Creato da avvcastellani il 03/05/2010

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articoli giuridici e recensioni di libri

 

 

LO STRANO CASO DEL DANNO NON PATRIMONIALE (storia recente del pregiudizio “morale”)

Post n°4 pubblicato il 12 Maggio 2010 da avvcastellani
 

In seguito alle così dette sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 11 novembre 2008 (nn. 26972/3/4/5) si è imposta una lettura unitaria dei danni biologico e morale che sino ad allora venivano considerati autonomamente: “le Sezioni Unite non hanno cancellato dal risarcibile aquiliano il danno morale...ne hanno solo imposto una nuova lettura alla luce dell'unitarietà del danno non patrimoniale” (Danno e Responsabilità – supplemento speciale ottobre 2009). Sulla base di tale considerazione la giurisprudenza successiva è stata altalenante nello stabilire i criteri di calcolo del non patrimoniale (almeno sino alla redazione delle nuove tabelle dell'Osservatorio sulla Giustizia Civile del Tribunale di Milano); la maggioranza dei Giudici si è dovuta confrontare col dato relativo al mantenimento o meno dello stesso livello di risarcimento goduto dalla vittima. Tale giurisprudenza di merito, con diverse motivazioni e criteri, ha comunque sempre mantenuto gli stessi livelli risarcitori. Nel rispetto della sentenza n. 26972/08 delle Sezioni Unite, i Giudici via via stabiliscono che la stessa: “non giustifica letture abolizioniste del danno morale: la Cassazione non fa che affermare come il risarcimento del danno alla persona debba essere integrale nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre....il risarcimento del danno morale può costituire una duplicazione del biologico, ma solo quando sia diretto a ristorare il medesimo tipo di pregiudizio (lesione al diritto alla salute): al di fuori di questa ipotesi si rinvengono invece, nella predetta sentenza, chiari indici della risarcibilità del c.d. danno morale (o, più esattamente, del ristoro nell'ambito della generale categoria del danno non patrimoniale, di quel tipo di pregiudizi sino ad oggi risarciti come danno morale)” si tratta solo di “un diverso approccio alla liquidazione del danno non patrimoniale che deve prendere in considerazione, evitando duplicazioni di sorta, tutti gli aspetti della lesione” dovrà essere risarcito “ogni pregiudizio non patrimoniale...sia il patema d'animo transeunte, sia la sofferenza derivante dal [non poter più fare]” Tribunale di Torino, 27 Novembre 2008, Giudice Ciccarelli. Prima dell'uscita delle nuove tabelle, il Tribunale di Milano, con la sentenza del 16 febbraio 2009 affermava che: “gli importi attualmente previsti nelle tabelle per il risarcimento del danno biologico non appaiono idonei al risarcimento del nuovo danno biologico delineato dalle Sezioni Unite, che dovrebbe contenere (col nome più generico di danno non patrimoniale n.d.a.) anche le sofferenze fisiche e morali connesse alla lesione”. Pertanto la considerazione unitaria del non patrimoniale ed il monito ad evitare duplicazioni di risarcimenti, non integra l'abolizione del danno morale, il quale, tra l'altro, rinasce come autonoma voce di pregiudizio con l'approvazione del DPR 3 marzo 2009 n. 37 con il quale lo Stato disciplina le modalità di riparazione dei danni alla salute subiti da personale italiano impegnato in missioni militari all'estero. In questo decreto si conferma la risarcibilità del danno morale, affermandosi anche che: “la determinazione della percentuale di danno morale viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della sofferenza e del turbamento dello stato di animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi ed in rapporto all'evento dannoso, in una misura fino ad un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico”; (pertanto non solo il riconoscimento di un pregiudizio morale da mettere accanto alla lesione della salute, ma addirittura un danno morale con una sua autonomia risarcitoria ed in misura molto elevata: 2/3 del biologico) e se ciò vale per il personale militare non si vede perché non debba valere per i semplici cittadini. In poche parole per le Sezioni Unite “la valutazione della sofferenza deve essere adeguatamente recuperata dal giudice, rimanendo legittimo il ricorso alla liquidazione in percentuale del danno morale rispetto a quello biologico, ma non le liquidazioni automatiche e immotivate” Tribunale Torino 17 marzo 2009. Al biologico quindi, deve essere aggiunto il ristoro di quel patimento interiore causato dall'illecito sia per il turbamento e per i disagi che esso ha in concreto comportato, sia per le privazioni cui ha costretto la vittima. Ovviamente tale danno va presunto dalle circostanze che lo hanno determinato, e va quantificato in via equitativa, rimanendo aperta la strada per la determinazione di esso in una frazione del biologico (2/3 per il DPR 37/2009). Oltre a ciò va anche considerata la persona del soggetto che subisce le lesioni, tanto che le stesse Sezioni Unite sottolineano la necessità di una adeguata personalizzazione del danno così ottenuto. Tenendo conto di tutto ciò, dopo diversi mesi di meditazione, sono arrivate le nuove tabelle del Tribunale di Milano. Sino alle “sentenze gemelle” il Tribunale di Milano, nel calcolo del danno alla persona sommava: il danno biologico in base a tabelle uniformi (permanente e temporaneo), l'eventuale personalizzazione del danno (variazione sino al 30% in aumento del danno biologico), il danno morale (nella misura da ¼ ad ½ del biologico). Oggi pur nella considerazione della unitarietà del danno non patrimoniale, il Tribunale di Milano adotta una tabella di valori monetari medi (in base alla giurisprudenza) rapportati alla lesione subita e all'età del danneggiato, che andranno aumentati in base agli aspetti anatomo – funzionali e relazionali conseguenti alla lesione (maggior sforzo nel lavoro, nello sport, nel rapportarsi con il proprio aspetto etc.) ed ulteriormente aumentati in base alla c.d. personalizzazione inerente alla vera e propria sofferenza soggettiva (es. specifica penosità del fatto lesivo).

