Creato da silvio.battistini il 10/02/2009
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Più autonomia, più pluralismo

Post n°40 pubblicato il 13 Aprile 2009 da silvio.battistini

Silvio Battistini

Segretario Generale  Fismic Roma

 

Si torna spesso, e con sempre maggiore frequenza, a discutere del futuro del sindacato.

Ci obbligano a ciò fatti, recenti e non, che per la loro dirompenza ci spingono a riflettere senza schemi precostituiti per tentare di dipanare una matassa sempre più intricata.

Da parte mia credo che riflettere su ciò debba significare predisporsi, con la necessaria onestà intellettuale, a considerare la situazione data per comprenderne e rispettarne le diverse angolature, i diversi aspetti ed i numerosi punti di vista propri, ed è forse l’unica cosa certa, di una realtà in forte movimento.

Solo dopo essere riusciti a realizzare una sintesi utile, potremmo sperare di riuscire a spostare in avanti la situazione concreta di quanti, già oggi, rappresentiamo ma, soprattutto, di quelli che vorremmo rappresentare.

Schematicamente mi sembra che convenga ricordare cose, ormai, note come ad esempio il fatto che siamo, da tempo, di fronte a un’economia che produce più servizi che beni e ad una struttura economica che, altrettanto schematicamente, alcuni sociologi studiosi della materia definiscono postindustriale.

Se, per economia di ragionamento, conveniamo di poter partire da questo assunto dobbiamo ammettere che esso ci obbliga a ratificare la crisi definitiva e irreversibile del modello taylorfordista conseguente, proprio, all’introduzione massiccia delle tecnologie microelettroniche.

Per questo nelle nostre elaborazioni dovremmo partire anche dal riconoscere, con onestà intellettuale e una volta per tutte, la fine della centralità della fabbrica e della classe operaia come soggetto principale, motore si era soliti dire, del cambiamento sociale.

Da ciò debbono discendere, a mio avviso, almeno due considerazioni sulla base delle quali dovremmo – da un lato – liberarci definitivamente di quei riferimenti nostalgici all’azione di classe propri più dei decenni precedenti che della fase attuale e, dall’altro, evitare la tentazione di strutturare il sindacato (o parti di esso) in attore politico, facendogli smarrire la sua funzione più autentica di soggetto autonomo di mediazione sociale che fa politica attraverso la contrattazione della domanda sociale

Queste due considerazioni a me paiono molto importanti.

La prima rappresenta, infatti, un’inutile resistenza alla destrutturazione dei precedenti rapporti sociali e l’altra una fuga in avanti e/o il surrogato di una assenza (del partito?) che, nella fase attuale, alcuni non riescono a colmare.

Entrambe sono pericolose perché non tengono conto dei profondi cambiamenti intervenuti nel mondo industriale molti dei quali producono una forte spinta verso una sempre maggiore professionalizzazione del mondo del lavoro.

Essi non determinano come invece qualcuno, ancora, pensa la nascita di “una nuova classe operaia” bensì proprio la definitiva dissoluzione della sua azione tradizionale.

Dietro questa analisi, a me pare, ci sia il rischio, evidente, di doversi misurare, da un lato, con un antagonismo fine a se stesso perché privo di prospettive in quanto incapace di costruire una credibile prospettiva di azione collettiva e, dall’altro, una concezione istituzionalizzata del sindacato che può essere altrettanto pericolosa.

Per queste ragioni dovremmo, letteralmente, inventare nuove forme dell’agire collettivo e questo, come sappiamo, non è affatto facile anche perché, a tutt’oggi, siamo ancora di fronte a due modelli (profondamente diversi) che spesso si scontrano ma senza riuscire a prevalere l’uno sull’altro.

Ne nasce uno stato di paralisi acuto che ha prodotto, nel caso in esame, i guasti che sono sotto gli occhi di tutti.

A me sembra più che evidente che dobbiamo rivedere qualcosa; così come è, infatti, il sindacato non ce la fa e la gente comincia a capirlo.

Perché stupirsi, allora, se ad esempio gli iscritti a Fim, Fiom e Uilm diminuiscono sensibilmente a vantaggio di una variegata area cosiddetta “autonoma”.

Ciò non avviene, credo, solo in virtù della crisi industriale perchè i presupposti di una crisi profonda erano presenti già da diversi anni.

Basta pensare, ad esempio, al proselitismo che appare, sempre più spesso, non il frutto di una cosciente scelta organizzativa bensì una decisione, molte volte, del tutto casuale se non addirittura occasionale.

Molti dirigenti sindacali, per esempio, hanno perso da tempo il valore insito in quel criterio oggettivo con il quale si misura, concretamente, il loro radicamento fra la gente.

