LE CITTA' DEL SUD

LE DUE SICILIE PRIMA DELL'UNITA'


Le Due Sicilie erano lo stato italiano preunitario più esteso territorialmente e comprendevano tutto il Sud continentale d’Italia, l’Abruzzo, il Molise, la parte meridionale del Lazio e la Sicilia. La storia delle Due Sicilie era cominciata nel lontano 1130 con i Normanni e il loro sovrano Ruggero II, il regno durò 730 anni e i suoi confini rimasero in pratica invariati comprendendo comuni che avevano spesso origine greca: “Correva l’anno 1072 quando Roberto e Ruggero d’Altavilla irrompevano nella città di Palermo ponendo fine al dominio arabo in Sicilia e avviando un processo che avrebbe portato l’isola a divenire il regno più ricco dell’Occidente cristiano. I Normanni, oltre ad esaltare al massimo le potenzialità economiche e culturali della Sicilia riuscirono a dimostrare, in un tempo in cui l’intolleranza era la regola, come fosse possibile la convivenza con civiltà diverse … per oltre un secolo la Sicilia fu un riferimento cui gli altri sovrani guardarono con grande rispetto e che la Chiesa cercò di blandire fino a insignire, nel 1130, il gran conte Ruggero II della ambita dignità regia. La corte del primo re di Sicilia divenne la più brillante dell’Europa medievale”. Scrive Benedetto Croce: “L’unità territoriale non fu il solo retaggio che i principi normanni lasciarono all’Italia meridionale, perchè con essa le trasmisero l’unità monarchica, nel senso di uno stato governato dal centro, con eguali istituzioni e leggi, magistrati e funzionari; e questa forma vi serbò sempree, nonchè mutarla nel fatto, non se ne concepirà altra nemmeno in idea”. Ai Normanni (1130-1194), seguirono gli Svevi (1194-1266), gli Angioini (1266-1442) e gli Aragona (1442-1503); a loro subentrarono gli Spagnoli (1503-1707) e poi gli austriaci per solo ventisette anni (1707-1734); i più importanti sovrani delle varie casate furono considerati ai vertici assoluti dell’aristocrazia europea: ricordiamo per tutti Federico II di Svevia, detto “Stupor Mundi”, artefice di ordinamenti statali e riforme che lo fanno considerare uno dei piu’ grandi statisti di tutti i tempi. Nel 1734 la Spagna rioccupò il Regno strappandolo agli Asburgo e iniziò l’era borbonica con i suoi re: Carlo (1734-1759), Ferdinando I (1759-1825), Francesco I (1825-1830), Ferdinando II (1830-1859) e Francesco II (1859-1861). Carlo, figlio di Filippo V, re di Spagna e di Elisabetta Farnese, entrò in Napoli il 10 maggio 1734, sconfisse il 25 maggio gli Austriaci nella battaglia di Bitonto e mise la Nazione sotto uno scettro “che unisce ai gigli d’oro della Casa di Francia ed ai sei d’azzurro di Casa Farnese le armi tradizionali delle Due Sicilie: il cavallo sfrenato, vecchia assise di Napoli e la Trinacria per la Sicilia”; l’incoronazione di Carlo si celebrò, l’anno successivo, nel duomo normanno di Palermo, a testimoniare la continuità della monarchia meridionale nata nello stesso luogo nella notte di Natale del 1130 con Ruggero II. Nella successiva guerra contro l’Austria, del 1744, Carlo fu vittorioso a Velletri, e si confermò nuovo interprete e simbolo della secolare Nazione: il Sud d’Italia non aveva più a capo un semplice vicerè ma un sovrano tutto suo: “Amico, cominciamo anche noi ad avere una patria, e ad intendere quanto vantaggio sia per una nazione avere un proprio principe. Interessianci all’onore della nazione. I forestieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto potremmo noi fare se avessimo miglior teste. Il nostro augusto sovrano fa quanto può per destarne”; successivamente, con la Prammatica del 6 ottobre 1759, re Carlo stabilì la definitiva separazione tra la corona spagnola e quella delle Due Sicilie, restituendole la piena indipendenza. La dinastia borbonica durò 126 anni, con essa il Sud, non solo riaffermò la propria