politico. Sarebbe da chiedere a Bonanni e Angeletti cosa avrebbero deciso se fossero stati loro ad essere esclusi da un negoziato cosi importante.

 

Tra Cgil, Cisl e Uil i rapporti sono da tempo difficili e i contrasti spesso hanno portato alla rottura come in questo ultimo caso. Inoltre, il metodo di Cisl e Uil, fatto di comportamenti quanto meno spregiudicati, aggrava le divisioni. Una situazione nuova per le relazioni sindacali confederali con Cisl e Uil normalmente inclini a raggiungere accordi con le parti datoriali ed il governo. La Cgil non sembra in grado di costruire rapporti di forza per proporre alternative percorribili a tali intese, verso le quali esprime il proprio dissenso anche con azioni di protesta. Cosi è stato per il negoziato sul “nuovo modello” contrattuale e continua con questa ulteriore divisione.

 

Rimane comunque una curiosa singolarità: la conclusione unitaria dei principali contratti collettivi del settore privato, escluso quello metalmeccanico. In questi negoziati le federazioni di categoria hanno saputo pragmaticamente conciliare le diverse posizioni e condurre in porto i negoziati. Le parti datoriali hanno convenuto che le intese erano coerenti con l’accordo interconfederale verso il quale la Cgil aveva espresso il proprio dissenso.

 

Malgrado questo momento di ragionevolezza, davanti alla nuova e grave divaricazione di giudizio sulla “manovra” del governo sembra lecito parlare di rottura irreversibile. L’atto più grave, a parte le divergenze sul merito dei provvedimenti, è l’esclusione della Cgil dal confronto, evidentemente concordata con il ministro delle Finanze. Avremo una situazione nella quale, fino a che è al governo questo schieramento, Cisl e Uil saranno considerati sindacati “amici” e la Cgil sarà esclusa in quanto sindacato dell’opposizione. C’è da chiedersi se veramente i dirigenti sindacali delle tre maggiori confederazioni italiane vogliono questo. Non saremmo nemmeno davanti alla cosiddetta “unità competitiva”. Un ossimoro che nel passato è stato usato per definire i rapporti tra Cgil, Cisl e Uil basati sul confronto di idee diverse da prospettare ai lavoratori, ma rimanendo comunque nel quadro di una unità di azione tra i sindacati confederali.

 

L’abbandono della mediazione tra le confederazioni ha come effetto la caduta della loro autonomia e il ripiegamento negli schieramenti politici in campo. I sindacati italiani sono stati autorevoli perché non hanno percorso la strada della difesa degli interessi particolari né a livello delle federazioni di categoria né tanto meno come confederazioni. Anzi le adesioni sono cresciute, quando la strategia decisa ha unito le lotte per il miglioramento delle condizioni di lavoro con le lotte per i cambiamenti sociali. La rottura dell’unità d’azione e l’accasamento negli schieramenti politici, così come appare nei fatti, cambierebbe di molto il modo di essere del sindacato italiano. Questa nuova fase del sindacato avviene anche come conseguenza della emarginazione che il lavoro ha avuto nella agenda politica.

 

Le tre maggiori confederazioni, con l’apparentarsi agli schieramenti politici, avrebbero compiuto il percorso inverso a quello intrapreso negli anni ‘60/70, caratterizzato da una progressiva autonomia dalle forze politiche con le quali avevano organici rapporti nel dopoguerra. L’evoluzione del rapporto tra Cgil, Cisl, Uil e le forze politiche e con gli schieramenti di riferimento è avvenuta non senza contrasti ed era sospinta anche dalla consapevolezza dei lavoratori di trovarsi in una collocazione sociale ingiusta e intollerabile dopo gli anni della ricostruzione. Le esigenze di rivalutazione del ruolo sociale del lavoro sono andate di pari passo con le esigenze di una presenza efficace nella dialettica democratica, arricchendo così il pluralismo della democrazia italiana.

