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Post N° 361
Il vino è leggero, dorato nel calice di vetro sottile, freddo, appena un po’ frizzante e brusco al gusto. Appanna e le goccioline scivolano sul piano del tavolo,
Aspro e secco.
Lo bevo a sorsi larghi, disseta e mi fa ridere, spazza via l’indifferenza e mi riconduce all’attenzione.
Non ubriaca un vino così leggero, rende il sentire più vaporoso, lo innalza di un tono.
La tonalità più alta sulla tastiera del pianoforte, dove le note trillano allegre.
Scioglie i grumi di rabbia e dolore, calcificati dalla dimenticanza in cui li ho messi perché non facessero male.
Con un dito disegno sul vetro appannato del bicchiere un occhio, spalancato di stupore, e mi guardo guardare.
Un occhio per vedere oltre le cose che non capisco e non accetto, per vedere un significato che non so cogliere.
Stringo nella mano il bicchiere freddo e cancello l’occhio, inutile nella sua assurda pretesa di visione totale.
Non esiste significato per il dolore fine a se stesso.
Inutile il mio pianto, inutile la tua rabbia.
Noi non sappiamo perché resta vita dove non dovrebbe essercene più, non capiremo mai perché e in che punto e chi decide di tagliare il filo e rendere al buio o alla luce quella memoria di noi che non sapremo mai cosa sarà, se non nel momento stesso in cui la vivremo morendo.
Non potremo raccontare a nessuno cosa c’è dietro la porta che la Nera Signora apre per noi.
Verso dalla bottiglia l’allegria del vino freddo.
Donna anche la morte, la Nera Signora e se fosse uomo e se non fosse nera?
Il Bianco Signore, che annulla nel bianco del non essere tutto quello che è vita.
La vita rossa e colorata di sangue e fragole, di fiori in boccio e di foglie secche.
La vita di risate e promesse, di pianti e ferite, di passione e carne, di estasi e incanto.
La vita di sbagli, incertezze, dubbi, grandi battaglie e stupide vittorie, di mancanze, menzogne, fame e sete, pelle, capelli, occhi, rocce.
La vita che diventa il mare e l’orizzonte senza limite, la spiaggia e la sabbia da calpestare, calda di sole e fredda di luna e di stelle e stelle da contare nelle notti dell’Insonnia.
La vita sincera e fluida, impacciata, timida, gelosa, traditrice.
La rabbia di vita e la voglia di vita, mai sazia né dell’una né dell’altra.
La vita e l’amore, beffardo e insolente, complicato quanto di più non potrebbe essere, eppure semplice come la filastrocca dei bambini, l’amore che fa rima con cuore e con fiore, l’amore sghembo e irrisolto di questo giorni dispari, l’amore che brucia nella carne e accende il sangue, l’amore che trasforma la notte e colora il giorno.
Guardo nel bicchiere l’ultimo sorso di vino e brindo.
Non so se alla vita o alla morte, forse all’amore, certamente a me stessa.
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DA LEGGERE
Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)
" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......
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