 
 
 

IL LIBRO, NON GIURIDICO, CHE STO LEGGENDO. RUBRICA DELLA DOMENICA. RACCONTO A EPISODI.

Post n°3 pubblicato il 09 Maggio 2010 da avvcastellani
 

Si inizia con

Manuale pratico della transizione. Dalla dipendenza del petrolio alla forza delle comunità locali”.

Autore Rob Hopkins. Arianna Editrice.

 

EPISODIO 1

 

 

Se la vostra risposta alle seguenti domande è “SI”, probabilmente la lettura di questo libro non vi interesserà:

 

In futuro saremo più ricchi di adesso?

 

La crescita economica potrà proseguire all'infinito?

 

Il possedere le cose ci rende felici?

 

La globalizzazione è un processo inevitabile al quale tutti dobbiamo adattarci?

 

Se la risposta invece è “NO” oltre a giudicare questo libro ben scritto, avrete l'opportunità di approfondire gli argomenti del cambiamento climatico e del picco del petrolio senza eccessivi catastrofismi e con un insolito ottimismo.

 

L'autore ritiene che il “picco del petrolio” e cioè il momento in cui, per l'eccessivo sfruttamento di questa risorsa, non potremo più godere di energia abbondante e a basso costo, è molto vicino se non già addirittura raggiunto.

 

La fine dei carburanti a basso costo, non significa che continueremo ad arrabbiarci per il costo del pieno anche se tutto continuerà come prima; significa invece che spariranno, in tempi più o meno lunghi, i seguenti prodotti derivati dal petrolio: ASPIRINE, NASTRO ADESIVO, SCARPE DA GINNASTICA, COLLE, VERNICI, COLORANTI, CD, DVD, LENTI A CONTATTO, COMPUTER, STAMPANTI, CANDELE e molto altro (senza contare gli oggetti ottenuti indirettamente grazie all'energia prodotta dal petrolio che manda avanti le industrie: praticamente tutti).

 

Cosa succederà allora? L'autore non lo sa, ma si immagina che il picco del petrolio potrebbe potenzialmente produrre povertà, fame, guerre per il controllo degli ultimi giacimenti dei combustibili fossili (sempre più rari e preziosi). Quale la soluzione?

 

La soluzione, per l'autore, è: costruire la resilienza delle piccole comunità.

 

Che cos'è però la resilienza? In poche parole è la capacità di resistere a livello locale e nel modo migliore possibile alla fine del petrolio. Ma qualsiasi definizione non è efficace quanto l'esempio portato dall'autore sotto forma di storia:

 

La Valle di Hunza:

