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Filippa Filippazzi

Post n°302 pubblicato il 04 Gennaio 2007 da liberante
 
Foto di liberante

Se solo i miei genitori ci avessero pensato un attimo.
Se solo avessero pensato che un nome del genere dovevo portarmelo addosso.
Se solo avessero sentito il suono di quel Filippazzi.
Se solo non fossero stati ottusi come solo riescono ad essere ottusi i bottegai da tre generazioni, e non avessero pensato che il fondatore della dinastia, cioè il padre di mio padre, mio nonno, doveva essere onorato dal primogenito.
Dalla primogenita in questo caso.
Lui, il nonno si chiamava Filippo Filippazzi, che già era, quanto meno, una ridicola allitterazione, ma al femminile diventa un ingombro, un qualcosa che dalle elementari fino a tutt’oggi assomiglia ad una barzelletta.
Per gli altri, non per me.
Sono passata attraverso giochi di parole e scambi di sillabe, maturando un acre odio per il mio nome.
I bambini sono crudeli e cattivi e fin dai primi giochi nel cortile sotto casa cantilenavano
“Filippazzi lanciarazzi”
che era ancora una dolcezza.
Crescendo è cresciuta proporzionalmente la malignità e gli ormoni impazziti dei maschietti degli ultimi banchi creavano riferimenti fallicci a profusione
“Filippa Filicazzi”
“Pippa Pippazzi o Pippacazzi”
“Fileppa Leccacazzi”
“Filecca Fallicazzi”
e via argomentando.
Insomma ne porto il peso ancora chè il microcervello dei miei colleghi elabora le stesse trite e ritrite storpiature del mio nome che i miei foruncolosi compagni di liceo avevano già inventato anni fa.
E poi se almeno il buon dio avesse avuto la mano leggera con me e mi avesse fatto un po’ più bella. Mica pretendevo un fisico perfetto e un viso perfetto.
Ma perché questi tristi capelli di un insulso castano, lisci che nemmeno la permanente più agguerrita riesce a rallegrare.
Per non parlare del naso “proprio come quello del nonno Filippo buonanima”, proprio lungo e con la gobba come quello del nonno Filippo e in più pieno di lentiggini che non è vero nella maniera più assoluta che fanno tanta tenerezza.
Gli occhi sono banalmente castani anche loro e non hanno quelle ciglie che ombreggiamo lo sguardo, nemmeno con il rimmel infoltente-allungante.
Ecco, ho una bella bocca, labbra ben disegnate e denti sani. Ottima dentatura. Come cavallo andrei bene.
La voce è minima, nel senso che non parlo molto e quando lo faccio cerco di fare meno rumore possibile.
Sono alta, troppo.
E secca come un asse da stiro. Ci sono stati anni che ero l’invidia delle mie compagne di scuola dal seno prosperoso, chè andava di moda la donna androgina. Ma i ragazzi che mi piacevano, a loro non piacevo e preferivano quelle un po’ grassocce, piccolette e con tante tette e le fortunate a loro volta mi dicevano
“Ah fossi piatta come te!”
e avrei voluto rispondere
“Se fossi piatta come me staresti in casa come me al sabato sera e invece tu vai a ballare con quello lì che mi piace tanto”.
Ormai sono passati gli anni e adesso posso anche riderci sul mio aspetto fisico.
Ho la mia vita, il mio lavoro, le mie amicizie, la mia casa.

(continua…forse)

 
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DA LEGGERE

 

Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)   

 

" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......

..... continua qui  

 

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