indipendenza, ma ebbe un indiscutibile progresso nel campo economico, culturale, istituzionale; purtroppo “La storiografia ufficiale continua ancora oggi a sostenere che, al momento dell’unificazione della penisola, fosse profondo il divario tra il Mezzogiorno d’Italia e il resto dell’Italia: Sud agricolo ed arretrato, Nord industriale ed avanzato. Questa tesi è insostenibile a fronte di documenti inoppugnabili che dimostrano il contrario ma gli studi in proposito, già pubblicati all’inizio del 1900 e poi proseguiti fino ai giorni nostri, sono considerati, dai difensori della storiografia ufficiale: faziosi, filoborbonici, antiliberali e quindi non attendibili “. In realtà, all’epoca dell’ultimo re meridionale, Francesco II, l’emigrazione era sconosciuta, le tasse molto basse, come pure il costo della vita, il tesoro era floridissimo, l’economia in crescita, la percentuale dei poveri era pari al 1.34% (come si ricava dal censimento ufficiale del 1861) in linea con quella degli altri stati preunitari. La popolazione dai tempi del primo re della dinastia borbonica Carlo III (1734) a quelli di Francesco II si era triplicata e questo indicatore, a quei tempi, era un indice di aumentato benessere (è chiaro che si parla di livelli di vita relativi a quei tempi quando il reddito pro capite in Italia era meno di un quarantesimo di quello di oggi e molte delle comodità attuali erano inesistenti), la parte attiva era poco meno del 48%. Contrariamente a quanto affermato dalla storiografia ufficiale, la politica dei sovrani borbonici fu improntata a diversificare le attività produttive del Sud favorendo lo sviluppo dell’artigianato, del commercio e della prima industrializzazione degli stati preunitari italiani, superando, in questo modo, i confini di un’economia basata quasi esclusivamente sull’agricoltura, che, in realtà, rappresentava l’attività prevalente anche nel resto d’Italia e di gran parte d’Europa. All’inizio, fu necessario, per permettere alle giovani fabbriche meridionali di raggiungere un livello competitivo, un sistema di protezioni doganali, analogo a quello esistente in altri Stati; il “protezionismo” fu poi gradualmente mitigato dal 1846, l’obiettivo, in quel momento, era di inserire l’industria, ormai matura, nel meccanismo del commercio europeo: si abbassarono i dazi d’importazione, che precedentemente potevano arrivare anche al 20%, si strinsero numerosi trattati commerciali compresa la lontana India dove, dal 1852, era attivo un console delle Due Sicilie e dove arrivò, primo tra gli italiani, un bastimento meridionale. La critica liberista, con in prima fila economisti meridionali come Villari e Scialoja, già esuli per motivi politici, ha bollato la politica economica dei sovrani meridionali, definendola un “fallimento autarchico”, figlia del loro “paternalismo” e del “protezionismo” (le industrie meridionali, ad esempio, sono state chiamate “baracconi di regime”) ma questa bocciatura appare in gran parte ideologica e strumentale agli interessi della monarchia sabauda e dei suoi sostenitori, ai quali venivano forniti argomenti per calunniare i sovrani meridionali da loro spodestati; al contempo, era anche utilissima agli stessi economisti ai quali venivano assegnate le cattedre universitarie solo se erano “allineati” a questa impostazione critica. È vero che il principio su cui era basata l’economia borbonica era quello di uno sviluppo guidato e sostenuto dallo Stato che salvaguardasse gli interessi dei ceti popolari e l’autosufficienza del Mezzogiorno in tutti i settori, ma è altrettanto vero che ci si deve pur chiedere dove finissero i prodotti delle fabbriche meridionali che erano ai vertici delle industrie italiane (come vedremo in seguito) e che avevano una produzione di manufatti chiaramente superiore alla capacità di