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Ci provo.

Post n°367 pubblicato il 11 Luglio 2007 da liberante

Ci provo a capire come può una tela bianca e del colore diventare luce, inventando il sogno.
E d’altra parte sarei una stupida a non provarci, con tutte le volte che l’ho visto mentre impastava colori e li stendeva. Li guardava con occhi affamati e ci metteva dentro le dita per scioglierne i grumi.
E con la testa inclinata a sinistra e un pezzetto di carbone nella mano destra disegnava i contorni, con un tratto leggero e veloce, senza fare attenzione al segno nero sulla tavola bianca, ma concentrato sul modello e non era importante fosse una ragazza nuda, la stessa che la notte prima si era scopato, tre mele gialle o il prato sotto casa. Deciso e svelto, ma così sottile quel segno che poteva vederlo solo lui.
Era poi il colore che dava la forma e dalla forma la sostanza e dalla sostanza la luce.
Teneva in mano il pennello con tre dita e non era mai un movimento fluido, ma a scatti e sobbalzi, irregolare.
A volte piccoli tocchi, come puntini, infiniti puntini, che si attaccavano uno all’altro e muovevano gli azzurri dei cieli, fino ad arrivare ad essere una sensazione di vento.
E poi stava lì, fermo, davanti alla tela, seduto di sbieco sullo sgabello, che avresti pensato stesse dormendo, invece guardava da sotto gli occhi socchiusi il colore che si asciugava.
Borbottava, a volte, parlando con il colore, borbottava che non gli piaceva il colore asciutto, ed allora metteva insieme ancora i colori e non ci potevo credere quando mescolava pochissimo rosso vermiglio con il celeste e con il dito punteggiava il cielo di un nulla e quel nulla cambiava la luce.
Lui giocava con i colori e trovava la luce.
A volte erano veloci pennellate che davano direzione e imponevano l’orientamento e la prospettiva.
Grossolane e sgraziate, come se la rabbia esplodesse in quei verdi di prati improbabili in cui i fili d’erba erano i fili del pennello sgranati.
Ci provo a capire.
Che troppe volte l’ho sentito urlare alla ragazza che era seduta nuda davanti a lui
“Guardami piccola troia, guardami come mi guardavi quando ti scopavo stanotte, fai lo sguardo perso del piacere, non quello stolto della tua ignoranza.”
E poi con pochi segni tracciava la mappa di quel corpo perfetto e degli occhi. La scacciava con male parole e impastava i colori.
Non aveva bisogno di modelli per colorare la luce.
L’aveva dentro di sé e la tirava fuori con fatica e tormento, la inseguiva nei rosa della pelle e nei neri delle ciglia. Nei seni e nei peli. Nei capelli ci metteva le dita, chè il pennello non era sufficiente a sfumare i riccioli e la luminosità ondeggiante della curva dei capelli vicino alle orecchie.
A volte con collera e frenesia, con l’impazienza di arrivare al risultato che vedeva dentro di sé e non su quella tela.
A volte, con una estenuante calma che reprimeva e comprimeva in un gesto d’impotenza la materia, che non si lasciava addomesticare.
Ci sono stati periodi in cui aveva almeno trenta lavori iniziati e non finiti e ne iniziava ancora uno nuovo per smettere di lavorarci e riprendere con un altro, in cui incastonava un papavero per volta di un immenso campo di papaveri.
Mi diceva
“Balia, tu che mi conosci da quando bevevo il latte dal tuo seno e sai quello che io non so, perché la luce non è mai uguale e non riesco a tenerla tra le dita?”
Ridevo e continuavo a rammendare la camicia e lui rideva e usciva e stava fuori giorni e notti e tornava randagio e sporco, affamato e stremato, pieno di tutto il male del mondo. Dormiva fino a non avere più sonno e rinasceva ogni volta con lo stupore di un bambino.
A volte, con una pazienza da ragno paziente, con il pennello più piccolo creava lo sfondo su cui appiccicare la luce.
Perché era sempre e solo la luce che cercava senza mai trovarla veramente.
Ci provo a capire.
Mi siedo sul suo sgabello e su questa tela bianca con la mano sporca di rosso vermiglio disegno onde e cerchi.
Lui non provava.
Per lui ogni tela bianca era già quello che sarebbe diventato, il quadro perfetto e la luce che da dentro gli illuminava il viso, la travasava nei colori.
Mai soddisfatto del tutto, mai contento, mai veramente felice, se non nei piccoli attimi in cui dimenticava che la luce non si fa catturare e si faceva lui catturare dalla luce.
Ci provo a capire, ma a me restano solo le mani sporche e segni insignificanti.
Quando tornerà riderà dei miei goffi tentativi e con estrema pazienza farà dei miei scarabocchi la vestaglia rossa di un suo ritratto.

Finchè avrò vita gli starò accanto, per fare tutto quello che posso per lasciarlo con l’unica preoccupazione che davvero gli interessa, la ricerca della luce.
Da quando sua madre me lo mise in braccio dicendomi che non poteva allevare un bastardo per me è stato più figlio di tutti gli altri che mi hanno lasciato.
Ci provo a capire.


 
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DA LEGGERE

 

Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)   

 

" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......

..... continua qui  

 

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