Nel 1990 ho visitato la Valle di Hunza nel Nord del Pakistan, un luogo che, fino all'apertura dell'autostrada del Karakorum, nel 1978, era rimasto quasi isolato dal resto del mondo.....Mi trovavo di fronte ad una società che riusciva a vivere secondo le proprie possibilità e aveva sviluppato un incredibile e sofisticato, ma nel contempo semplice, modo per farlo. Tutti gli scarti, compresi i rifiuti umani, venivano diligentemente riciclati e ritornavano nel ciclo naturale. I terreni, che erano stati ritagliati sulle montagne nel corso dei secoli, venivano irrigati grazie a una rete di canali che portava l'acqua dei ghiacciai circostanti, ricca di minerali, fino ai campi con incredibile precisione. Ovunque vi erano albicocchi, meli, ciliegi, mandorli, noci e ogni sorta di alberi da frutto. Tutto a torno e sotto gli alberi crescevano patate, orzo, frumento e altri tipi di ortaggi. I campi erano ordinati, ma non recintati. Le piante crescevano in piccoli gruppi diversificati, piuttosto che in grandi monoculture.....Dovendo continuamente camminare su e giù per le montagne la gente di Hunza è famosa per lo stato di forma fisica.....I sentieri erano stati pavimentati con pietre e non erano percorribili in macchina, ma solo a piedi o con gli animali. Sembrava che le persone avessero sempre il tempo di fermarsi a chiacchierare, oppure per giocare con i bambini, che correvano scalzi e sporchi per i campi. Le albicocche venivano raccolte e stese a maturare sui tetti delle case..........Gli edifici costruiti con mattoni di fango prodotti con materiale del posto, erano caldi d'inverno e freschi d'estate........Semplicemente Hunza è il luogo più bello, tranquillo, felice e ricco che abbia mai visitato in vita mia.......Se in quel momento Hunza fosse rimasta tagliata fuori dal resto del mondo e scollegata dalle autostrade dell'economia globale, attraversate da camion carichi di merce, non ne avrebbe risentito minimamente. Se ci fosse stata una crisi mondiale dell'economia, anche qualora questa fosse collassata, i suoi effetti sarebbero stati minimi sulla Valle di Hunza. I suoi cittadini erano troppo resilienti, felici, in salute e legati tra loro da un forte sentimento comunitario per risentirne”.

 

In seguito nella Valle di Hunza cominciarono a fare la loro comparsa i primi sacchi di fertilizzante, il cemento, i cibi zuccherati e le bevande gasate, i piccoli trattori che rendono meno faticoso il lavoro dei campi, tutte novità molto attraenti portate dalla globalizzazione, che tuttavia in cambio chiede l'abbandono dell'economia resiliente per abbracciare una forte specializzazione, l'abbandono dell'autosufficienza alimentare ed energetica, tanto che la fine del petrolio, di cui ci si sarebbe difficilmente accorti ai “vecchi tempi”, oggi sarebbe la maggiore disgrazia immaginabile anche per i contadini di Hunza.

 

A domenica prossima per l'EPISODIO N. 2

 

 

 

 
 
 

LA DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA DELLE PERSONE CELEBRI 1

Post n°2 pubblicato il 03 Maggio 2010 da avvcastellani
 

Ci sono situazioni in cui anche chi è soggetto alla così detta esposizione mediatica (per propria scelta di vita professionale o suo malgrado) può ritenere violato il proprio diritto all'onore e alla reputazione da un servizio giornalistico. Si rivolgerà pertanto al proprio legale il quale, qualora col proprio assistito scelga di procedere civilmente nei confronti dei responsabili, dovrà tenere conto della particolare situazione soggettiva del danneggiato.

Va innanzitutto tenuto presente che la Legge 8 febbraio 1948 n. 47 (e successive modifiche), stabilisce che in presenza dei reati commessi a mezzo stampa, ai fini del risarcimento del danno, rispondono, solidalmente con gli autori del reato, anche il proprietario e l'editore della pubblicazione.

Il risarcimento richiesto si riferisce ovviamente al danno non patrimoniale derivato dall'illegittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica, dal quale sia derivata la lesione della reputazione (e/o immagine).

Si è fatto cenno al diritto di cronaca e di critica in quanto, il loro legittimo esercizio agisce da scriminante rispetto a comportamenti effettivamente lesivi dell'onore del personaggio noto.

In effetti il diritto sancito dall'art. 21 della Costituzione nel caso preso in esame viene in contrapposizione col diritto costituzionale alla tutela della personalità umana, in tutte le sue componenti ed articolazioni, in particolare sotto il profilo della tutela dell'onore e della reputazione, sancito dall'art. 2 Cost.

L'interesse comune della collettività al controllo sociale effettuato dalla stampa, consente, nella contrapposizione dei diritti costituzionali sopra descritti, in particolari condizioni, a che il diritto di cronaca prevalga, o “indebolisca”, il diritto alla tutela della propria onorabilità. Naturalmente ciò è consentito solo entro limiti ben precisi e solo in presenza di condizioni ormai ben delineate dalla giurisprudenza.