assorbimento del mercato interno meridionale, come pure a cosa servisse la poderosa flotta mercantile del Sud, che era la quarta del mondo come tonnellaggio, la cui bandiera garriva in tutti i porti (per esempio, in Francia, era seconda, come presenza, solo a quella inglese). È vero che i dazi sull’esportazione dei prodotti alimentari non erano certo di impostazione liberista, ma essi facevano parte di una politica economica statale che permetteva di vendere i generi di prima necessità ad un prezzo bassissimo, oggi si direbbe “politico”, soddisfacendo in questo modo le esigenze alimentari della popolazione; tutte le fonti, anche le più accese antiborboniche, concordano unanimemente nel confermare che nel meridione d’Italia si viveva con pochissimo; questo, però, non soddisfaceva gli interessi dei proprietari terrieri che divennero, anche per questi motivi, i più acerrimi nemici della Monarchia meridionale e interessati fautori dell’unità d’Italia. Il corso borsistico dei titoli pubblici del Sud d’Italia era elevato su tutte le piazze europee (fino a quota 120) e le sue finanze più che floride erano floridissime (come vedremo in dettaglio nei prossimi capitoli); i conti quindi non tornano a chi vuole conoscere i fatti depurati dai pregiudizi. Aggiungiamo, infine, che a uno stato come il Piemonte, che era sull’orlo del collasso economico, sarebbe stato fatale appropriarsi di una nazione che la critica antimeridionale vuole per forza dipingere come economicamente a terra e sarebbe stato stupido, e stupido certo non lo era, il banchiere Rothschild, che teneva in pugno lo stato sabaudo grazie ai suoi prestiti e che aveva quindi tutto l’interesse che fosse solvibile, non “avvertire” Cavour della non convenienza dell’operazione; in realtà, per i motivi suddetti, il Sud era un frutto golosissimo che avrebbe risolto tutti i problemi finanziari della nazione subalpina. In conclusione possiamo dire che l’economia meridionale non era né completamente liberista né completamente autarchica a guida statale, era una via di mezzo. È, però, vero che i re Borbone avevano una radicata diffidenza per il “capitalismo puro” delle altre nazioni industriali, in parte per motivi nazionalistici, in parte per motivi ideali, con una sostanziale ripulsa di orari di lavoro disumani, come pure dello sfruttamento, molto diffuso, dei bambini. In molte industrie lombarde non veniva osservata la legge sull’istruzione obbligatoria e due quinti degli operai dell’industria cotoniera lombarda erano fanciulli sotto i dodici anni, per la maggior parte bambine, che lavoravano dodici e persino sedici ore al giorno. Il Sud vantava una scuola di primissimo ordine, tanto che proprio a Napoli nacque nel 1754 la Prima cattedra universitaria al mondo di Economia Politica con Antonio Genovesi, e in Europa, le Due Sicilie si comportavano dignitosamente con un incremento annuo del PIL di circa l’1%, a distanza, logicamente, da superpotenze mondiali come Francia e Inghilterra che veleggiavano sul 2,3%; ma, nel Mezzogiorno, pur non essendo ricchi, non si moriva di fame e, come già detto, l’emigrazione non esisteva. Re Ferdinando II incentivò l’opera dell’Istituto d’Incoraggiamento, che era inizialmente alle dipendenze del Ministero dell’Interno e poi, nel 1847, del neonato Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio; questa istituzione centrale coordinava l’attività delle varie società economiche che avevano il compito di diffondere “l’istruzione tecnica specifica” agli addetti dei vari settori economici, con lo scopo di ottimizzare il loro lavoro. Negli altri stati italiani ed europei esistevano analoghe associazioni ma, di solito, erano private, mentre nelle Due Sicilie erano strumento del governo centrale, pur se negli anni si guadagnarono una certa autonomia. Furono, inoltre, creati