LE CITTA' DEL SUD

ITALIA CONTRO ITALIA


Uno dei pochi effetti piacevoli prodotti su di me in questi giorni dal clima rammemorativo generato dalla ricorrenza del 150° compleanno dell'Italia, è stato l'impulso a tornare a sfogliare qualche pagina di Giacinto De Sivo, il grande storico napoletano che Benedetto Croce, che gli dedicò un breve saggio garbatamente critico, definì "reazionario", mentre sarebbe forse più appropriata l'etichetta, un po' diversa, di "contro-rivoluzionario". Questo impulso è stato favorito dalla recente ristampa di quella monumentale ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla fine del Regno delle due Sicilie che è anche la maggiore delle sue opere. Riproposto di recente, per la prima volta dopo circa quarant'anni, da un temerario editore pugliese, «Storia delle due Sicilie: 1847-1861» (Trabant, due volumi di pagine 582 e 574), per certi aspetti, è un autentico capolavoro. Indubbi sono infatti non soltanto il suo misconosciuto interesse storiografico, davvero sorprendente se si pensa che fu scritto quando i fatti che vi sono narrati erano appena accaduti, ma anche il suo valore letterario, giacché in tutte le sue oltre mille pagine risuona una delle prose più vibranti e icastiche del nostro Ottocento. Poche citazioni basteranno a dimostrare il rango di questo scrittore insieme cattolicissimo, supertradizionalista e arciborbonico. Ecco una strepitosa descrizione del clima dal quale scaturì il Quarantotto napoletano: "...afforzati dal soffio mazziniano, dalla caldezza inconsiderata de' giovani, dai vaghi del nuovo e dell'irrequieto, e più da' tanti che voglion torbido per mercatare sulle pubbliche sciagure, in breve le vulcaniche passioni nostre fecero divampare. Fu progresso il progredire a male, libertà l'attentare alla libertà altrui, coraggio civile la vigliacca baldanza che peì fortunosi tempi non poteva avere punizione. Le sette pria segrete vollero dar lezioni pubbliche per corromper la nazione e scostarla dalla devozione al sovrano; preser case in fitto e miservi circoli, dove aperto e a distesa concionavano e confabulavano, onde vi dominarono i più ciarloni; e, come sempre, chi più callido veemente ed esagerato aveva più plauso. Però legulei e storcileggi, usi al viso duro e allo sragionar di tutto, com'eran mastri di cavilli forensi, così fecersi primi demagoghi. Quei circoli con apparenza di tutelar l'ordine, aspiraron a pigliar la potestà; e sempre lottanti con essa, resero impossibile ogni potestà". Ecco un passo in cui la prosa di De Sivo, per esprimere lo strazio che gli procura lo spettacolo di un "risorgimento" ormai tralignato in feroce guerra civile, assume un nobile timbro oratorio: «Le nazioni civili che mirano lo svolgimento di questo gran dramma italiano, iniziato a nome della civiltà e del progresso, saran per fermo stupefatte al mirar la rea lotta che spezialmente nel reame delle Sicilie procede cruenta ed atrocissima fra Italiani ed Italiani. Dopo tante lamentazioni contro lo straniero, non è già contro lo straniero che aguzza e brandisce le arme quella fazione che vuol parere d'essere la italica nazione. Pervenuta ad abbrancare la potestà, ella non assale già il Tedesco, né il Franco, né l'Anglo, che tengono soggetta tanta parte d'Italia; ma versa torrenti di sangue dal seno stesso della patria, per farla povera e serva. Ella grida l'unità e la forza; e frattanto ogni possibilità d'unione fa svanire, con la creazione di odii civili inestinguibili; e distrugge la sua stessa forza in cotesta guerra fratricida e nefanda, che la parte più viva e generosa della italiana famiglia va sperperando ed estinguendo. L'Italia combatte l'Italia. Già stranieri potentissimi e formidabili sogghignano e preparano le arme; in mentre le persone, le industrie, il commercio, le arti italiane e ogni forza va in fondo, fra gli spogli, le fucilazioni, gl'incendi e le ruine. L'Italia subissa l'Italia". Ed ecco poche lucide righe sulle prevedibili conseguenze dell'annessione forzata: "L'unità per noi è ruina. In nome della libertà ne vien tolta la libertà; ritorniamo a' viceré, anzi a' luogotenenti, anzi a' prefetti . Siam costretti a pagare i debiti fatti dal Piemonte appunto per corrompere e comprare il nostro paese . Restiamo gretti provinciali, senza lustro, costretti a mercar giustizia da ministri lontani, superbi, e ignoranti delle cose nostre". Solo il primo di questi tre passi è però tratto dalla "Storia delle Due Sicilie". Gli altri due appartengono a quel suo breve preludio che è l'opuscolo intitolato "I Napolitani al cospetto delle nazioni civili". Pubblicato clandestinamente a Napoli nel 1861 e recentemente ristampato nelle edizioni "Il Cerchio" di Rimini, questo libello è uno dei testi più toccanti della nostra letteratura politica ottocentesca.Ruggero GuariniFonte: http://www.iltempo.it/2011/05/08/1255857-italia_contro_italia.shtml?refresh_ce