|
Area personale
Tag
Menu
I miei Blog Amici
verità
di charles bukowski
la poesia prudente
e gli uomini
prudenti
durano
solo lo stretto
necessario
per morire
tranquilli
Mi piace leggere
« Per elasticizzare la col... | Messaggio #14 » |
Pensavano con il diaframma, presagivano con il petto, dicevano parole profetiche con l'ispirazione, mentre l'accelerazione del battito cardiaco segnalava la prossimità di amore.
Così gli antichi vivevano il loro corpo.
Una riserva infinita di significati di cui noi abbiamo perso non solo l'origine, ma anche la traccia.
E ciò avvenne quando la scienza quattro secoli orsono ridusse il corpo a una sommatoria di organi, senza altro senso e altro significato se non quello della pura funzionalità.
Per questo noi disabitiamo il nostro corpo e nei suoi moti, superficiali e profondi, altro non sappiamo leggere che benessere o malessere.
Niente di culturale, niente di espressivo, niente di significativo. Al massimo un po' di cure estetiche per rispondere ai canoni di presentabilità.
Questa riduzione del corpo a "organismo" andò a tutto vantaggio dell'anima che sequestrò tutti i significati simbolici del corpo, come sempre accade allo spirito che vive e si alimenta dell'impoverimento della materia.
Tra scienza e religione c'è molta più complicità di quanto si pensi.
L'una e l'altra vivono e si alimentano della negazione del corpo come lo conosce il mondo della vita a cui, nella sua corrispondenza con Cartesio, faceva appello la regina di Svezia quando al filosofo obiettava che per percepire il suo corpo non aveva bisogno di idee chiare e distinte, né di particolari costrutti fisicomatematici.
La risposta di Cartesio non lasciò margini di incertezza: "Vedo che, nonostante il suo rango, lei pensa come il popolo".
Eppure proprio il linguaggio popolare conserva ancora una traccia dell'antico simbolismo, una memoria non estinta delle valenze di significato a cui i nostri organi rinviano, e perciò parla di un "pugno nello stomaco" per indicare un'offesa, di "reni spezzate" per un'irrimediabile sconfitta.
Dice che "ci vuol del fegato" per un'azione che richiede coraggio, lo stesso fegato che uno "si rode" quando medita la vendetta. "Un nodo alla gola" sta per una commozione profonda che ci impedisce di parlare e di agire, quasi un arresto del nostro rapporto col mondo, perché dalla gola passa anche il respiro, nella cui accelerazione trova espressione l'ansia, mentre nel ritmo cadenzato e profondo c'è la padronanza del mondo e il governo di sé. Il cuore poi è una miniera di simboli perché è la sede dell'a-more segnalata dall'accelera-zione del suo battito, e insieme della morte segnalata dal suo arresto.
Amore e morte, e non amore e vita, sono i due poli in cui si dibatte l'esistenza, perché non c'è vita che si sostenga sen-za una parvenza d'amore, reale o immaginario che sia. Per que-sto gli amanti, che avvertono nella morte non tanto la fine della loro vita quanto la fine del loro amore, si dicono l'un l'altro: "Ti do il mio cuore". Se il tuo vien meno c'è il mio, e se vien meno il mio c'è il tuo. In forza del nostro amore noi sopravviveremo oltre i limiti della nostra vita.
Per l'amore è al cuore che si fa appello, non ai genitali, che pure sono adibiti per "fare" l'amo-re. Perché i genitali appartengo-no a una vita che non ci riguarda. Essi sono lì a testimoniare non il nostro amore, ma l'amore che la specie ha di se stessa. Anche se da qualche tempo abbiamo sciolto il godimento dalla riproduzione e sottratto il gesto ses-suale al destino per consegnarlo alla libera scelta, non abbiamo interrotto quel nesso che dalla morte (di cui l'orgasmo è una simulazione) porta a una nascita, se non di un figlio, certo di noi stessi che, dopo una vicenda d'amore non dovremmo più essere quel che eravamo.
Rinati. A riprova che la vita è generata da amore. La "nostra" vita che il cuore cadenza, non quella della specie a cui sono preposti i genitali, sempre accompagnati da un vissuto di non compiuta appartenenza, quasi un luogo di perdita verso un'ignota e impercepita alterità.
Siamo infatti soggetti d'amore, ma anche funzionari della specie.
Questa doppia significazione, che nei genitali si esprime, ci confonde. E dalla confusione ci difende il pudore.
Abbiamo potere solo davanti a noi. Dietro c'è la nostra vulnerabilità
Questo subire gli interessi della specie, che ineluttabilmente non coincidono con gli interessi dell'individuo, ci riporta alla nostra condizione animale e alla vergogna connessa, per cui tutto ciò che avviene "alle nostre spal-le": dalla "pugnalata alla schiena" all'amore come lo facevano Dafne e Cloe imparando dalle pecore che portavano al pascolo, ci fa prendere tutte quelle precauzioni per avere "le spalle coperte", perché il "dietro" del nostro corpo, che lo sguardo non raggiunge, è l'ignoto che ci sorprende, ci prende alle spalle a nostra insaputa.
La nostra schiena è l'inquietante, dove solo gli altri hanno potere. Di qui tutte quelle espressioni che siamo soliti usare ogni qualvolta subiamo ad opera di altri cose sgradevoli che non avevamo previsto. Abbiamo potere solo davanti a noi. Dietro c'è la nostra vulnerabilità.
Perché Platone aveva privilegiato la funzione dell'occhio sugli altri sensi
Davanti abbiamo gli occhi la cui posizione frontale segna, al dire di Platone, la differenza tra l'uomo e l'animale. Di fronte (davanti alla nostra fronte) abbiamo il mondo che si offre alla nostra visione, non circoscritta, come quella dell'animale ricurvo alla ricerca immediata del cibo, ma aperta al progetto e all'ideazione. "Vedere" e "ideare" hanno la stessa origine nel verbo greco "idein".
Le idee sono visioni che trascendono il visibile. Per questo i poeti, che per gli antichi greci percepivano oltre l'immediatamente percepibile, ricevevano dagli Dei il dono della cecità in cambio dell' "epopteia", della "vista superiore". Abitati dal dio e perciò entusiasti (entheos) traevano dal profondo del loro respiro parole "ispirate".
Non "specchio dell'anima", come noi usiamo dire con il nostro spiritualismo riduttivo, ma specchio del mio intero me stesso. L'occhio, infatti, ci rivela. Non tanto agli altri che di noi leggono quello che già presumono di noi, ma a noi stessi.
È sempre Platone a ricordarcelo: "Se uno, con la parte migliore del proprio occhio (la pupilla) fissa la parte migliore dell'occhio dell'altro, vede se stesso". Per questo fatichiamo così tanto a reggere lo sguardo. Non è tanto per non rivelarci agli altri. Non vo-gliamo rivelarci a noi stessi. Non vogliamo vederci. Non voglia-mo troppa consapevolezza che ci faccia smarrire quel tanto di ingenuità e ignoranza di noi che preservano lo spazio dell'insolito e dell'ancora sorprendente
Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso |
Cerca in questo Blog
Ultimi commenti
Inviato da: elbirah
il 26/01/2009 alle 18:14
Inviato da: Anonimo
il 26/03/2008 alle 17:39
Inviato da: ass.amorepsiche
il 26/03/2008 alle 16:58
Inviato da: Anonimo
il 23/03/2008 alle 13:06
Inviato da: Anonimo
il 03/03/2008 alle 22:46