incentivi economici anche per industriali stranieri che impiantassero le loro attività nelle Due Sicilie così imprenditori svizzeri, francesi, inglesi, accorsero nel regno, si organizzavano periodicamente fiere ed esposizioni locali e nazionali dove i vari produttori potevano esporre i loro manufatti e ricavarne riconoscimenti e premi. Così, grazie alla guida di re Ferdinando II, già nel 1843 gli operai e gli artigiani raggiunsero il 5% dell’intera popolazione occupata per poi raggiungere il 7 % alla vigilia dell’unità, con punte dell’ 11% in Campania (che era la regione più industrializzata d’Italia), queste percentuali erano in linea con quelle degli altri stati italiani preunitari. Complessivamente, per quanto riguarda la parte continentale del Regno, nel 1860 vi erano quasi 5000 fabbriche e dal censimento ufficiale del 1861 si deduce che, al momento dell’unità, le Due Sicilie, pur avendo il 36.7% della popolazione totale italiana, davano impiego nell’industria ad una forza-lavoro pari al 51% di quella complessiva degli stati italiani grazie alla cantieristica navale, all’industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria e alimentare. Dalla stessa fonte, inoltre, si ricava che il Sud, che contava 36.7% della popolazione italiana, aveva il 56,3% dei braccianti agricoli e il 55,8% degli operai agricoli specializzati, in tutto circa 2milioni 600mila unità. Nel 1858 il valore delle esportazioni delle Due Sicilie per gli Stati Uniti raggiunse 1.737.328 ducati, quello delle importazioni ducati 566.243 tra il 1839 e il 1855 la flotta mercantile aveva esportato fuori dal Regno merci per circa 89 milioni di ducati. Le Due Sicilie smerciavano i prodotti meridionali (agricoli e manifatturieri) per 85% del totale verso Inghilterra, Francia e Austria, paesi che erano in grado di acquistarli, cosa che non potevano fare gli altri stati italiani a causa della loro scarsa ricchezza. Negli ultimi anni di indipendenza del regno si cominciò a volgere lo sguardo anche verso i paesi del Mediterraneo, di cui le Due Sicilie ambivano essere la nazione guida nello sviluppo economico. Tenendo presenti questi fatti possiamo concludere affermando che “La rappresentazione del Mezzogiorno come un blocco unitario di arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul piano storico ma ha genesi e natura ideologiche. I primi a diffondere giudizi falsi sugli inferiori coefficienti di civiltà su quell’area sono gli esuli napoletani che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della Dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud”. Purtroppo, grazie all’opera di denigrazione sistematica del Meridione preunitario, “La memoria dei vinti è stata sottoposta ad un’incredibile umiliazione … più grave è stato il taglio del filo genetico per cui c’è un pezzo d’Italia che ha dovuto vergognarsi del proprio passato, e poi ci si lamenta che manca la dignità, ma la dignità proviene dal riconoscimento della propria ascendenza … bisogna prima di tutto ridare al Mezzogiorno il senso della sua precedente grandiosità, riscattare questa presunta inferiorità etnica del Sud da operazioni di tentata cancellazione della sua memoria. In realtà la “Questione meridionale”, tutt’oggi irrisolta, nacque dopo e non prima dell’unità; persino un ufficiale piemontese, il conte Alessandro Bianco di Saint-Joroz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale, scrisse nel 1864 che “Il 1860 trovò questo popolo del 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto. La pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia. Adesso veruna cattedra scientifica … Nobili e plebei, ricchi e poveri, qui tutti aspirano, meno qualche onorevole eccezione, ad una prossima restaurazione borbonica”.di Giuseppe RessaFonte: http://www.eleaml.org/sud/borbone/2sprima.html