 

Nei momenti difficili del nostro paese il sindacato italiano ha sempre saputo collegare l’interesse particolare con quello generale: il contratto e l’occupazione. E’ stata questa la caratteristica della stagione unitaria che ha consentito al sindacato di essere interlocutore credibile e autorevole del padronato e delle forze politiche di maggioranza e di opposizione.

 

Una credibilità che ha consentito, attraverso l’esplicita disponibilità ad assumere gli oneri di rinuncia temporanea ai propri interessi, di esigere dalle altre rappresentanze di interessi di assumere esse stesse rinunce concrete. In questo modo i governi venivano impegnati ad adottare politiche e provvedimenti in grado di rendere credibile il perseguimento degli obiettivi concordati. Era lo “scambio politico”, come venne definita quella stagione. Cosi è stato negli anni‘70 con la “svolta” dell’Eur, negli anni ’80 con la lotta all’inflazione, e ancora nel 1993 con il governo del presidente Ciampi, per citare gli esempi più significativi. Dove stava la caratteristica particolare di quegli accordi? Che lo scambio era ben visibile e controllabile e che il percorso attraverso il quale si arrivava all’intesa era esplicito e partecipato: dalla elaborazione delle proposte alla approvazione degli accordi. È così, grazie all’apporto responsabile di tutto il sindacalismo confederale, che il nostro paese ha potuto rimanere nel novero dei paesi più sviluppati.

 

Si può oggi invertire la rotta che porta verso un impoverimento della stessa democrazia rappresentativa e in definitiva della politica? Si può, a patto di avere ambizioni all’altezza dei problemi da affrontare e magari risolvere.

 

C’è un problema redistributivo evidente sia del lavoro che verso i salari e le pensioni che è anche il motivo del degrado economico del paese. C’è poco lavoro e molta disoccupazione specie giovanile, con buona pace delle mirabolanti promesse della flessibilità nei contratti di lavoro come panacea alla disoccupazione. L’Italia non è attrattiva di investimenti esteri perché c’è una burocrazia che li scoraggia e, nel contempo, siamo il paese con un tasso di risparmio delle famiglie tra i più elevati al mondo, mentre il nostro sistema bancario distribuisce lauti dividendi. Il lavoro paga più tasse dei guadagni finanziari e le tasse sono pagate dai lavoratori dipendenti e dai pensionati. Eppure si ritorna a parlare di lacci che starebbero nei vincoli costituzionali: l’impresa e la sua utilità sociale, lo sviluppo integrale della persona, ecc.

 

Sono temi e problemi “forti” che richiedono elaborazioni coraggiose e rappresentatività effettiva, estesa e duratura dei sindacati.

 

C’è qualche motivo per sperare in un cambiamento?

 

 
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APPUNTI DI UN GIURISTA SU POMIGLIANO

Post n°59 pubblicato il 28 Giugno 2010 da silvio.battistini

di Pietro Ichino* 18.06.2010

Le due clausole dell’accordo che la Fiom-Cgil denuncia come contrarie alla legge, e per alcuni aspetti anche alla Costituzione, sono queste: una in materia di malattia, che esclude il pagamento della retribuzione per le giornate di astensione dal lavoro in cui si verifichino aumenti anomali dei tassi di assenza in corrispondenza con eventi esterni di natura diversa da epidemie (per esempio: la partita di calcio giocata al mercoledì); l’altra in materia di sciopero, che vieta la proclamazione di – e la partecipazione dei singoli lavoratori a – scioperi volti a “rendere inesigibile” l’attuazione dell’accordo stesso (per esempio: uno sciopero dello straordinario, che renda inesigibili le 80 ore annue di “straordinario obbligatorio” previsto in funzione della variabilità delle esigenze produttive).
A me sembra che possano esserci altri motivi di ragionevole rifiuto dell’accordo, come la pesantezza dei ritmi di lavoro o i turni notturni, ma che le clausole sui tassi anomali di assenze e la clausola di tregua sindacale siano, invece, non soltanto pienamente legittime, ma anche molto sensate, sia dal punto di vista dell’interesse dell’impresa, sia da quello dell’interesse dei lavoratori.