Il compito del legale sarà, pertanto, quello di valutare se vi siano le condizioni perché si possa dire compiuto il bilanciamento tra tali diritti (tutti di rango costituzionale) considerando la presenza o meno di tali condizioni, orientandosi nell'analisi circa l'esistenza di ben determinate caratteristiche:

1. utilità sociale dell'informazione divulgata;

2. verità oggettiva o putativa;

3. forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione.

Il punto di riferimento unanimemente riconosciuto, che ha dettato un vero e proprio “decalogo del giornalista”, è la Sentenza del 18 ottobre 1984 n. 5259 della Suprema Corte di Cassazione, la quale ha sancito: “Perché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore possa considerarsi lecita espressione del diritto di cronaca e non comporti responsabilità civile per violazione del diritto all'onore, devono ricorrere tre condizioni 1) utilità sociale dell'informazione; 2) verità oggettiva, o anche soltanto putativa purché frutto di diligente lavoro di ricerca; 3) forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, che non ecceda lo scopo informativo da conseguire e sia improntata a leale chiarezza, evitando forme di offesa indiretta”.

L'utilità sociale.

Tale aspetto è ovviamente presente nei casi di esercizio del controllo sociale effettuato dalla stampa nei confronti del “potere” nelle varie accezioni che questo termine può assumere. Tuttavia il diritto di cronaca connesso ai fatti che in senso lato potrebbero suscitare l'interesse dei lettori, andrebbe analizzato in maniera più compiuta non consentita dalla necessaria brevità di un articolo. Si procederà pertanto all'analisi degli altri due elementi rinviando la trattazione di questo punto ai prossimi aggiornamenti del blog.

La verità dei fatti.

Il giornalista ha il preciso dovere di attenersi alla verità dei fatti, che non è rispettata quando, pur essendo vere le singole circostanze riferite, siano, dolosamente o colposamente, taciuti altri fatti strettamente ricollegabili alle prime, tanto da mutarne completamente il significato: “la verità non è più tale se è mezza verità (o comunque, verità incompleta)”. I Supremi Giudici si spingono ad affermare che la “mezza verità” è più pericolosa della dell'esposizione di fatti falsi, questi ultimi infatti consentono una più facile possibilità di difesa di chi è oggetto di determinate accuse, il quale sente riferito a sé un preciso fatto falso, piuttosto che un fatto vero ma incompleto: “la verità incompleta deve essere ... in tutto equiparata alla notizia falsa”.

La civiltà dell'esposizione.

La forma dell'esposizione non è civile se eccede rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o se viene meno, nel complesso dell'esposizione, il rispetto di quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto. Si rileva l'inciviltà dell'esposizione anche se la stessa non è improntata alla leale chiarezza di ciò che viene riportato. L'uso della chiarezza consentirebbe infatti, nel danneggiato, la possibilità di difendersi mediante adeguate e concise (perciò efficaci) smentite. Il difetto intenzionale di leale chiarezza è più pericoloso di una notizia completamente falsa o di un commento triviale. La Suprema Corte elenca anche una serie di espedienti (subdoli come gli stessi giudici le definiscono), che potrebbero essere utilizzati dai giornalisti per aggirare, tentando di rimanere senza sanzione, l'obbligo di chiarezza:

- il sottinteso sapiente: cioè l'uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, in senso più sfavorevole.

- gli accostamenti suggestionanti: che si ottengono mettendo in sequenza la descrizione dei fatti riguardanti il danneggiato con la descrizione di fatti attribuiti a terzi ovvero con giudizi negativi anche se apparentemente espressi in forma generale ed astratta, di per sé ineccepibili, ma che i lettori sono inevitabilmente spinti a riferire alla persona che si vuol mettere in cattiva luce a causa del contesto in cui tali descrizioni o giudizi sono inseriti.

- Il tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato specie nei titoli, consistente nella artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre o di per sé insignificanti. Le insinuazioni anche se più o meno velate, usando formule del tipo: “non si può escludere che ...”

I tre parametri appena descritti, necessari affinché gli autori del servizio giornalistico possano essere sollevati da responsabilità di tipo civilistico, sono ripresi anche dalla giurisprudenza posteriore alla già citata Cassazione n. 5259/1984, per tutte basterà citare la Sentenza della Corte di Cassazione del 27 gennaio 2009 n. 1976.

Nei prossimi aggiornamenti del blog verrà pubblicato l'articolo: LA DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA DELLE PERSONE CELEBRI 2 ove verranno analizzati i criteri per il calcolo del danno non patrimoniale conseguente a diffamazione....

 
 
 
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