Tornare a essere, realmente, vicini alla gente significa essere in grado di produrre, nelle nuove condizioni, nuove forme di tutela sapendo che questa esigenza va, spesso, anche oltre il posto di lavoro.

Per decenni la quantità di proseliti che si riuscivano a fare è stata poco importante giacché i bacini in cui esso era in qualche modo garantito erano molto ampi ed omogenei ma oggi non è più così.

Molte di quelle persone che, decenni fa, hanno costruito il sindacato oggi hanno lasciato il loro posto di lavoro e noi non ci siamo preoccupati a sufficienza dei giovani ai quali, spesso, abbiamo solo saputo rinfacciare di non avere sufficiente memoria.

Abbiamo determinato, in questo modo, una frattura storica che oggi è difficile sanare. Il problema è che molti di noi hanno perso, quasi completamente, qualunque criterio atto a misurare concretamente i risultati del nostro lavoro tanto che altri hanno, giustamente, paventato rischi di privatizzazione del nostro ruolo e l’attivazione di meccanismi, a dir poco autoreferenziali.

Se nel corpo vitale del sindacato tornasse, invece, ad affermarsi una cultura sulla base della quale esso tornasse a essere custode, geloso e attento, delle procedure allora – forse – riusciremmo a restituire al sindacato un significato di vero rappresentante di interessi.

Oggi noi siamo – certamente – di fronte ad una crisi profondissima della politica che è anche crisi delle grandi organizzazioni di massa nelle quali essa si è storicamente organizzata; Come sindacato possiamo dirci esenti da un rischio analogo? Evidentemente no.

Se così come è, oggi, il sindacato non regge più, allora è urgente rivedere anche i nostri modelli organizzativi che sono – il più delle volte – vecchi e stantii, lontani dalla gente e incapaci di valorizzare le competenze che pure, al suo interno, il sindacato possiede ancora e se c’è, in alcuni casi, un’esigenza di leadership, magari legata a competenze specifiche, è bene che essa possa esprimersi liberamente e senza timori giacché essa può essere un valore in sé che ci consente di capire se il sindacato è, o meno, sufficientemente adeguato a cogliere le necessità del momento.

Probabilmente ciò che dobbiamo fare è recuperare un senso del fare sindacato che oggi, molto più di ieri, è legato anche alle persone sia sulla base di comportamenti quotidiani di ciascuno che di un’etica generale applicata al lavoro.

Darsi una strategia di crescita significa in primo luogo riconoscere che se la domanda di tutela è oggi fortemente articolata bisogna sforzarsi di riconoscere, nel dettaglio, queste articolazioni ed avere il coraggio politico di diversificare le risposte almeno tanto quanto è diversificato il mondo del lavoro.

A me sembra che, a partire almeno dagli anni Ottanta, la rilevanza del cambiamento sociale all’interno dei posti di lavoro sia parallela al progressivo esaurirsi del modello antagonista ed al suo progressivo incanalamento in una prospettiva nuova di democrazia industriale che ha visto, di conseguenza, anche l’esaurimento della convinzione secondo la quale Cgil, Cisl e Uil avevano il monopolio della rappresentanza del mondo del lavoro.

Di ciò si stenta, invece, a prendere atto

Un nuovo progetto unitario non potrà, dunque, darsi se sarà limitato a CGIL, CISL e Uil ma dovrà abbracciare il più possibile quella galassia autonoma che con il passare degli anni ha preso corpo.

Non serve un sindacato di governo così come non serve un sindacato di opposizione ma serve un sindacato-strumento dei lavoratori autonomo dalla politica (anche se non agnostico) molto più vicino di oggi ai bisogni della gente che vogliamo rappresentare capace di leggere ed interpretare, in modo adeguato, i cambiamenti sociali del nostro paese.

Ciò rende necessaria una trasformazione qualitativa molto profonda in direzione di quel sindacato della partecipazione (che, tuttavia, non può escludere il conflitto) che a me pare l’unico praticabile se vogliamo avere la possibilità, vera, di controllare i grandi processi di ristrutturazione che sono, ormai, all’ordine del giorno e le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Forse più che di fatti specifici dovremmo discutere prima di tutto di questo se veramente vogliamo venir fuori da una situazione oggettivamente difficile ed inevitabilmente declinante.

 

 

                                                                                       

 
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Commenti al Post:
mds59
mds59 il 14/04/09 alle 13:26 via WEB
E' un'analisi corretta. Purtroppo l'impressione è che CGIL, CISL e UIL siano troppo occupate nel gestire il potere acquisito fino ad ora da avere completamente dimenticato la ragion d'essere di un sindacato: la tutela dei lavoratori. Questo fatto crea il terreno ideale per il sindacato autonomo, ma rischia di frammentare il fronte sindacale. E non è facile trovare un nuovo equilibrio. Marco
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