RETRIBUZIONE IN CASO DI MALATTIA

Sulla materia del trattamento economico del lavoratore assente per malattia, a carico del datore di lavoro, la sola norma legislativa generale oggi in vigore è l’articolo 2110 del Codice civile, che attribuisce alla contrattazione collettiva il compito di stabilire entità e limiti della retribuzione dovuta all’infermo. Fino ai rinnovi contrattuali del 1972, quasi tutti i contratti collettivi prevedevano che il trattamento retributivo decorresse dal quarto giorno di assenza: i primi tre giorni – detti “di carenza” – costituivano dunque un periodo di franchigia, nel quale il lavoratore non era retribuito. Dal 1972 quasi tutti i contratti collettivi hanno previsto invece la retribuzione anche per i primi tre giorni; ma in numerose occasioni si sono registrate disposizioni collettive che, al fine di incentivare la riduzione delle assenze per malattia, hanno limitato il relativo trattamento, istituendo dei “premi di presenza”, oppure voci retributive escluse dal trattamento stesso.
In questo ampio spazio che la legge attribuisce alla contrattazione collettiva rientra sicuramente anche la possibile reintroduzione di uno o più giorni “di carenza”, collegati o no a determinate circostanze oggettive. E’ quanto dispone la clausola n. 8 dell’accordo, che prevede il non pagamento della retribuzione nel caso in cui si verifichino dei tassi anomali di assenza dal lavoro “in occasione di particolari eventi non riconducibili a forme epidemiologiche”. La disposizione è strutturata in funzione di contrasto a forme di assenteismo abusivo che si sono registrate con notevole frequenza, in occasione della trasmissione televisiva di importanti partite di calcio, oppure della proclamazione di scioperi.
Tutti i numerosi giuslavoristi con cui ho avuto occasione di discuterne in questi giorni concordano sul punto che questa disposizione non contrasta con alcuna disposizione di legge. Certo, essa configura una deroga – seppur marginale – rispetto al contratto collettivo nazionale per il settore metalmeccanico, il quale non prevede eccezioni al pagamento dell’intera retribuzione nei primi tre giorni di malattia. Ma è pacifico in giurisprudenza e in dottrina che il contratto collettivo nazionale può essere validamente derogato da un contratto aziendale. Il problema riguarda soltanto il campo di applicazione di quest’ultimo: l’applicazione è estesa a tutti i dipendenti dell’azienda soltanto se esso è stipulato unitariamente da tutte le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto nazionale stesso (ed è questo il motivo per cui la Fiat chiede che l’accordo aziendale sia firmato, appunto, da tutte).

LA CLAUSOLA DI RESPONSABILITÀ

La disposizione n. 13 della bozza, denominata “clausola di responsabilità”, commina la decadenza dai diritti previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro per l’organizzazione sindacale firmataria dell’accordo aziendale che proclami uno sciopero (o altra forma di agitazione) volto a “rendere inesigibili” le condizioni di lavoro previste nell’accordo stesso. Si tratta, in sostanza, di un patto di tregua sindacale, che è oggi considerato pacificamente valido e vincolante per il sindacato che lo stipula. La Fiom-Cgil contesta tuttavia la parte della disposizione che qualifica come illegittimo anche il comportamento dei singoli lavoratori i quali aderiscano a uno sciopero (o altra forma di agitazione) proclamato in violazione del patto di tregua. A me sembra che, se la proclamazione dello sciopero è illegittima per violazione di un patto di tregua validamente sottoscritto dal sindacato proclamante, debba considerarsi illegittima anche l’adesione del lavoratore a quello sciopero: mi sembra pertanto che anche quest’ultima parte della disposizione proposta debba considerarsi pienamente valida.
Osservo, peraltro, che la pretesa inefficacia della clausola di tregua nei confronti dei singoli lavoratori priverebbe i lavoratori stessi e il sindacato che li rappresenta della principale “moneta di scambio” di cui essi dispongono al tavolo delle trattative. Non è un caso che in nessun altro ordinamento europeo si applichi una regola che esenti i singoli lavoratori da responsabilità per l’adesione a uno sciopero illegittimo.
La tesi contraria – sostenuta da una parte dei giuslavoristi italiani ma priva di qualsiasi fondamento testuale nella legge vigente – secondo cui il diritto di sciopero costituirebbe una prerogativa del singolo lavoratore, di cui il sindacato non potrebbe disporre con il patto di tregua, è smentita dalla legge che regola lo sciopero nei servizi pubblici essenziali (L. n. 146/1990), dove si attribuisce alle organizzazioni sindacali il potere di negoziare i codici di regolamentazione settore per settore, con effetti direttamente vincolanti anche per i singoli lavoratori. Quella tesi è comunque funzionale a un modello di relazioni industriali – quello della cosiddetta “conflittualità permanente” – che in Italia sopravvive, a dispetto di quella legge, nel solo settore dei trasporti, ma è ormai quasi completamente superato in tutti i settori manifatturieri.    

LA PRIORITÀ? ATTRARRE GLI INVESTIMENTI

Lo scenario in cui questo dibattito si colloca è quello di un’Italia affamata di investimenti, indispensabili per tornare a crescere; e penultima in Europa (davanti alla sola Grecia) per capacità di attirarli: vedi la tabella che segue. Questa “fame” è fortemente accentuata nel Mezzogiorno, dove il bisogno di crescita economica è assai maggiore che nel resto del Paese e le condizioni del mercato del lavoro assai peggiori.
L’Italia ha un solo modo per ricominciare a crescere e per tirar fuori le proprie regioni meridionali dal sottosviluppo che le caratterizza: riuscire a ingaggiare il meglio dell’imprenditoria mondiale e a intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali in misura molto superiore all’attuale. Per questo non occorrono soltanto amministrazioni pubbliche più efficienti, infrastrutture meno difettose e servizi alle imprese meno cari, ma occorre anche un sistema di relazioni industriali nel quale i patti di tregua garantiscono la tregua per davvero, come tutto il resto d’Europa; e sindacati disposti a negoziare con gli imprenditori le misure (legittime) idonee a contrastare efficacemente abusi radicati come quello del “mettersi in malattia” per assistere alla partita.
Per questo la vicenda di Pomigliano è di importanza cruciale per tutto il Paese: basti pensare a quale messaggio verrebbe dato alle imprese multinazionali di tutto il mondo, se la vicenda dovesse concludersi con il rigetto, da parte del nostro sistema di relazioni industriali, di un investimento di 700 milioni motivato con l’intangibilità della prassi della conflittualità permanente e con il rifiuto di disposizioni – in sé legittime e del tutto ragionevoli – volte a contrastare l’assenteismo abusivo.

FLUSSI DI INVESTIMENTI ESTERI NEI PRINCIPALI PAESI EUROPEI

 200420052006200720082004-08
ESTONIA8,1221,1110,7612,868,3361,18
LATVIA4,634,458,358,274,4730,17
SLOVAKIA7,215,128,524,423,6628,93
CZECH REPUBLIC4,559,33,826,074,9928,73
UNITED KINGDOM2,587,846,526,633,6627,23
HUNGARY4,416,976,674,414,2126,67
NETHERLANDS0,757,551,1115,45-0,4124,45
LITHUANIA3,434,016,185,263,8922,77
FRANCE1,583,973,476,24,1619,38
SPAIN2,372,2131,964,0913,63
PORTUGAL1,082,125,61,371,4511,62
FINLAND1,492,433,655,05-1,5511,07
GERMANY1,331,71,961,70,687,37
ITALY0,971,132,121,920,756,89
GREECE0,910,2520,611,435,2
Fonte: UNCTADFDI Stat     
Unità di misura:% del PIL   

 
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